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venerdì 25 marzo 2016

Ripensare l'economia: se la crisi finanziaria diventa crisi d'identità

di Alberto Battaglia

A distanza di anni dalla peggiore crisi dal 1929 non è ancora chiaro se le massicce contromisure messe in atto per risollevare l'economia globale abbiano centrato l'obiettivo o siano solo servite a prendere tempo. “La politica monetaria da sola non riesce a promuovere una crescita bilanciata”, si legge nella dichiarazione finale del G20 di Shanghai, teatro nel quale lo scorso febbraio le grandi potenze si sono riunite per coordinare le proprie mosse di politica economica a fronte del rallentamento dell'economia.




Lo sforzo collettivo dovrebbe promuovere “l’uso flessibile della politica fiscale per rafforzare la crescita, l’occupazione e la fiducia”. A prima vista sembrano le consuete dichiarazioni d'intenti, ma le tonalità, rispetto al passato, stanno cambiando in modo sostanziale.


Lo sviluppo degli ultimi anni, infatti, è stato segnato da una serie ritornelli che non sono mai usciti dall'attualità del dibattito pubblico: quantitative easing, riforme, austerità. Ad essi si è aggiunto, in tempi più recenti, un altro termine che appariva ormai desueto: deflazione. Otto anni dopo l'inizio della Grande Recessione si discute ancora sul come rivitalizzare un'economia che, forse, non è mai veramente ripartita, soprattutto in Europa. Che la scienza economica abbia mostrato qualche limite nell'indicare la corretta via d'uscita lo ha riconosciuto anche uno dei più noti studiosi del modello teorico dominante, quello mainstream.

«Sarebbe stato intellettualmente irresponsabile e politicamente poco saggio, pretendere che la crisi non cambiasse le nostre visioni riguardo al modo in cui funziona l'economia», scriveva lo scorso agosto Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario internazionale, nonché autore del più diffuso manuale di macroeconomia, «Perciò, ripensare, o espandere i limiti dell'economia non è stata una scelta, ma una necessità». Ad interrogarsi sull'efficacia dei modelli economici comunemente insegnati oggi non è solo il più studiato fra i suoi fautori: anche moltissimi studenti, da alcuni anni, si stanno organizzando per riformare l'insegnamento di questa materia.Rethinking economics è un elemento importante di questa virata culturale, figlia della generazione cresciuta al suono dei leitmotiv del 2008. Dopo la prima favilla baluginata nel Regno Unito, il network studentesco si è diffuso nelle università di numerosi paesi del mondo, con un obiettivo primario: restaurare il pluralismo nell'insegnamento dell'economia.

«Il genere di pluralismo che promuove Rethinking economics è triplice: teorico, metodologico e interdisciplinare. Il fine ultimo è quello di modificare i curriculum universitari; in qualche caso è già avvenuto, anche se non in Italia», dice Nicolò Fraccaroli, cofondatore del gruppo italiano di Rethinking economics. Nicolò non è nuovo agli interessamenti da parte dei media: già due anni fa, quando il network era ai nastri di partenza nel nostro Paese, era stato raggiunto dal Financial Times. Un tempo data per scontata, la dialettica fra diverse scuole del pensiero economico si è ormai diradata, se non completamente dissolta, in favore dell'approccio mainstream. Fraccaroli tiene a precisarlo: reintrodurre tale dialettica non significa altro che ripristinare una dignità paritaria ad altre scuole, come quella austriaca, post-keynesiana, behaviorista, o marxista. La realtà attuale, al contrario, vede il percorso universitario dello studente di economia spesso carente di stimoli storici, anche negli esami opzionali.

Il bisogno d'interpretare la realtà al di fuori dal modello mainstream, però, non è solo culturale: per gli studenti di Rethinking economics la sete di pluralismo è cresciuta assieme all'insoddisfazione nel vedere insufficiente corrispondenza fra i teoremi dei libri di testo e gli accadimenti di questi anni. «Un punto che spinge gli studenti a criticare il mainstream proviene dalla storia: nell'immediato, la crisi del '29 venne affrontata nello stesso modo della crisi del 2008», afferma Enrico Turco, coordinatore di Rethinking economics dell'università Cattolica di Milano, «allora gli economisti erano convinti che attraverso la riduzione dei tassi d'interesse e dei salari gli investimenti sarebbero ripartiti. Ma ciò non si è verificato». Pochi giorni dopo il nostro colloquio, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, allargava ulteriormente il piano di politica monetaria espansiva e il taglio dei tassi, nel tentativo di scongiurare il rischio-deflazione nell'Eurozona con la stessa arma che inizialmente è servita a far rientrare gli spread dei debiti sovrani. «C'è un punto fallace nella chiave di lettura di ora e di allora», prosegue Enrico, «è il legame fra tasso d'interesse e investimenti». Per gli economisti mainstream rendere meno caro il credito è un incentivo in sé sufficiente per la ripresa della domanda di denaro per gli investimenti. Ma, ricorda Enrico, in tempi di crisi le aspettative di profitti futuri da parte delle imprese diminuiscono indipendentemente, o quasi, dal costo del denaro; col risultato che l'economia stenta a ripartire anche coi tassi d'interesse sottozero. Questa, del resto, era la tesi che John Maynard Keynes, uno degli economisti di sicuro più apprezzati nell'ambiente di Rethinking, propugnava durante la Grande Depressione.

Non è un caso che l'Economist, per descrivere l'attuale situazione d'incertezza internazionale, che ha pesantemente colpito le borse quest'anno, abbia parlato di banche centrali “a corto di munizioni”: nonostante gli sforzi «le riprese sono ancora deboli e l'inflazione è bassa». Per questo, una delle proposte risolutive citate dal newspaper britannico ribalta il corrente modello di svalutazione salariale: ovvero l'idea di «generare aumenti delle retribuzioni su tutta la linea, magari usando incentivi fiscali, per indurre la spirale salari-prezzi che negli anni Settanta i policy makers cercavano di evitare». Se si andasse davvero in questa direzione il cambio di modello economico sarebbe radicale. Per comprenderlo è sufficiente una breve digressione.

La teoria mainstream, spiega il professor Enrico Bellino, ordinario di economia politica presso l'università Cattolica, applica a quello del lavoro lo stesso criterio valido in altri mercati: se il prezzo è quello di equilibrio, la domanda incontra sempre l'offerta; il salario, in questa prospettiva, è «il prezzo che rende compatibili la domanda e l'offerta di lavoro». Più il lavoro è flessibile, più è facile che la disoccupazione diminuisca attraverso un aggiustamento verso il basso dei salari. I continui richiami alla flessibilizzazione del lavoro, segue tacitamente questo modello. Un approccio che non soddisfa il professore, che si definisce di scuola ricardiana e post-keynesiana. «Il pezzo teorico che l'impostazione neoclassica non riesce a vedere», argomenta Bellino, «è che il salario nel breve periodo può essere, sì, visto come il compenso del lavoro, ma è al tempo stesso il reddito dal quale le famiglie traggono il potere d'acquisto per esprimere la domanda dei beni». Quella stessa domanda che, ultimamente, è diventata una delle priorità nell'agenda suggerita dal Fmi in vista del summit delle principali economie industrializzate a Shanghai. Se dall'ultimo G20 qualcosa di nuovo è emerso, infatti, ciò è proprio la ritrovata enfasi sulle “misure dal lato della domanda”, messe da tempo fra parentesi tanto dalla politica e quanto dalla teoria economica dominante.

Il fermento di Rethinking economics è sicuramente il prodotto di una gioventù che non si accontenta, pur con diverse sfumature interne, di un pensiero eccessivamente unilaterale. Un'esigenza sentita anche in realtà come quella dell'università Bocconi, dalla quale sono uscite le menti più fulgide del pensiero economico ortodosso, come Alberto Alesina o lo stesso Mario Monti che, nel 2011, ha portato la “tecnica” alla guida del Paese. Lo scorso 8 marzo, infatti, Rethinking Bocconi ha dato vita al suo primo incontro aperto agli studenti. A essere discussa è stata la forte matematizzazione della materia, che ha penalizzato l'apertura verso una mentalità critica. «L'economia è da sempre plurale al suo interno e così andrebbe presentata», chiosa con fermezza Enrico Turco, «perché, come diceva Joan Robinson, si studia economia proprio per non farsi fregare dagli economisti».


fonte: Micro Mega