8246 chilometri separano Elk River, in Minnesota, e Rotondella, in Basilicata.
Tra le due città esiste però un legame quasi impossibile da sciogliere, sancito da un ‘tesoro’ maledetto: 84 barre da 1.672 chili di combustibile radioattivo che da quasi cinquant’anni sono al centro di una contesa che coinvolge Italia e Stati Uniti.
Tra reciproche scaramucce, preoccupazioni e polemiche, una vera soluzione non è mai stata trovata.
Adesso però, giurano i diretti interessati, siamo vicini a mettere la parola fine a una vicenda che esemplifica il rapporto travagliato tra gli italiani e le scorie nucleari.
Ci troviamo a Rotondella, un comune di 2.700 abitanti nella provincia di Matera. Noto come il “balcone dello Ionio” per la posizione invidiabile da cui si gode della vista di tutta la costa ionica, questo borgo è salito agli onori delle cronache per un motivo meno invidiabile: la presenza di materiale nucleare unico al mondo.
Si tratta del cosiddetto Elk River, barre di combustibile irraggiato uranio-torio stoccate all’interno dell’impianto ITREC (acronimo di Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile) di Trisaia da quasi mezzo secolo.
Che cosa ci fa l’Elk River in Basilicata?
La centrale fu costruita alla fine degli anni ’60, nell’ambito di una collaborazione tra il defunto Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare (CNEN) e il suo omologo americano, l’Atomic Energy Commission.
Lo scopo dell’ambizioso progetto era quello di valutare la convenienza economica del ciclo uranio-torio rispetto al consueto ciclo uranio-plutonio, per la produzione di energia nucleare. 84 barre di Elk River – nome che deriva dal paese del Minnesota dove si trovava l’unico reattore che avesse mai prodotto quel combustibile – furono così spedite dagli Stati Uniti in Basilicata.
Tra il 1975 e il 1978 venti di queste barre furono impiegate per la sperimentazione dell’impianto, producendo tre metri cubi di prodotto finito uranio-torio. I risultati però non furono soddisfacenti ed evidenziarono la necessità di effettuare modifiche all’impianto.
I lavori di rettifica furono programmati, ma nell’aprile 1986 un evento mutò irrimediabilmente il rapporto tra opinione pubblica ed energia nucleare: il disastro nucleare di Chernobyl.
All’indomani della tragedia gli elettori italiani furono chiamati a esprimersi in un referendum sul futuro dell’energia nucleare nella Penisola. La risposta negativa, ovviamente, segnò per sempre il destino dell’impianto di Rotondella.
La fine delle attività produttive significò però l’inizio di un’epopea che si trascina fino ad oggi.
A causa della sua natura sperimentale, infatti, l’Elk River non può essere riprocessato in nessun impianto al mondo. E così da allora le 64 barre rimaste, con il loro carico di 72 kg di uranio e 1.600 kg di torio, vengono custodite in una piscina di 30 metri quadrati e alta 7 metri.
In attesa che qualcuno trovi una soluzione definitiva per il loro futuro, l’unica certezza è rappresentata dal peso sulla spesa pubblica di questo materiale abbandonato.
Secondo quanto riferito a VICE News da Sogin, la società pubblica che dal 2003 controlla il centro ITREC, i soli costi di gestione della struttura si aggirano attorno ai 4,7 milioni di euro all’anno.
Il rapporto tra il nucleare e gli abitanti
Come racconta a VICE News Pino Suriano, un giornalista di Rotondella, il rapporto tra gli abitanti della piana di Trisaia e il centro ITREC ha attraversato fasi alterne. Dalla gioia per l’arrivo di un potenziale centro di impiego si è passati negli anni alla paura per i rischi del nucleare, fino ad arrivare all’apparente stato di accettazione attuale.
“Inizialmente la percezione era positiva perché erano stati creati posti di lavoro stabili ben pagati con contratti di ricerca,” spiega Suriano. “La coscienza del pericolo è andata crescendo, e già negli anni ’80 si leggevano i primi articoli che mettevano in discussione i potenziali rischi ambientali del centro.”
Oggi, dice Suriano, il timore non raggiunge livelli allarmistici. Non ci sono persone che evitano di tuffarsi in mare o di mangiare i prodotti della zona per paura di ipotetiche contaminazioni radiologiche.
Però, anche se la quotidianità non viene condizionata, rimangono domande spinose a cui non si è ancora trovata una risposta definitiva.
“Se un residente locale si ammala pensa a possibili implicazioni legate al materiale radioattivo,” continua Suriano. “L’altro giorno ho incontrato un ragazzo che lavora nel centro [ITREC] e mi diceva ‘sono morti due miei familiari nel giro di poco tempo, qualche domanda me la faccio’. Sono dubbi che ti poni solo sei coinvolto personalmente.”
Lo scorso gennaio l’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato il primo rapporto italiano sullo stato di salute dei residenti in comuni sede di impianti nucleari. Tra le zone messe sotto la lente d’ingrandimento c’era proprio Rotondella, dove sono stati analizzati i dati relativi alle morti degli ultimi 30 anni.
“I comuni di Bosco Marengo, Caorso, Latina e Rotondella hanno fatto registrare un maggior numero di eccessi di mortalità per patologie tumorali,” riporta lo studio.
In particolare, i decessi causati da malattie dell’apparato digerente e per il tumore della tiroide risultano in eccesso rispetto alla mortalità media della popolazione regionale. Tuttavia, come precisano gli autori dello studio, il numero limitato di residenti a Rotondella potrebbe aver inficiato la precisione delle stime.
Rimandare l’Elk River negli Stati Uniti: una soluzione impossibile?
La soluzione auspicata dagli abitanti e dalle associazioni è sempre stata quella di rispedire le barre di combustibile uranio-torio al mittente, ovvero gli Stati Uniti.
Il governo italiano ha tentato in tutti i modi di raggiungere un accordo con gli americani. I risultati, però, sono stati praticamente nulli.
Secondo quanto rivelato dai cable di Wikileaks, nel settembre 2004 Gianni Letta si appellò all’ambasciatore americano in Italia affinché il combustibile venisse preso in carico dagli Stati Uniti.
L’allora sottosegretario del governo Berlusconi riferì che, vista l’impossibilità di riprocessare il materiale radioattivo in Europa, sarebbe stato auspicabile trasferirlo nell’impianto di Savannah River in South Carolina, dove erano già custodite 190 unità di Elk River. Altrimenti, riporta il cablo in tono quasi minaccioso, il governo italiano sarebbe stato costretto a spedire le scorie in Russia, l’unico paese disponibile ad accoglierle.
Come si legge su un nota successiva, però, il Dipartimento dell’Energia chiuse la porta in faccia all’Italia rispondendo così: “Il combustibile non può essere accettato a far parte di alcun programma esistente.”
Due anni più tardi, nel febbraio 2006, Letta tornò alla carica. Eravamo in piena campagna elettorale e, come Letta lascia trasparire, il governo Berlusconi vedeva nell’eliminazione delle barre di Elk River un’occasione per raccogliere voti preziosi in Basilicata.
“La questione è delicata per la coalizione del Premier Berlusconi, il quale dovrà affrontare una dura battaglia per la rielezione,” riporta il cablo redatto dall’Ambasciata americana a Roma. “La zona vicina a Matera sarà un terreno di scontro importante nelle elezioni del 9 aprile. Da questo ne segue l’interesse del governo Berlusconi di smorzare la pubblicità negativa causata dalle manifestazioni contro il combustibile.”
Anche questa volta però il tentativo andò a vuoto e le barre non lasciarono le piscine di Trisaia.
Nelle sue lettere all’ambasciatore americano Letta faceva riferimento a un protocollo internazionale promosso proprio dal governo di Washington nel 2004.
Si tratta del programma GTRI (Global Threat Reduction Initiative) che prevede il trasferimento e la successiva messa in sicurezza di materiale radioattivo ad alto rischio per la comunità internazionale.
Come spiega l’Agenzia Nucleare statunitense, lo scopo è quello di prevenire che il materiale nucleare finisca nelle mani di terroristi intenzionati a fabbricare una ‘bomba sporca’, un dispositivo in grado di disperdere il materiale radioattivo nell’ambiente. L’Elk River, formato al 5 per cento da uranio 235 altamente arricchito, potrebbe far gola a chi vuole fabbricare un ordigno nucleare.
Grazie al GTRI, tra il 2012 e il 2014 17 kg di uranio arricchito sono effettivamente partiti dall’Italia alla volta degli Stati Uniti. E siccome parte del materiale era stoccato nel centro ITREC di Trisaia, si erano accese le speranze che si trattasse proprio delle barre di Elk River.
Era la notte del 29 luglio 2013 quando quando trecento uomini delle forze dell’ordine circondarono il perimetro del centro di Rotondella. In tutta segretezza, un camion per il trasporto di materiale speciale uscì dai cancelli diretto, si scoprirà in seguito, all’aeroporto militare di Gioia del Colle.
Una nota stampa di Sogin parlò del “rimpatrio negli USA di materiali nucleari sensibili di origine americana.” Nella confusione generale la gente del posto iniziò a credere che ad abbandonare l’impianto fossero state proprio le 64 barre di Elk River. Pochi giorni più tardi però la notizia venne prontamente smentita. A lasciare l’ITREC erano stati ‘solamente’ 1.050 grammi di biossido di uranio.
La scorsa estate sono rimbalzate nuove voci su un possibile trasferimento delle barre negli Stati Uniti.
Interrogata da VICE News, la National Nuclear Security Administration (NNSA), l’agenzia americana che si occupa di sicurezza nucleare, ha però negato categoricamente questa eventualità.
“Gli Stati Uniti e l’Italia hanno dibattuto a lungo sul possibile rimpatrio di questo combustibile,” ha dichiarato a VICE News un portavoce dell’NNSA via email.
“In seguito a questi colloqui si è accertato che non esiste nessun obbligo legale per gli Stati Uniti di riprendersi l’uranio altamente arricchito che fu spedito in Italia dal reattore di Elk River, né il Dipartimento di Energia ha le autorizzazioni necessarie per accettare questo materiale.”
Il Deposito Nazionale: l’unico futuro per Elk River
Vista l’impraticabilità della soluzione americana, sul tavolo sembra rimasta una sola carta da giocare: lo stoccaggio delle barre nel futuro Deposito Nazionale.
Partita ufficialmente nel 2011, la disattivazione – o decommissioning – del centro ITREC dovrebbe concludersi tra il 2028 e il 2032.
Una volta completate le operazioni propedeutiche, le 64 barre di Elk River verranno trasferite all’interno di due contenitori metallici schermati, detti cask, dove attenderanno la costruzione del deposito unico.
Secondo i dati forniti a VICE News da Sogin, il costo totale dello smantellamento del centro di Trisaia raggiungerà i 260 milioni di euro, 7,5 dei quali saranno impiegati per lo stoccaggio a secco delle barre di Elk River.
Il deposito nazionale sarà però solo una tappa sul percorso verso la meta finale dell’Elk River.
Come spiega a VICE News Fabio Chiaravalli, Direttore per Sogin del futuro deposito nazionale, l’integrità delle barriere di contenimento del deposito è garantita per 300 anni, ovvero il tempo necessario per il completo decadimento nucleare dei rifiuti di media e bassa attività.
Le scorie prodotte nel centro di Trisaia, così come tutti gli altri derivati della produzione di energia nucleare, sono però rifiuti ad alta attività che richiedono una diversa soluzione a lungo termine.
“L’alta attività a lunga vita, ovvero quei rifiuti che decadono in centinaia di migliaia o milioni di anni, deve essere custodita nel deposito geologico di profondità,” spiega Chiaravalli. “Siccome questa soluzione necessiterà molto tempo, l’indicazione arrivata dall’Unione Europea è di conservare i rifiuti in strutture temporanee in tutta sicurezza.”
Secondo il prospetto fornito da Sogin, in Italia i rifiuti ad alta attività verranno prima inseriti in capsule ad alta integrità per poi essere stoccati in edifici di massima sicurezza all’interno del centro unico dei rifuti radioattivi.
La partita del deposito nazionale è ancora tutta da giocare. Il prossimo passo sarà la pubblicazione della Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee ad ospitare il sito (CNAPI), che darà poi il via alle consultazioni popolari.
Nel frattempo, a Trisaia non tutti passano sonni tranquilli. La vera paura, infatti, è che non solo le barre di Elk River non se ne andranno, ma che a Rotondella potrebbero convergere tutte le scorie nucleari d’Italia.
“Tra la gente serpeggia il dubbio che il sito unico venga costruito proprio qui,” afferma Suriano. “Il timore che possa essere scelto il nostro territorio resta sempre.”
Tratto da ViceNews
Tra reciproche scaramucce, preoccupazioni e polemiche, una vera soluzione non è mai stata trovata.
Adesso però, giurano i diretti interessati, siamo vicini a mettere la parola fine a una vicenda che esemplifica il rapporto travagliato tra gli italiani e le scorie nucleari.
Ci troviamo a Rotondella, un comune di 2.700 abitanti nella provincia di Matera. Noto come il “balcone dello Ionio” per la posizione invidiabile da cui si gode della vista di tutta la costa ionica, questo borgo è salito agli onori delle cronache per un motivo meno invidiabile: la presenza di materiale nucleare unico al mondo.
Si tratta del cosiddetto Elk River, barre di combustibile irraggiato uranio-torio stoccate all’interno dell’impianto ITREC (acronimo di Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile) di Trisaia da quasi mezzo secolo.
Che cosa ci fa l’Elk River in Basilicata?
La centrale fu costruita alla fine degli anni ’60, nell’ambito di una collaborazione tra il defunto Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare (CNEN) e il suo omologo americano, l’Atomic Energy Commission.
Lo scopo dell’ambizioso progetto era quello di valutare la convenienza economica del ciclo uranio-torio rispetto al consueto ciclo uranio-plutonio, per la produzione di energia nucleare. 84 barre di Elk River – nome che deriva dal paese del Minnesota dove si trovava l’unico reattore che avesse mai prodotto quel combustibile – furono così spedite dagli Stati Uniti in Basilicata.
Tra il 1975 e il 1978 venti di queste barre furono impiegate per la sperimentazione dell’impianto, producendo tre metri cubi di prodotto finito uranio-torio. I risultati però non furono soddisfacenti ed evidenziarono la necessità di effettuare modifiche all’impianto.
I lavori di rettifica furono programmati, ma nell’aprile 1986 un evento mutò irrimediabilmente il rapporto tra opinione pubblica ed energia nucleare: il disastro nucleare di Chernobyl.
All’indomani della tragedia gli elettori italiani furono chiamati a esprimersi in un referendum sul futuro dell’energia nucleare nella Penisola. La risposta negativa, ovviamente, segnò per sempre il destino dell’impianto di Rotondella.
La fine delle attività produttive significò però l’inizio di un’epopea che si trascina fino ad oggi.
A causa della sua natura sperimentale, infatti, l’Elk River non può essere riprocessato in nessun impianto al mondo. E così da allora le 64 barre rimaste, con il loro carico di 72 kg di uranio e 1.600 kg di torio, vengono custodite in una piscina di 30 metri quadrati e alta 7 metri.
In attesa che qualcuno trovi una soluzione definitiva per il loro futuro, l’unica certezza è rappresentata dal peso sulla spesa pubblica di questo materiale abbandonato.
Secondo quanto riferito a VICE News da Sogin, la società pubblica che dal 2003 controlla il centro ITREC, i soli costi di gestione della struttura si aggirano attorno ai 4,7 milioni di euro all’anno.
Il rapporto tra il nucleare e gli abitanti
Come racconta a VICE News Pino Suriano, un giornalista di Rotondella, il rapporto tra gli abitanti della piana di Trisaia e il centro ITREC ha attraversato fasi alterne. Dalla gioia per l’arrivo di un potenziale centro di impiego si è passati negli anni alla paura per i rischi del nucleare, fino ad arrivare all’apparente stato di accettazione attuale.
“Inizialmente la percezione era positiva perché erano stati creati posti di lavoro stabili ben pagati con contratti di ricerca,” spiega Suriano. “La coscienza del pericolo è andata crescendo, e già negli anni ’80 si leggevano i primi articoli che mettevano in discussione i potenziali rischi ambientali del centro.”
Oggi, dice Suriano, il timore non raggiunge livelli allarmistici. Non ci sono persone che evitano di tuffarsi in mare o di mangiare i prodotti della zona per paura di ipotetiche contaminazioni radiologiche.
Però, anche se la quotidianità non viene condizionata, rimangono domande spinose a cui non si è ancora trovata una risposta definitiva.
“Se un residente locale si ammala pensa a possibili implicazioni legate al materiale radioattivo,” continua Suriano. “L’altro giorno ho incontrato un ragazzo che lavora nel centro [ITREC] e mi diceva ‘sono morti due miei familiari nel giro di poco tempo, qualche domanda me la faccio’. Sono dubbi che ti poni solo sei coinvolto personalmente.”
Lo scorso gennaio l’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato il primo rapporto italiano sullo stato di salute dei residenti in comuni sede di impianti nucleari. Tra le zone messe sotto la lente d’ingrandimento c’era proprio Rotondella, dove sono stati analizzati i dati relativi alle morti degli ultimi 30 anni.
“I comuni di Bosco Marengo, Caorso, Latina e Rotondella hanno fatto registrare un maggior numero di eccessi di mortalità per patologie tumorali,” riporta lo studio.
In particolare, i decessi causati da malattie dell’apparato digerente e per il tumore della tiroide risultano in eccesso rispetto alla mortalità media della popolazione regionale. Tuttavia, come precisano gli autori dello studio, il numero limitato di residenti a Rotondella potrebbe aver inficiato la precisione delle stime.
Rimandare l’Elk River negli Stati Uniti: una soluzione impossibile?
La soluzione auspicata dagli abitanti e dalle associazioni è sempre stata quella di rispedire le barre di combustibile uranio-torio al mittente, ovvero gli Stati Uniti.
Il governo italiano ha tentato in tutti i modi di raggiungere un accordo con gli americani. I risultati, però, sono stati praticamente nulli.
Secondo quanto rivelato dai cable di Wikileaks, nel settembre 2004 Gianni Letta si appellò all’ambasciatore americano in Italia affinché il combustibile venisse preso in carico dagli Stati Uniti.
L’allora sottosegretario del governo Berlusconi riferì che, vista l’impossibilità di riprocessare il materiale radioattivo in Europa, sarebbe stato auspicabile trasferirlo nell’impianto di Savannah River in South Carolina, dove erano già custodite 190 unità di Elk River. Altrimenti, riporta il cablo in tono quasi minaccioso, il governo italiano sarebbe stato costretto a spedire le scorie in Russia, l’unico paese disponibile ad accoglierle.
Come si legge su un nota successiva, però, il Dipartimento dell’Energia chiuse la porta in faccia all’Italia rispondendo così: “Il combustibile non può essere accettato a far parte di alcun programma esistente.”
Due anni più tardi, nel febbraio 2006, Letta tornò alla carica. Eravamo in piena campagna elettorale e, come Letta lascia trasparire, il governo Berlusconi vedeva nell’eliminazione delle barre di Elk River un’occasione per raccogliere voti preziosi in Basilicata.
“La questione è delicata per la coalizione del Premier Berlusconi, il quale dovrà affrontare una dura battaglia per la rielezione,” riporta il cablo redatto dall’Ambasciata americana a Roma. “La zona vicina a Matera sarà un terreno di scontro importante nelle elezioni del 9 aprile. Da questo ne segue l’interesse del governo Berlusconi di smorzare la pubblicità negativa causata dalle manifestazioni contro il combustibile.”
Anche questa volta però il tentativo andò a vuoto e le barre non lasciarono le piscine di Trisaia.
Nelle sue lettere all’ambasciatore americano Letta faceva riferimento a un protocollo internazionale promosso proprio dal governo di Washington nel 2004.
Si tratta del programma GTRI (Global Threat Reduction Initiative) che prevede il trasferimento e la successiva messa in sicurezza di materiale radioattivo ad alto rischio per la comunità internazionale.
Come spiega l’Agenzia Nucleare statunitense, lo scopo è quello di prevenire che il materiale nucleare finisca nelle mani di terroristi intenzionati a fabbricare una ‘bomba sporca’, un dispositivo in grado di disperdere il materiale radioattivo nell’ambiente. L’Elk River, formato al 5 per cento da uranio 235 altamente arricchito, potrebbe far gola a chi vuole fabbricare un ordigno nucleare.
Grazie al GTRI, tra il 2012 e il 2014 17 kg di uranio arricchito sono effettivamente partiti dall’Italia alla volta degli Stati Uniti. E siccome parte del materiale era stoccato nel centro ITREC di Trisaia, si erano accese le speranze che si trattasse proprio delle barre di Elk River.
Era la notte del 29 luglio 2013 quando quando trecento uomini delle forze dell’ordine circondarono il perimetro del centro di Rotondella. In tutta segretezza, un camion per il trasporto di materiale speciale uscì dai cancelli diretto, si scoprirà in seguito, all’aeroporto militare di Gioia del Colle.
Una nota stampa di Sogin parlò del “rimpatrio negli USA di materiali nucleari sensibili di origine americana.” Nella confusione generale la gente del posto iniziò a credere che ad abbandonare l’impianto fossero state proprio le 64 barre di Elk River. Pochi giorni più tardi però la notizia venne prontamente smentita. A lasciare l’ITREC erano stati ‘solamente’ 1.050 grammi di biossido di uranio.
La scorsa estate sono rimbalzate nuove voci su un possibile trasferimento delle barre negli Stati Uniti.
Interrogata da VICE News, la National Nuclear Security Administration (NNSA), l’agenzia americana che si occupa di sicurezza nucleare, ha però negato categoricamente questa eventualità.
“Gli Stati Uniti e l’Italia hanno dibattuto a lungo sul possibile rimpatrio di questo combustibile,” ha dichiarato a VICE News un portavoce dell’NNSA via email.
“In seguito a questi colloqui si è accertato che non esiste nessun obbligo legale per gli Stati Uniti di riprendersi l’uranio altamente arricchito che fu spedito in Italia dal reattore di Elk River, né il Dipartimento di Energia ha le autorizzazioni necessarie per accettare questo materiale.”
Il Deposito Nazionale: l’unico futuro per Elk River
Vista l’impraticabilità della soluzione americana, sul tavolo sembra rimasta una sola carta da giocare: lo stoccaggio delle barre nel futuro Deposito Nazionale.
Partita ufficialmente nel 2011, la disattivazione – o decommissioning – del centro ITREC dovrebbe concludersi tra il 2028 e il 2032.
Una volta completate le operazioni propedeutiche, le 64 barre di Elk River verranno trasferite all’interno di due contenitori metallici schermati, detti cask, dove attenderanno la costruzione del deposito unico.
Secondo i dati forniti a VICE News da Sogin, il costo totale dello smantellamento del centro di Trisaia raggiungerà i 260 milioni di euro, 7,5 dei quali saranno impiegati per lo stoccaggio a secco delle barre di Elk River.
Il deposito nazionale sarà però solo una tappa sul percorso verso la meta finale dell’Elk River.
Come spiega a VICE News Fabio Chiaravalli, Direttore per Sogin del futuro deposito nazionale, l’integrità delle barriere di contenimento del deposito è garantita per 300 anni, ovvero il tempo necessario per il completo decadimento nucleare dei rifiuti di media e bassa attività.
Le scorie prodotte nel centro di Trisaia, così come tutti gli altri derivati della produzione di energia nucleare, sono però rifiuti ad alta attività che richiedono una diversa soluzione a lungo termine.
“L’alta attività a lunga vita, ovvero quei rifiuti che decadono in centinaia di migliaia o milioni di anni, deve essere custodita nel deposito geologico di profondità,” spiega Chiaravalli. “Siccome questa soluzione necessiterà molto tempo, l’indicazione arrivata dall’Unione Europea è di conservare i rifiuti in strutture temporanee in tutta sicurezza.”
Secondo il prospetto fornito da Sogin, in Italia i rifiuti ad alta attività verranno prima inseriti in capsule ad alta integrità per poi essere stoccati in edifici di massima sicurezza all’interno del centro unico dei rifuti radioattivi.
La partita del deposito nazionale è ancora tutta da giocare. Il prossimo passo sarà la pubblicazione della Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee ad ospitare il sito (CNAPI), che darà poi il via alle consultazioni popolari.
Nel frattempo, a Trisaia non tutti passano sonni tranquilli. La vera paura, infatti, è che non solo le barre di Elk River non se ne andranno, ma che a Rotondella potrebbero convergere tutte le scorie nucleari d’Italia.
“Tra la gente serpeggia il dubbio che il sito unico venga costruito proprio qui,” afferma Suriano. “Il timore che possa essere scelto il nostro territorio resta sempre.”
Tratto da ViceNews