di Andrea Baranes
Se in Italia dopo anni di recessione si è rivisto un segno più davanti al PIL, la modesta crescita sembra dipendere da fattori esogeni: sia l'euro sia le materie prime, e il petrolio in particolare, sono ai minimi storici. Un euro debole favorisce le esportazioni, mentre una bassa quotazione del petrolio rende meno gravose le importazioni, con ripercussioni positive sulla bilancia commerciale e sul PIL.
Una situazione che non può nascondere il disastro di una disoccupazione giovanile che nel mezzogiorno si attesta ben oltre il 50%, una produzione industriale crollata di oltre il 25% dal 2007 a oggi, mentre nello stesso periodo i poveri assoluti passano dal 3,1 al 6,8% della popolazione italiana.
Non che nel resto d'Europa le cose vadano molto meglio: la tanto annunciata e proclamata ripresa economica stenta, siamo ben lontani da una inversione di rotta rispetto alla crisi degli ultimi anni, le diseguaglianze crescono, sia quelle tra Paesi del "centro" e della "periferia", sia all'interno dei singoli Paesi.
Sotto accusa rimangono le scelte di politica economica delle istituzioni europee e internazionali. Persino il FMI, membro autorevole della Troika, già a inizio 2013 ha fatto "uno stupefacente mea culpa", riconoscendo come, nella gran parte dei Paesi occidentali, i tagli alla spesa pubblica comportano un crollo del PIL superiore alla diminuzione del debito. I piani di austerità non solo sono devastanti dal punto di vista sociale, ma sono nocivi anche da quello macroeconomico, con un rapporto debito/PIL che continua a peggiorare. A fronte di una situazione confermata da sempre più studi ed economisti, non solo le politiche economiche non cambiano, ma se possibile accelerano ulteriormente. La visione per il futuro prevede di esasperare tagli e controlli su una finanza pubblica considerata per definizione il problema, mentre la soluzione consiste nell'espandere dimensione e ruolo della finanza privata.
Questo paradosso emerge dalla lettura del documento "Completare l'Unione economica e monetaria dell'Europa", conosciuto come documento dei 5 presidenti, in quanto presentato a giugno 2015 da Juncker per la Commissione UE, in stretta collaborazione con Tusk (Consiglio europeo), Dijsselbloem (europgruppo), Draghi (BCE) e Shulz (Parlamento UE). Il testo che dovrebbe quindi riassumere le proposte di tutte le istituzioni europee, sembra porsi l'obiettivo da un lato di espandere ulteriormente e dall'altro soprattutto di rendere permanente e istituzionalizzare delle scelte ben determinate in ambito economico e finanziario: la competitività come valore a sé stante, non il benessere dei cittadini ma la potenza commerciale come obiettivo delle politiche, sacrificando diritti sociali, ambientali e del lavoro pur di vincere una gara globale a chi esporta di più. Per rendersene conto, basta leggere il capitolo del documento dei 5 presidenti su "convergenza, prosperità e coesione sociale".
In quattro pagine in tutto compare diciassette volte la parola "competitività" (17!). In compenso, in un testo intitolato alla coesione sociale, si riesce nell'impresa di non menzionare mai parole quali "diritti", "reddito" o "disuguaglianze". In compenso si chiede la creazione in ogni Paese europeo di una autorità per la competitività, il cui parere dovrebbe poi essere considerato dalle parti sociali in sede di contrattazione. Possiamo solo immaginare quale potrebbe essere la posizione di questa autorità rispetto alle richieste di maggiori stipendi, tutele o diritti nel mondo del lavoro. Il problema non è unicamente in una competitività che è divenuta un obiettivo in sé stesso. Ammesso e non concesso che così debba essere, la competitività di può giocare sul prezzo o sul prodotto. Semplificando, tagliare i costi di produzione o migliorare produttività e contenuti tecnologici. La seconda strada significherebbe investimenti nella ricerca e nella formazione.
Investimenti di lungo periodo che avrebbero quindi bisogno di "capitali pazienti". Difficile pensare che tali capitali possano arrivare da una finanza privata che ragiona in millesimi di secondo. Difficile anche che arrivino da una finanza pubblica strangolata da austerità, tagli e sacrifici. Persino il piano di investimenti noto come "piano Juncker" e pomposamente presentato l'anno scorso come un "nuovo piano Marshall per l'Europa" si riduce a poche decine di miliardi versati dal pubblico, mentre la gran parte delle risorse dovrebbero arrivare dai privati. Privati che inevitabilmente pretenderanno di orientare tali investimenti alla ricerca del massimo profitto nel minore tempo possibile, non certo guardando le necessità sociali, ambientali ed economiche di lungo periodo.
In altre parole il documento dei 5 presidenti non solo insegue e rafforza il modello mercantilista in cui chi esporta di più vince, ma lo fa esasperando la "corsa verso il fondo" in materia sociale, di diritti, ambientale, fiscale pur di vincere una competizione su scala internazionale. Grazie principalmente al quantitative easing della BCE, come accennato l'euro è sceso rispetto al dollaro e le esportazioni stanno trainando una debole ripresa. Una politica nota come "beggar thy neighbour", letteralmente frega il tuo vicino: una guerra monetaria e commerciale in cui tutti devono esportare più di tutti gli altri. Ancora prima degli evidenti limiti ecologici di un tale approccio, una strategia piuttosto difficile da realizzare su scala globale, a meno di non capire come esportare su Marte.
Non solo, ma le conseguenze del quantitative easing potrebbero essere anche peggiori. Di fatto, la stragrande maggioranza dei soldi immessi dalla BCE rimane "incastrata" in circuiti puramente finanziari, senza arrivare all'economia reale. Il rischio concreto è quello di gonfiare ulteriormente il valore degli attivi finanziari, mentre l'economia rimane al palo, depressa dall'austerità: la definizione stessa di una nuova bolla finanziaria, alimentata dalla banca centrale. Per questo molti analisti segnalano la necessità di un "QE per la gente", facendo arrivare la liquidità direttamente a famiglie e imprese. L'immissione di soldi unicamente sui mercati finanziari e dei titoli di Stato rischia di essere una vera e propria droga che maschera i problemi dell'economia ma che provoca un danno ancora peggiore non appena viene interrotta.
Per dirla con uno slogan, la crisi attuale non è dovuta al fatto che non ci sono soldi, ma che ce ne sono troppi; è che sono (quasi) tutti dalla parte sbagliata. Somme inimmaginabili ruotano vorticosamente alla ricerca di profitti in operazioni che si svolgono in millesimi di secondo, mentre dall'altra parte per famiglie e imprese ci sono enormi difficoltà di accesso al credito. Da un lato, tramite i derivati posso scommettere persino sui prezzi del cibo, dall'altro milioni di contadini sono esclusi dai servizi finanziari. Non solo è instabile, non solo crea continui disastri, non solo ha continue necessità di capitali pubblici per non crollare, ma questa finanza non riesce nemmeno a fare ciò che dovrebbe fare. In questa situazione, è possibile pensare che la soluzione sia la creazione di strumenti per pompare liquidità ed espandere ulteriormente la sfera finanziaria? Al contrario, è necessario spostare verso l'economia almeno una parte delle sterminate risorse incastrate nel sistema finanziario se non in attività speculative.
Se c'è un ambito in cui l'UE procede invece a gonfie vele verso una completa unione, questo è proprio il mercato finanziario e dei capitali. La novità più rilevante del documento dei 5 presidenti è probabilmente il lancio dell'unione dei mercati dei capitali - Capital Markets Union o CMU. L'idea alla base è che se la ripresa stenta, mancano gli investimenti, le banche non prestano abbastanza e le piccole imprese non hanno accesso al credito, le cause non vanno ricercate nei disastri della finanza e in anni di austerità, ma al contrario nella necessità di rafforzare ed espandere ulteriormente i mercati finanziari, seguendo l'assunto che l'economia europea dipenda troppo dal credito bancario, a differenza ad esempio di quanto avviene negli USA.
Con la CMU si prevede di favorire operazioni simili a quelle svolte dalle banche, ma realizzate da soggetti e veicoli che non devono sottostare alle regole e limiti che riguardano il sistema bancario. In altre parole, misure per espandere il sistema bancario ombra, o shadow banking system. Lo stesso finito sotto accusa solo pochi anni fa come uno dei principali responsabili della crisi. Un sottobosco di società solitamente registrate nei paradisi fiscali e per le quali quasi tutto è consentito, al di là di ogni controllo o forma di trasparenza.
Nella stessa direzione, le istituzioni europee hanno già avviato un programma di cartolarizzazioni, nella speranza di permettere alle banche di erogare più credito. Tale meccanismo è stato al centro della bolla dei mutui subprime, con banche e intermediari finanziari che concedevano mutui anche a clienti senza garanzie né reddito (appunto i clienti subprime), perché subito dopo trasformavano tale mutuo in titoli finanziari che venivano rivenduti in tutto il mondo. Quando è scoppiata la bolla, nessuno sapeva dove fossero finiti i titoli tossici e una crisi del settore immobiliare USA si è rapidamente trasformata in una crisi di fiducia e finanziaria globali. A distanza di soli otto anni, non solo tale pratica non è stata bloccata, ma viene riproposta come una delle principali soluzioni per rilanciare l'economia.
Ma se possibile c'è ancora di peggio. Nella CMU si propone l'abbattimento degli ultimi controlli sui movimenti di capitale. Capitali sempre più fuori controllo in un'UE dove leggi e fisco si fermano alle frontiere nazionali. L'idea è che i cittadini dei Paesi più forti potrebbero così investire nelle PMI della periferia europea, risolvendo con un colpo di bacchetta magica gli attuali problemi. Nel momento in cui non si può nemmeno parlare di trasferimenti fiscali, di Eurobond o di espandere un budget europeo che è meno dell'1% del PIL degli Stati membri, come colmare il divario tra nazioni e regioni europee? Semplice, abbattiamo ogni controllo e "naturalmente" i capitali andranno dalle zone più ricche verso quelle più povere, dai cittadini e fondi pensione dei Paesi forti verso la periferia. Con la CMU si esaspera lo stesso principio che ha portato le banche tedesche e francesi a inondare di soldi la Grecia per anni, salvo lasciarla sull'orlo del baratro con lo scoppio della crisi.
E' l'incredibile e definitiva vittoria della finanza privata, in questa paradossale Unione Europea. Non parliamo "unicamente" di una finanziarizzazione dell'economia, né della questione, ormai assodata, del paradosso di un'Europa dei capitali e della moneta senza l'Europa dei diritti e dei popoli. Siamo di fronte a una vera e propria "finanziarizzazione degli Stati e delle politiche economiche". Ecco il cuore del percorso degli ultimi anni: i mercati sono per definizione efficienti, abbattiamo ogni controllo e smantelliamo ogni ruolo della finanza pubblica, sarà la mano invisibile della finanza privata a realizzare la stessa integrazione europea, mascherando il problema di un'unione dei mercati e dei capitali senza unione fiscale e dei diritti.
Da un lato gli Stati costretti a limitare il proprio raggio d'azione nel nome del pareggio di bilancio, dei vincoli su debito e deficit. Dall'altro la progressiva cessione di spazi di sovranità e di democrazia alla finanza privata. In altre parole, il ritiro dello Stato, non è solo quello a cui solitamente si pensa di smantellamento delle regole che sovrintendevano il funzionamento della finanza e che si è sviluppato dall'inizio degli anni '80. In maniera ben più profonda, sono le stesse funzioni dello Stato che sono state cedute alla finanza, fino a cederle lo stesso compito di costruzione dell'Unione europea.
Un progetto che nei fatti è fragorosamente crollato con la crisi del 2007, ma che continua - se possibile con più forza di prima - a dominare le politiche economiche europee. Un sostegno illimitato al sistema finanziario che ha causato la crisi, austerità e sacrifici per Stati e cittadini che l'hanno subita. Ancora peggio, mentre a questi ultimi subiscono un diretto attacco alla sovranità democratica, la regolamentazione del casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi va avanti nel migliore dei casi con il freno a mano tirato. Anzi, in direzione contraria, e cavalcando il dogma per cui è unicamente la finanza privata a dovere trainare la ripresa, oggi le lobby invocano una ulteriore deregolamentazione e minori controlli. La finanza, uno se non il principale problema che dovremmo affrontare, viene dipinta come l'unica possibile soluzione. Solo l'ultimo e il peggiore dei paradossi di un'Europa lanciata verso un muro e che continua inesorabilmente ad accelerare.
Nessun commento:
Posta un commento