di Franco Cherubini
Pubblichiamo molto volentieri un’analisi sul triste fenomeno della vendita di aziende italiane a soggetti esteri realizzato da uno studenti del terzo anno di Economia e Commercio, Corso CLEC, dell’Università Gabriele d’Annunzio di Chieti-Pescara.
Ormai da anni sempre più aziende italiane finiscono per passare in mani straniere.
L’ultimo in ordine di tempo è Grom, il “gelato più buono del mondo” che dal 1° ottobre 2015 passa alla multinazionale olandese Unilever, quella di Algida per intenderci.
Ma oltre al suo “Gelato più buono” l’Italia in questi anni è stata depredata dai colossi stranieri di molti dei suoi marchi più importanti e prestigiosi.
Prima della Grom di fatti è lunghissima la lista di imprese italiane, molte delle quali rappresentano un vero pezzo di storia del nostro Paese, nel finire sotto il controllo di imprenditori stranieri.
La lista del “Made in Italy” che ci ha abbandonato è infinita e sarebbe troppo lunga da elencare completamente al punto di poter amaramente constatare che lo Stivale sia ormai diventato un immenso outlet dove si viene a fare shopping a prezzi di saldo.
Basti pensare che la quota di imprese italiane in mano agli stranieri corrisponde al 23% del totale, mentre ben il 43% delle società per azioni tricolori quotate in Borsa è posseduto da soggetti esteri.
Ma la colpa di tutto ciò principalmente è imputabile a quali fattori? Iniziamo subito nell’affermare che, in linea di principio, una azienda viene venduta essenzialmente per due motivi:
-perché viene offerto un prezzo estremamente elevato rispetto agli utili generati e alle aspettative d’incremento del valore, tanto da indurre chi ne detiene il controllo a cederla.
-perché non genera sufficienti utili e le prospettive future, anche in termini di incremento di valore, inducono nel cederla.
Inutile precisare che attualmente la stragrande maggioranza delle aziende italiane non genera soddisfacenti livelli di utili e che le prospettive future d’incremento del proprio valore sono pertanto estremamente basse. Questa situazione si è determinata a causa della recessione in atto da diversi anni che sta affliggendo in particolar modo il Vecchio Continente e che oltre ad aver creato le condizioni di contrarre i fatturati, compresso gli utili e ridotto drasticamente risorse destinate agli investimenti, ha sensibilmente diminuito l’accesso al credito da parte delle aziende italiane. Gli effetti della globalizzazione, che come effetto più evidente ha indotto alla delocalizzazione produttiva con tutto quello che ne consegue anche in termini di occupazione, ha fatto poi il resto.
In questo desolante scenario molte aziende hanno gettato la spugna e sono passate di mano a favore di soggetti esteri che invece hanno la disponibilità di capitali idonei a ricapitalizzazioni che permettono il rafforzamento patrimoniale bypassando il sistema bancario e consentendo di intraprendere investimenti produttivi e innovativi. Naturalmente il rovescio della medaglia è rappresentato dagli effetti generati dalle riorganizzazioni societarie, anche profonde, che prevedono oltre a cessioni di rami d’azienda, riduzioni di personale e trasferimenti all’estero di produzioni, anche la scelta di sedi fiscali in paesi dove è possibile godere di trattamenti fiscali migliori rispetto all’Italia costretta invece sempre più ad effettuare prelievi fiscali penalizzanti per l’intero “Sistema Paese” nel tentativo di rincorrere i vincoli di bilancio europei pur di rimanere del “club dell’euro”.
I Governi italiani invece di proteggere pertanto le aziende italiane dalla propria svendita, preferisce ostinarsi nell’intraprendere politiche di austerity necessarie al sostentamento della moneta unica che determinano contrazione della domanda interna, e quindi di fatturato delle aziende stesse, e una pressione fiscale al limite della sopravvivenza per qualsiasi attività produttiva.
Insomma si vende, anzi si svende, per non cedere in prospettiva a prezzi ancora più inferiori degli attuali a soggetti esteri i quali sono ben contenti di venire in Italia a comprare tutto il possibile perché riescono ad accaparrarsi eccellenze in ogni campo a prezzi estremamente competitivi, coscienti che con la messa a disposizione di risorse finanziarie fresche riescono ad incrementare notevolmente l’investimento. Poi se si fanno “spezzatini” o si licenzia personale per ristrutturazioni e si chiudono siti produttivi per trasferirli anch’essi all’estero poco importa, tanto lo Stato italiano non alza un dito per evitare questo scempio.
Ormai il passo allo status di “Colonia del Nord Europa” è sempre più vicino!
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