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mercoledì 1 marzo 2017

La schiavitù del futuro: ecco il Paese che questa classe Dirigente ha disegnato per i Giovani


È evidente che è necessario operare delle politiche che regolarizzino il tema dei nuovi lavori, e che il lavoro è e diventerà sempre di più il tema centrale della politica italiana e non solo.

di Flaminia Camilletti

Si torna a parlare di start up, e lo si fa in riferimento alla protesta dei taxi nei confronti di Uber,un’applicazione di autisti specializzata nel settore. Uber e le altre, avrebbero “rubato il lavoro” agli autisti tradizionali di taxi e ncc, colpevoli, secondo gli autisti, di applicare concorrenza sleale. D’altra parte Uber si difende sostenendo di portare lavoro in un settore in cui la domanda è alta e l’offerta bassa.






Il dibattito ha avuto grossi margini di discussione anche su questa testata per questo non ci soffermeremo sulle ragioni della diatriba Taxi/Uber.
Poco si è parlato di come e in che modo queste start up contribuiscano alla formazione di nuovi posti di lavoro e soprattutto di che tipi di posti di lavoro si tratta. Si chiama gig economy, ed è il mercato del lavoro del futuro, ma anche del presente. Anzitutto è bene chiarire che queste start up, da Uber a Foodora, passando per Deliveroo, non offrono veri posti di lavoro, ma semplici lavoretti. Non esistono contratti, le app pagano a ora oppure a volte anche a servizio, ma avremo modo di approfondire più avanti caso per caso.

Il tema fondamentale è che i lavoretti saltuari non sono stati inventati dalle start up: sono sempre esistiti e, anzi, siamo cresciuti con la convinzione che ogni ragazzo o ragazza anche senza necessità economica, per crescer bene aveva bisogno di fare qualche lavoretto al fine di prepararsi al mondo del lavoro e alla vita. Fattorini, hostess ai congressi, babysitter, consegna delle pizze chi più ne ha più ne metta. I lavoretti sono sempre esistiti e queste “rivoluzionarie” app hanno solo trovato il modo di lucrarci sopra, sicuramente molto furbamente. Questo vale per Uber, che in parte ha regolarizzato, se così si può dire, tutta una categoria lavorativa che già esisteva che era quella dei taxi abusivi, presenti in tutto il mondo, e quindi anche in Italia. Il taxi abusivo con Uber diventa più tutelato, ma in nessun modo si può dire se non in minima parte che Uber abbia contribuito alla formazione di nuovi posti di lavoro.

Lo stesso vale anche per tutte le altre. Foodora in primis: la start up era già finita sotto il mirino di alcuni attenti giornalisti che avevano sollevato il caso della protesta dei lavoratori della nuova azienda in tempi recentissimi. È infatti di Ottobre scorso, la protesta dei rider di Foodora, multinazionale tedesca nel settore della consegna a domicilio. I fattorini si sono ritrovati la paga abbassata notevolmente: da 6 euro si è passati a 4 euro lordi, per finire con la paga a cottimo. Considerando che bici, portapacchi e smartphone con sistema operativo iOs o Android addirittura non più vecchio di due anni sono a carico del lavoratore, ci si chiede quale livello di sfruttamento siano costretti a sopportare per accettare un posto del genere. Eppure si tratta di un’azienda in forte crescita e quindi evidentemente il personale disposto a lavorare a queste condizioni non deve essere così difficile da trovare. Nuovi posti di lavoro, o banale sfruttamento del lavoro legalizzato?

Non solo Foodora, anche Deliveroo, specializzato nello stesso settore sta passando giorni difficili. È venuto fuori infatti che i lavoratori inglesi di Deliveroo hanno organizzato uno sciopero per denunciare le loro scandalose retribuzioni. Attualmente i driver guadagnano meno del London Living Wage (la tariffa oraria volontaria impostata in modo indipendente e aggiornata ogni anno sulla base del costo della vita in UK) di 7 sette sterline l’ora più 1 sterlina per consegna. Come se non bastasse Deliveroo vuole abbandonare la tariffa oraria, e passare ai contratti a zero ore, dove i conducenti si pagano a consegna solo 3, 75 sterline. Tutto ciò va ad aggravare una situazione già molto drammatica in cui molti conducenti già lavoravano 60 ore o più alla settimana per arrivare a mettere insieme uno stipendio decente con contratti di lavoro che vanno oltre il precario: nessuna sicurezza sul posto di lavoro, indennità di malattia, ferie non pagate e orario garantito.

Antonio Aloisi, ricercatore dell’università Bocconi di Milano specializzato in diritto del lavoro spiega la differenza tra sharing economy e gig economy: “In dottrina si è data come definizione di sharing economy la monetizzazione di risorse sottoutilizzate o non utilizzate. Nella sharing economy si punta ad abbattere i costi condividendo azioni che si farebbero comunque. La gig economy è un sistema di lavoro freelancizzato, facilitato dalla tecnologia – prosegue Aloisi – che a che fare con esigenze generazionali e sociali. È una forma efficiente di impresa capitalistica. Su lavori che scontano flessibilità e intermittenza”. Il giovane giuslavorista spiega come i lavoratori della gig economy non sono classificati come dipendenti, eppure a stento li si può considerare autonomi, alla luce dell’esercizio delle prerogative di comando da parte delle piattaforme di strat up. “Il dibattito è acceso. C’è chi pensa che si debba disegnare una terza categoria intermedia fra lavoratore dipendente e autonomo e chi invece sostiene che tale categoria non prosciugherebbe l’area grigia di indeterminatezza e insicurezza. I contratti iper-flessibili tipici della gig economy non offrono protezioni come il salario minimo o l’indennità di malattia e sono spesso molto fragili dal punto di vista delle tutele. Il lavoratore è atomizzato e privato di ogni possibilità di sindacalizzarsi. Firma contratti on-line senza alcuna possibilità di negoziazione, è sottoposto a rigidi standard qualitativi da parte della piattaforma, noleggia tempo e competenze o – peggio ancora – è pagato a cottimo.”


Come riporta anche lo studio dell’Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro) “quasi tutti i lavoratori nell’economia on-demand sono considerati come lavoratori autonomi” e con questa qualifica “le piattaforme non sono tenute a versare contributi previdenziali e assistenziali”. Lo studio sostiene che “le attuali norme del diritto del lavoro non sono necessariamente inadatte a regolare le prestazioni nella ‘gig-economy'” ma l’agenzia propone “l’estensione in chiave universale dei principi e diritti fondamentali del lavoro, indipendentemente dal tipo di contratto lavorativo e un maggior riconoscimento del ruolo delle parti sociali”. Lo dicono gli esperti, lo dice l’Ilo, è evidente che è necessario operare delle politiche che regolarizzino il tema dei nuovi lavori, e che il lavoro è e diventerà sempre di più il tema centrale della politica italiana e non. Lo ha capito Trump, che incentrando la campagna elettorale anche sul tema del lavoro ha vinto le elezioni negli Stati Uniti, lo hanno capito meno i media internazionali e ancora meno i politici nostrani.

Le start up sono sinonimo di innovazione e freschezza, progresso; chi non sarebbe invogliato a lavorare con loro o a usufruire dei loro servizi con quei loghi così colorati quei siti internet così veloci e moderni, e le immagini di cibo buonissimo o sorrisi smaglianti di giovani modelli? Si chiama pubblicità, e sono bravi a farla, non c’è dubbio. La palla sta a noi, i consumatori: sapendo come verranno pagati i fattorini che vi porteranno quell’hamburger così appetitoso, vorreste ancora usufruire del servizio di consegna a domicilio? Perché non uscire invece o andare a prenderselo da soli? Troppa fatica, meglio ordinarlo dall’Iphone mentre guardiamo l’ultima serie di Netflix mangiando da soli, ma non prima di aver postato una bella fotografia su Instagram.


fonte: l'IntellettualeDissidente

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