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domenica 12 marzo 2017

L'Unione Europea, alle corde in molte Nazioni, s'aggrappa alle Procure

di Federico Dezzani

La lunga attesa dei “populisti” è quasi conclusa: a metà marzo le legislative olandesi avvieranno la serie di elezioni chiave che ridisegneranno l’Europa, seppellendo nelle urne l’eurozona e le istituzioni di Bruxelles. L’ansia e l’impotenza dell’establishment sono rispecchiate dalla frenesia della magistratura: perso il controllo della politica, si ripiega sulle procure nella vana speranza di aggiustare nei tribunali la traiettoria delle elezioni.





La strumentalizzazione della giustizia è tanto spudorata quanto maldestra in Francia, dove la manovra per defenestrare François Fillon si sta trasformando in un paradossale rafforzamento di Marine Len Pen.
Ma anche in Italia, dove l’inchiesta contro l’ex-premier Renzi, mirata a scongiurare le elezioni anticipate, alimenta paradossalmente le forze anti-sistema.

L’establishment spara (su propri piedi) le ultime cartucce: gli assalti della magistratura

Il finale di partita si avvicina e gli ultimi minuti scivolano via portandosi con sé anche regole, convenzioni ed etichette: il gioco si incattivisce, i falli diventano più marcati e la volontà di “aggiustare” il risultato sempre più palese. È uno spettacolo poco edificante, che indebolisce ulteriormente l’istituto della democrazia già piuttosto malconcio, ma non certo sorprendente: dopo la lunga e sanguinosa scia di attentati gestiti dalla DGSE che ha inaugurato con largo anticipo le presidenziali francesi (le prime a svolgersi in pieno stato d’emergenza dai tempi della guerra in Algeria) ed episodi sintomatici come l’omicidio della deputata Jo Cox, era scontato che l’establishment euro-atlantico desse fondo al suo arsenale in vista delle cruciali consultazioni del 2017.

Sta infatti per entrare nel vivo “l’anno della frattura”, con le legislative che si svolgeranno il 15 marzo in Olanda: se il Partito della Libertà di Geert Wilders dovesse affermarsi come prima forza politica, sarebbe l’inizio di quell’onda che, ingrossandosi elezione dopo elezione, sommergerà l’Europa, trascinando via con sé l’euro e le istituzioni di Bruxelles. Di fronte a questa marea “populista”, l’oligarchia euro-atlantica, sempre più arroccata ed inquieta, spara le ultime cartucce: perso il controllo della politica con la scomparsa della fittizia dialettica tra socialisti e popolari e l’emergere del reale scontro tra “mondialisti” e “sovranisti”, persa la capacità di influenzare l’opinione pubblica con la completa esautorazione dei media, perso in sostanza il controllo della democrazia, non le resta che intervenire a gamba tesa nell’agone politico, azzoppando questo o quel candidato. Come? Ricorrendo al già rodato strumento delle inchieste giudiziarie, anche a costo di logorare definitivamente il potere giudiziario ed alimentare ancora di più lo sfaldamento delle istituzioni democratiche.

La spudoratezza con cui la magistratura sta intervenendo sulla scena politica in queste settimane è sintomo della crisi ormai irreversibile in cui versa il sistema: la giustizia ad orologeria è così maldestra e volgare che parlare di “complotti” è persino superfluo, come è ridicola quella stampa che tenta di negare l’evidenza (si veda, a questo proposito, l’editoriale di Lucia Annunziata “La nemesi del complotto” pubblicato sull’Huffington Post il 4 marzo). Non solo però le manovre della magistratura non sortiscono gli effetti sperati, ma addirittura producono esiti opposti. Verrebbe allora da dire: lasciamoli fare! Lasciamo che sguinzaglino la magistratura in Francia come in Italia, perché così accelerano la loro fine: più i tribunali intervengono fallosamente nella campagna elettorale e maggiore sarà l’impeto dei populisti nelle urne.

L’effetto boomerang della giustizia a orologeria è evidente in Francia, dove la frenetica attività del circuito mediatico-giudiziario ha impresso nuovo slancio alla “populista” Marine Le Pen, sempre più vicina all’Eliseo proprio grazie alle schizofreniche manovre della magistratura.

Se l’iter democratico avesse seguito il suo corso naturale la vittoria del Front National non sarebbe stata facile: si prefigurava un ballottaggio tutto a destra dello schieramento politico, tra Marine Le Pen ed il candidato dei repubblicani, François Fillon. Si presentava però un problema: Fillon è considerato un “filorusso” ed il suo nome è emerso alle primarie contro ogni previsione ed auspicio, perché il candidato su cui puntava l’establishment era l’europeista e filo-atlantico Alain Juppé. Anziché lasciare che la campagna elettorale proceda sui suoi naturali binari, si sceglie così di azzoppare il candidato dei repubblicani. Parallelamente si lancia un terzo candidato, centrista e slegato dai vecchi partiti, con l’obiettivo di contrapporlo a Marine Le Pen al ballottaggio del 7 maggio: è l’ex-banchiere di Rothschild ed ex-pupillo di Jacques Attali, Emmanuel Macron, già ministro dell’Economia sotto la presidenza di Hollande.

Contro François Fillon si mette quindi in moto la solita macchina del fango: a gennaio il settimanale satirico “Le Canard Enchainé” accusa la moglie di aver usufruito per anni di un impiego fittizio al Parlamento e prontamente la procura di Parigi apre un’inchiesta per appropriazione indebita e abuso di ufficio, avviando le prime perquisizioni negli uffici dell’Assemblea nazionale. Fillon è sottoposto ad un violentissimo fuoco mediatico nella speranza che getti la spugna: fallito il primo assalto, ai primi di marzo la magistratura torna alla carica, spostando le perquisizioni dal Parlamento alla sua abitazione privata. Complice anche la diffusione di sondaggi sempre più neri e la defezione di un numero crescente di notabili del partito, si cerca di mettere il “filorusso” Fillon nell’angolo e reinsediare quel Juppé uscito sconfitto dalle primarie: solo con lui, assicurano i media di centro-destra, è possibile conquistare l’Eliseo. Fillon però non demorde: parla esplicitamente di “assassinio politico” e, per disinnescare le manovre di Palazzo, mobilita la propria base che invade il Trocadero il 5 marzo. “En appelant au rassemblement du Trocadéro, Fillon franchit la barrière qui le séparait du populisme” scrive scandalizzato Le Monde: Fillon ha imboccato la pericolosa strada del populismo, appellandosi direttamente al popolo contro la magistratura.

La necessità di defenestrare Fillon in piena campagna elettorale, quando mancano ormai meno di due mesi alle presidenziali, nasce quasi certamente dalla costatazione che il candidato centrista, l’ex-banchiere di Rothschild Emmanuel Macron, non dispone di quel vantaggio che i sondaggi gli attribuiscono ossessivamente: creato in laboratorio ed espressione degli stessi poteri finanziari che a suo tempo si raccolsero dietro Matteo Renzi, Macron non ha nessuna certezza di accedere al ballottaggio, nonostante la martellante campagna di media a suo favore e la complicità degli istituti demoscopici.

Ne deriva quindi l’urgenza di segare le gambe a Fillon e di installare ai vertici del partito repubblicano un candidato su cui l’establishment possa fare pieno affidamento.

L’intera operazione mediatico-giudiziaria si profila però come un clamoroso autogol per il sistema: è vero infatti che anche il Front National è oggetto delle inchieste della magistratura francese per un’analoga vicenda di rimborsi fittizi al Parlamento di Strasburgo, ma non c’è alcun dubbio che sia proprio Marine Le Pen la principale beneficiaria delle faide che stanno dilaniando il centro-destra. Dimezzato dalle inchieste, abbandonato da buona parte del suo stesso partito, concentrato sulla difesa di se stesso anziché sul programma elettorale, sottoposto all’infamante convocazione dei giudici a poco più di un mese dal primo turno, François Fillon, se anche dovesse salvare la sua candidatura all’Eliseo, arriverebbe comunque esausto alle elezioni: peggio ancora sarebbe se fosse costretto a gettare la spugna ed il partito repubblicano ripiegasse su un “piano B” a poche settimane dal voto.

La strategia degli assalti giudiziari, che tante soddisfazioni ha regalato durante questi ultimi 70 anni di “democrazia liberale” (si pensi ad esempio a Tangentopoli ed all’eliminazione violenta della Prima Repubblica), rischia di costare così carissimo all’oligarchia euro-atlantica, a riprova di un sistema consunto e decrepito, ormai incapace di leggere la realtà: è la stessa élite che aveva puntato tutto su Matteo Renzi ed aveva concepito per lui, con scarsa lungimiranza e molta alienazione dal contesto sociale ed economico, un percorso di riforme costituzionali in chiave super-maggioritaria, poi conclusosi col disastroso referendum del 4 dicembre scorso e la conseguente caduta in disgrazia del premier.

Già, l’ex-premier Matteo Renzi: incensato dai media, decantato dalla cancelliere estere, gonfiato da sondaggi artificiali simili a quelli che oggi proiettano Emmanuel Macron all’Eliseo, il presidente del Consiglio ha commesso l’errore di credere alla propria propaganda. Ha creduto, in sostanza, di essere un politico di razza, accidentalmente infortunatosi il 4 dicembre 2016: come se fosse l’artefice delle proprie fortune, il protagonista di una scalata in solitaria dalla provincia di Firenze a Palazzo Chigi, e non fosse stato accompagnato alla presidenza del Consiglio mano nella mano da quegli stessi poteri che gli hanno poi dettato l’agenda.

Con l’invito a votare “no” al referendum, The Economist e con cui lui l’oligarchia atlantica avevano già scaricato il premier, considerato ormai come una causa persa: la priorità è assicurare la stabilità del governo, scongiurare cioè a qualsiasi costo le elezioni anticipate così da non turbare i delicatissimi appuntamenti elettorali in Francia e Germania. Se l’ex-premier avesse prestato più attenzione alla parole di Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, i massimi rappresentanti italiani dell’oligarchia atlantica, avrebbe avuto un’altra conferma dell’ostilità a qualsiasi ipotesi di interruzione prematura della legislatura: conscio che ogni giorno del governo Gentiloni equivale ad un’erosione di consensi e convinto di disporre di una certa autonomia, Renzi però scalpita. Ai primi di febbraio si parla apertamente di elezioni entro l’estate. Immediatamente il differenziale tra Btp e Bund rialza la testa e Massimo D’Alema ( *forse il vero regista di tutto quello che oggi sta accadendo in Italia per rimandare le Elezioni. I suoi trascorsi nel Copasir la dicono lunga su come si possono controllare gli eventi, leggi Elezioni Anticipate) profetizza: “Siamo seduti su una polveriera, se si vota ora lo spread va a 400”. Più chiaro di così è impossibile.

Come neutralizzare definitivamente Renzi e le sue velleità di elezioni anticipate? Ricorrendo come in Francia alla solita magistratura. Con la riapertura dell’inchiesta Consip ferma da mesi, si mettono nel mirino il padre dell’ex-premier ed il suo braccio destro, l’ex-sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Luca Lotti, lasciando che il solito Gruppo l’Espresso lanci sinistri messaggi: “Inchiesta Consip, una domanda a Matteo Renzi: fu tutto a sua insaputa?”. Gli stessi poteri che nel febbraio 2014 crearono il mito del “premier rottamatore” a distanza di tre anni decidono di annientarlo ed i giornali di Carlo De Benedetti, che ruotano sempre attorno allo stesso sole, sia adeguano prontamente alla linea.

Come nel caso francese, la manovra mediatico-giudiziaria ai danni di Renzi si profila però come un clamoroso boomerang: infangare l’ex-premier a suo tempo presentato come “l’ultima salvezza dell’élite italiana”, trascinare fino al 2018 l’effimero governo Gentiloni, lasciare marcire il Paese in un clima di abbandono e lacerante attesa, non farà che alimentare ulteriormente le spinte anti-sistema, pronte ad tracimare alle prossime elezioni.

Ma in fondo all’oligarchia euro-atlantica forse neppure interessa: “l’anno della frattura” è vissuto in funzione delle presidenziali francesi e davanti alla vittoria di Marine Le Pen tutto il resto passerà in secondo piano, comprese le sorti del governo Gentiloni e dell’Italia.


* considerazioni di Onda d'Urto 5S

Fonte: Federico Dezzani

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