di Dario Guarascio
Convergenza. Questo è il mantra che ha accompagnato il progetto di integrazione europea sin dalle sue origini. Una convergenza che avrebbe dovuto coinvolgere l'intero spettro delle variabili economiche, conducendo vecchi e nuovi membri del club europeo verso livelli di benessere mai visti prima. In questo contesto, il'mercato del lavoro' è stato uno degli oggetti privilegiati delle attenzioni riformatrici dei vari governi. Esso veniva infatti identificato come lo snodo cruciale dei piani di riforma che, sia sul piano formale che su quello sostanziale, venivano proposti come conditio sine qua non per raggiungere, o consolidare, il già citato avanzamento nel livello di benessere economico e sociale.
Sul piano sostanziale, tali 'riforme' son state vendute come le architravi dell'unico contesto economico considerato in grado - quello connotato per l'assenza di qualunque vincolo al libero funzionamento del mercato - di favorire il processo di sviluppo e convergenza tra paesi; su quello formale, esse hanno rappresentato il biglietto d'ingresso obbligatorio per i nuovi candidati all'ingresso nell'Unione, e il 'dress code', altrettanto obbligatorio, per i suoi membri storici.
L'agognata convergenza, dunque, avrebbe dovuto accompagnare ilprocesso di liberalizzazione e privatizzazione dei mercati che ha contrassegnato il ventennio di costruzione europea. Tali propositi, tuttavia, si sono infranti contro la realtà emersa durante e dopo l'esplosione della crisi nel 2008.
L'attuale scenario europeo parla di una profonda e crescente divergenza tra i paesi membri - e all'interno degli stessi -, in particolar modo per quel che concerne occupazione e redditi da lavoro. L'Europa è oggi balcanizzata tra un centro - imperniato attorno all'industria manifatturiera tedesca e dotato di un considerevole potere politico e finanziario - ed una periferia - che coinvolge tutti i paesi dell'area mediterranea - in caduta libera, per quel che riguarda la tenuta del tessuto economico-produttivo, la dinamica sociale e quella di ricerca ed innovazione.
Un effetto, tuttavia, le 'riforme' lo hanno ottenuto. In particolare quelle che hanno interessato il mercato del lavoro. Osservando la dinamica delle diseguaglianze nella distribuzione dei redditi e dei salari, la convergenza tra i paesi membri dell'Unione Europea sembrerebbe essersi realizzata in modo ragguardevole. Con il dettaglio che si è trattato di una convergenza verso una maggiore diseguaglianza.
La divaricazione tra la quota di reddito detenuta dalle due code della distribuzione, la parte più alta e quella più bassa, è stata consistente e costante sin dall'inizio degli anni 2000 in quasi tutti i paesi membri. Un recente rapporto pubblicato dalla Fondazione Eurofound (Recent developments in the distribution of wages in Europe, Eurofound 2015), ha sintetizzato i risultati di un ampio numero di studi ufficiali (OCSE, 2012, 2013 e 2014) concentratisi sull'evoluzione e le determinati delle diseguaglianze - con particolare attenzione ai salari ed ai rediti da lavoro in genere - all'interno dell'Unione Europea e nelle altre economie OCSE.
I dati forniti dal Rapporto Eurofound, parlano di diseguaglianze che son cresciute in modo consistente, tra il 2006 ed il 2011, in due terzi degli Stati membri. Tutti gli studi empirici analizzati nel rapporto, indicano una tendenza crescente nella dinamica delle diseguaglianze in Europa identificando, nella crisi, un momento di forte accelerazione di tale tendenza. Il Rapporto sottolinea, inoltre, come la crescita delle diseguaglianze sia un fenomeno globale apparentemente inarrestabile, il cui legame con gli squilibri che hanno condotto alla deflagrazione della crisi è ormai accettato dalla maggioranza degli economisti (su questo si vedano i due volumi, Lo Stato Innovatore di M. Mazzucato e Il Capitale del Ventunesimo Secolo di T. Piketty).
Per quanto riguarda l'Europa, tuttavia, la crescita delle disuguaglianze assume un duplice, e ancor più preoccupante, significato. Da un lato, tale dinamica di divergenza nei redditi e, in particolare, la divergenza tra salari e profitti - interna ai paesi membri ma riguardante anche l'Unione complessivamente intesa - contraddice le finalità stesse dell'integrazione europea, postasi come obiettivo quello di una crescita economica contraddistinta dal continuo miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.
Dall'altro, l'avvicinamento dell'Europa ai livelli di diseguaglianza tradizionalmente osservabili nei paesi anglosassoni - gli USA ed il Regno Unito hanno visto aumentare in modo costante la dispersione dei redditi al loro interno già a partire dalle ondate liberalizzatrici della Thatcher e di Reagan - segnalal'eclissi del cosiddetto modello sociale europeo. Quest'ultimo, si lega ad una delle forze cruciali che hanno consentito, fino ad un determinato momento, all'Europa di mantenersi ben al di sotto del livello di diseguaglianza osservato negli USA. È lo stato sociale, ovvero tutto quell'insieme di interventi messi in campo dallo Stato per operare in modo correttivo, ex post, sulla distribuzione del reddito prodotta dal libero agire del mercato.
La rilevanza e la pervasività di tali interventi ha consentito per lungo tempo, alla gran parte dei paesi europei, di garantire una distribuzione del reddito ben più equa di quella statunitense. Tutto questo, però, ha visto una netta inversione di tendenza a partire dalla fine degli anni 90, come sottolineato nel rapporto Eurofound, mostrando una notevole coincidenza cronologica conl'adozione dell'agenda di riforme connessa alla costruzione dell'Unione Europea.
Il Rapporto identifica quattro principali determinati del progressivo incremento delle diseguaglianze a livello europeo. In primis, la tendenza a spostarsi verso modelli di contrattazione salariale decentrata. Modelli di contrattazione in cui il ruolo dei sindacati viene significativamente depotenziato e che producono un indebolimento globale della capacità contrattuale dei lavoratori, come ha recentemente riconosciuto anche il Fondo Monetario Internazionale. In secondo luogo, la competizione fiscale che ha coinvolto i paesi membri dell'Unione ha teso a favorire il capitale, riducendo le imposte sui profitti e sulle rendite finanziarie, nel costante tentativo, degli Stati, di apparire 'attraenti' in tempi in cui il capitale stesso gode di assoluta libertà di movimento.
L'ingresso dei paesi dell'ex blocco sovietico, reduci da un rapido e spesso disordinato processo di destrutturazione dei precedenti sistemi sociali, ha contribuito a spingere verso l'alto gli indicatori delle diseguaglianze nel Vecchio Continente. Infine, la minaccia di spostare la produzione verso est, dove la classe lavoratrice è più mansueta e meno pagata, ha contribuito ulteriormente acomprimere i salari oltre a neutralizzare ogni velleità di opposizione da parte dei lavoratori.
Un ulteriore elemento sottolineato dal Rapporto Eurofound riguarda gli anni della crisi, il periodo 2008-2014. Durante la crisi le diseguaglianze hanno avuto, nella maggioranza dei paesi membri, un aumento sostanziale principalmente a causa del circolo vizioso, disoccupazione-riduzione dei salari-recessione.
L'Europa diseguale che ci troviamo di fronte, dunque, sembra essere un luogo sempre più inospitale per coloro, la maggioranza, che si trovano nella parte bassa della distribuzione del reddito. Ma se si associa questo elemento alle divisioni che contrappongono il centro e la periferia minacciando costantemente la tenuta dell'Unione, si intravede un filo rosso che lega le criticità che incalzano l'Europa.
La cecità delle classi dirigenti europee, che perseverano nel proporre riforme che esacerbano, anziché attenuare, il gap tra il centro a trazione tedesca e il resto dell'area sembra essere la stessa che fa apparire la crescita delle diseguaglianze come un fatto ineluttabile e da non affrontare.
Al contrario, l'adozione di misure come il Jobs Act che, creando ulteriore flessibilità, indeboliscono salari e lavoratori mostra una totale noncuranza per ciò che, oramai, anche istituzioni internazionali come l'FMI riconoscono. L'incedere del trend di compressione dei salari e dei redditi da lavoro certificato dal rapporto Eurofound, e dai numerosi studi internazionali menzionati nello stesso studio, viene riconosciuto come una delle principali cause di instabilità e di esposizione a potenziali nuove crisi.
Queste evidenze, e lo scenario preoccupante che esse delineano, dovrebbero consigliare un ripensamento rispetto all'impianto di riforme proposto dall'inizio della crisi in poi. A giudicare dai contenuti del recente intervento sul mercato del lavoro italiano non sembrerebbe essere ancora giunto il momento di voltare definitivamente pagina.
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