di Federico Zappino
Da un mese, a Bologna, ci sono cinque persone costrette in casa, agli arresti domiciliari, in attesa di processo. Questo tempo di attesa, a oggi, non è stato quantificato.
Nessuna di queste persone è sospettata di aver ucciso qualcuno. D'altronde - si dovrebbe pensare - se la procura di uno Stato di diritto ricorre a una misura di questa portata, che ti sottrae preventivamente la libertà di movimento per un tempo indefinito, e che di fatto ti giudica meritevole di pena prima ancora di qualunque processo, difesa o condanna, è probabilmente perché hai ucciso qualcuno o perché, nella migliore delle ipotesi, hai messo altre persone nella condizione di aver paura della tua libertà, perché hai attentato gravemente alla loro vita, o alle condizioni e alle strutture, materiali e immateriali, da cui la vita dipende.
È importante non abbandonare l'idea che quel probabilmente debba essere assai prossimo a un certamente, in uno Stato di diritto, e che debba essere supportato da ricostruzioni verosimili dei fatti e da testimonianze attendibili. Non è qui in questione, al momento, se la detenzione costituisca o meno la risposta più adeguata a un reato, quale che sia; a essere in questione, semmai, è che nessuno vacilli sulla salda convinzione che una detenzione preventiva a tempo indeterminato non possa costituire la risposta dello Stato a un'azione di contestazione politica nonviolenta contro il suo governo.
Francesco Bedani, Ivan Bonnin, Francesca Ioannilli, Gigi Roggero e Parvis Jashn Tirgan, tutti del collettivo Hobo, sono reclusi in casa con l'accusa di aver opposto resistenza, lo scorso 12 dicembre, alle manganellate di alcuni agenti di polizia incaricati di stabilire chi potesse accedere e chi no all'interno di uno spazio pubblico, quale è la sede dell'Università, ad ascoltare la "prolusione" (così il sito dell'Università di Bologna) del ministro Marianna Madia, per l'inaugurazione dell'anno accademico della Scuola di specializzazione in Studi sull'Amministrazione Pubblica.
Gli arrestati sono tra coloro ai quali non è stato consentito l'accesso, in modo violento, come testimonia questo video. Qualora il loro diritto di accedere a uno spazio pubblico fosse stato rispettato, i contestatori avrebbero probabilmente appeso in aula magna lo striscione che avevano con sé, recante la scritta No Jobs Act - No #buonascuola, avrebbero fatto propaganda contro il governo e avrebbero preso parola pubblicamente al fine di esporre le ragioni del dissenso contro le politiche neoliberiste adottate dal governo. Tutte cose analoghe a quanto già fecero un paio di mesi prima, in occasione di un incontro pubblico con il rettore e con il sindaco, in Sala Borsa. Tutte cose che coincidono con quella libertà politica tutelata e sostenuta da uno Stato di diritto.
Rendere giustizia agli studenti e militanti di Hobo impone tuttavia di non limitarsi a fare l'apologia dello Stato di diritto e di una libertà repressa ancor prima della sua espressione e poi reclusa in via cautelare a distanza di cinque mesi, nell'arco dei quali nessuna indagine è stata fatta. È probabile che ci si possa sentire ancora disorientati dalla sfilata dei capi di Stato e di governo per le strade di Parigi, di qualche mese fa, in difesa della libertà di opinione. Occorre però non dimenticare che solo gli Stati e i governi - rappresentati dalle stesse persone che sfilavano - possono minacciare una simile libertà: nessun altro fantasma. Questo perché solo gli Stati possono revocare ciò che essi hanno concesso.
E questa minaccia è ciò che precisamente vediamo all'opera, infatti, nella Ley de Seguridad Ciudadana (la cosiddetta ley mordaza) varata dal governo spagnolo, pochi giorni dopo i disordini di Bologna: una legge che conferisce al concetto di "sicurezza pubblica" un potere e un significato arbitrario e illimitato, e sancisce legalmente il passaggio gentile allo stato di polizia. Ma tracce di questa minaccia sono rinvenibili anche nei reiterati tentativi, da parte del governo tedesco, di restringere il diritto di sciopero; e non si possono non leggere in queste direzioni le misure detentive cautelari adottate nei confronti di Luca Fagiano e Paolo Di Vetta, esponenti dei Movimenti di Lotta per la Casa, che il 12 aprile scorso hanno manifestato a Roma contro le pene severe per chi occupa edifici vuoti o dismessi, sancite dal decreto Lupi - o come quelle adottate nei confronti di Loris Narda, anch'egli di Hobo, per il quale è stato riesumato il "divieto di dimora" a Bologna e in tutta la provincia: una misura molto in voga durante il fascismo, introdotta dal Codice Rocco per tutelare le donne dai mariti violenti.
Le Sentinelle in piedi e i movimenti pro life potranno forse dissentire, ma a essere in pericolo non è la libertà d'opinione, genericamente intesa: per tutelare la loro libertà, e la finzione che questa valga per tutti egualmente, vengono infatti mobilitati interi apparati di polizia. Trecento erano gli agenti ieri a Bologna, in piazza San Domenico, a difesa di diciannove antiabortisti dell'associazione No194. Il processo di «de-democratizzazione totale», per dirla con Wendy Brown, quel processo mediante il quale la razionalità neoliberale erode ogni acquisizione democratica e neutralizza ogni forma di democrazia a venire, squalifica semmai la possibilità di esprimere una precisa forma di opinione, e cioè l'opinione contraria al modo di governo antidemocratico neoliberista.
A essere seriamente in pericolo sono quelle vite esposte e precarie che alle politiche predatorie e criminali di precarizzazione, di annientamento, di morte, contrappongono la riappropriazione di spazi, tempi, risorse, saperi, affetti. Dove non arrivano la depressione, l'isolamento e il suicidio a neutralizzare queste eccedenze, dove il desiderio dei corpi indocili assume la forma dell'insubordinazione, arrivano la detenzione cautelare, il divieto di dimora, gli omicidi di Stato.
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