Ultimi Post

sabato 27 giugno 2015

Il fallimento inevitabile di un Capo Carismatico targato TROIKA

DI FEDERICO DEZZANI

Attendendo il decorso del dramma greco, solchiamo il Canale d’Otranto e torniamo alle terre natie, per studiare la parabola discendente di Matteo Renzi. L’ex-sindaco di Firenze, “molto intelligente, energico come Fanfani, empatico ed una spugna nell’imparare” come lo definisce l’Ing. De Benedetti nel novembre 2014, ha perso la smalto iniziale e le promesse di una catarsi del Paese si sono inabissate nella fantomatica palude. Installato a Palazzo Chigi con la missione di attuare i desiderata della Troika imbellettandoli con una politica spregiudicata e giovanilistica, Renzi paga il fallimento di ricette economiche sbagliate e soprattutto lo scotto di essere un finto “capo carismatico”, salito alla ribalta nazionale senza sudore ed un’autentica missione innovatrice. Perché l’establishment euro-atlantico, nel disperato tentativo di salvare l’eurozona, ha insidiato un uomo solo al comando? Leggere il sociologo tedesco Max Weber per trovare la risposta.




Aria di smobilitazione
C’è aria di smobilitazione nei palazzi romani e nei salotti buoni italiani: la promettente campagna di Matteo Renzi, incensato dai media nazionali ed internazionali come il salvatore delle patria e l’ultima speranza dell’Italia, si è arenata. Si compattano le file nel governo (vedi il salvataggio del sottosegretario Ncd Giuseppe Castiglione coinvolto nelle indagini di Mafia Capitale, ed in particolare sul centro di accoglienza C.A.R.A. di Mineo) per evitare che una falla travolga l’intero esecutivo, ma il malumore e lo scoramento crescono: c’è chi defeziona, chi cerca di portare a casa almeno un trofeo e chi si smarca dopo le ultime batoste elettorali (vedi l’editoriale del direttore de La Repubblica Ezio Mauro“Per chi suonano le due campane”1).

La luna di miele tra Renzi e gli italiani dura meno di anno, risalendo al maggio 2014 le elezioni europee che, sebbene inficiate da un’astensione che si attesta al 42% del corpo elettorale, sanciscono la netta vittoria del Partito Democratico guidato da Matteo Renzi, nella duplice veste di segretario di partito e presidente del Consiglio: è la prima (e sinora ultima) affermazione alle urne dell’ex-sindaco di Firenze, la cui precedente investitura popolare coincide con le elezioni comunali del giugno 2009.
Non rinvanghiamo per l’ennesima volta chi prende sotto la propria ala protettrice uno sconosciuto ma ambizioso giovane toscano (American Enterprise Institute, CFR, Michael Ledeen, Ronald Spogli, Hillary Clinton, Jamie Dimon, Laurence D. Fink, etc. etc.) e lo eleva da sconosciuto presidente di provincia a primo ministro. Quel che ci preme sottolineare è come il neo inquilino di Palazzo Chigi riscuota in una prima fase, almeno tra chi si reca alle urne, il favore della maggioranza relativa.
Sono quelli i mesi d’oro del renzismo, quelli più inebrianti e sfavillanti, tanto che l’ex-sindaco di Firenze già li rimpiange, agognando un ritorno alle origini: è il periodo del Renzi “rottamatore”, del Renzi “asfaltatore”, del Renzi “alla guida del più grande partito del blocco socialista in Europa” (JP Morgan dixit2). La forza elettorale e mediatica di Renzi è tale che lo smarrimento pervade l’opposizione, la rassegnazione i dissidenti ed irrefrenabili sogni di grandezza l’esecutivo. I rampolli della famiglia Berlusconi, ai vertici delle aziende di famiglia, pronosticano l’inevitabilità di ventennio renziano, data la “presenza in campo del più forte di tutti”3; il fondatore di La Repubblica Eugenio Scalfari, controcorrente rispetto alle idee dell’editore, paventa anche lui il terzo ventennio della politica italiana, complice la facilità con cui gli italiani si fanno abbindolare dal seduttore di turno4; a Palazzo Chigi infine, dietro i consigli di qualche esperto che conosce bene le dinamiche della politica a la psicologia del corpo elettorale, si medita di cambiare la ragione sociale del Partito Democratico in Partito della Nazione.
Grazie allo sbando del centro-destra ed all'ascesa del M5S, Matteo Renzi sogna infatti di archiviare il PD come soggetto politico di sinistra (ha poco significato l’ingresso nel PSE, data la conclamata subalternità dell’attuale sinistra europea ai diktat neoliberisti di Bruxelles) e di trasformarlo in un partito trasversale che assorba tutto il centro fino ad inglobare l’elettorato del Cavaliere.
La vittoria alle europee ha in sé già però i germi della sconfitta: quasi metà dell’elettorato, estenuato da sei anni di recessione ed estraneo ad una politica incapace di dare concrete risposte alla crisi, non si reca alle urne; il fatidico 40% è ottenuto grazie all’assenza di un reale competitore politico mentre il M5S, grazie a dei media sfacciatamente filo PD, favorisce il convergere del voto tradizionalista verso il PD. La vittoria, insomma, è più il frutto delle debolezze altrui e dello smarrimento degli italiani che dei meriti di Matteo Renzi, allora premier da quattro mesi.
La ripresa economica, annunciata da Mario Monti già nell’autunno del 2012, tarda ad arrivare e sebbene i riflettori mediatici siano puntati sul superfluo semestre di presidenza della UE (1 luglio 2014 – 31 dicembre), mancano a Palazzo Chigi idee e margini di manovra per il rilancio del Paese: quanto può durare l’effetto rottamazione dinnanzi ad un Paese stremato e senza prospettive? A Palazzo Chigi il rischio è avvertito chiaramente ma, anziché imprimere un moto reale all’azione di governo, si opta per offrire l’impressione di movimento: nel settembre del 2014 partono i 1000 giorni (“l’ultima chance per recuperare il tempo perduto, per pareggiare i conti, è il cartellone di recupero che si espone a fine partita” dice Renzi5) con annesso sito per monitorare l’andamento dei lavori.
Il 2014 si chiude con l’ennesima recessione (PIL a -0,4% su base annua), un semestre di presidenza della UE anonimo come sempre e la necessità di eleggere un nuovo capo dello Stato dopo le annunciate ed irrevocabili dimissioni di Giorgio Napolitano: persino un’incombenza amministrativa come l’elezione del nuovo inquilino del Quirinale e la scelta dell’anodino Sergio Mattarella, sono spacciate dai media italiani come successi dell’ormai appannato Matteo Renzi, stancamente riproposto come un rullo compressore che schiaccia opposizioni e minoranze interne per traghettare il Paese verso lidi migliori6.
Nell’inverno del 2015 il governatore della BCE Mario Draghi decide, testimoniando la completa dipendenza dei parlamenti dagli umori delle banche centrali, che è il momento di immettere liquidità nel mercato obbligazionario. Lancia quindi l’allentamento quantitativo che fa schizzare alle stelle il prezzo dei bond e corsi azionari: è più che lecito pensare ad un coordinamento di Draghi con l’alta finanza anglosassone che, dopo aver depresso Piazza Affari ed i Btp con l’emergenza spread ed installato Matteo Renzi a Palazzo Chigi, investe poi profusamente nel Bel Paese. Il fondo Blackrock di Laurence D. Fink compra il 5% di quasi tutte le maggiori società italiane e Goldman Sachs rimpingua il proprio portafoglio di Btp italiani e Bonos spagnoli7: è l’alta finanza, insieme al governo Renzi che accumula un discreto “tesoretto” in minore spesa per gli interessi, a beneficiare maggiormente dei 60 €mld mensili che Mario Draghi immette sul mercato dal marzo 2015.
L’azione di governo però non decolla, appesantita com’è dalle direttive della Troika che, da un lato limitano la libertà dell’esecutivo in campo economico, dall’altro ne influenzano la stessa agenda, costringendo Matteo Renzi a scontrarsi con il consueto elettorato del PD-DS-ex PCI, ovvero quel nocciolo duro di impiegati pubblici e studenti(il 20% del corpo elettorale che regala la vittoria plebiscitaria a Renzi alle europee) che non diserta mai le urne.
Renzi è poi spiazzato dalla deflagrazione dello scandalo Mafia Capitale: per evitare l’imbarazzante commissariamento della capitale per infiltrazioni mafiose od indire elezioni anticipate che metterebbero in forse il controllo di Roma da parte del PD, Renzi si lega mani e piedi al fallimentare sindaco Ignazio Marino nel dicembre 20148, colando a picco insieme alla giunta romana finché, divenuta la situazione insostenibile, Renzi taglia i legacci dichiarando che “il sindaco non è in grado di proseguire” alla luce della pessima tornata elettorale del giugno 2015.
L’emergenza immigrazione, lo scandalo Mafia Capitale, gli attriti con la CGIL, le fratture con gli ex-DS e l’impercettibile ripresa economica (8 imprenditori su 10 dichiarano a giugno di non notare nessuna inversione di tendenza9) si addensano sopra Palazzo Chigi fino a sfogarsi nelle urne: alle regionali ed amministrative un elettore su due rimane a casa, il PD perde la strategica regione della Liguria ed è espulso da uno storico bastione come il comune di Venezia, dopo 21 anni di amministrazioni del centrosinistra. Persino Renzi, che ha costruito la propria immagine sull’imbattibilità, è costretto ad ammettere la sconfitta10. È l’inizio della fine?
Torniamo quindi al punto di partenza. È oggi forte, fortissima, l’aria di smobilitazione.
Il viceministro degli esteri Lapo Pistelli, il sindaco in pectore di Firenze nel 2009 finché il suo portaborse Matteo Renzi non vince a sorpresa le primarie del PD (con il sostegno, si può tranquillamente affermare ex-post, del toscano Denis Verdini), lascia in questi giorni la mansione alla Farnesina per assumere la carica di vicepresidente senior di ENI. La scelta è motivata dalla volontà di Renzi di liberarsi di un fastidioso ex-avversario oppure dal desiderio di Pistelli di monetizzare i crediti verso l’ex-sindaco di Firenze prima che questi diventi insolvente, perdendo la poltrona a Palazzo Chigi?
Un’altra mossa che ha il sapore del saccheggio spregiudicato prima della ritirata, è il cambio ai vertici della Cassa Depositi e Prestiti, l’ente controllato all’80% dal Tesoro e dal 20% dalle fondazioni bancarie che, reinvestendo il risparmio postale, è quanto di più simile esista oggi alla vecchia IRI.
Qui Renzi defenestra un mostro sacro come il presidente Franco Bassanini (politico in quota Massimo D’Alema e reo probabilmente di aver diretto la cessione del 35% di Cdp Reti – Snam e Terna – alla State Grid Corporation of China11) rimpiazzandolo con l’ex-responsabile italiano di Goldman Sachs, Claudio Costamagna. La mossa si inserisce nella lunga serie di favori che Matteo Renzi restituisce a chi lo ha insediato a Palazzo Chigi e l’azzardato assalto alla Cdp corrobora la tesi che più che alla banda larga, Renzi sia interessato a occupare le poltrone strategiche finché è in sella.
Mentre infatti la stampa anglosassone incensa fuori tempo massimo Matteo Renzi (da ultimo il panegirico comparso sul periodico statunitense The New Yorker12), il sostegno degli italiani nel Partito Democratico e nell’esecutivo calano senza sosta: in poco più di dodici mesi il PD crolla infatti dal 40% al 32% e in parallelo la fiducia nell’esecutivo si liquefa ad un misero 27%13 (livello inferiore a quello di cui gode l’esecutivo di Enrico Letta quando questi  è costretto alle dimissioni nel febbraio 201414).
Perché la popolarità di Matteo Renzi si inabissa così velocemente? Le risposte sono due: l’impossibilità dell’ex-sindaco di Firenze di essere altro che il mero esecutore della Troika e la sua natura di finto capo carismatico, almeno secondo i criteri dello storico e sociologo tedesco Max Weber.
Un governo legato alle fortune della Troika
Fa sorridere il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi quando si lamenta che François Hollande sia invitato dai tedeschi a decidere le sorti dell’eurozona mentre l’Italia, nonostante versi in condizioni simili (e per certi aspetti persino migliori) a Parigi, è esclusa. La verità infatti è che la penisola è commissariata dal lontano novembre 2011 quando Silvio Berlusconi, analogamente al premier greco George Papandreou, è estromesso dal governo perché minaccia di abbandonare l’euro piuttosto che applicare le ricette suicide del Fondo Monetario Internazionale15.
Da allora si sono succeduti tre governi (Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi) la cui azione politica si è limitata all’attuazione dell‘austerità imposta dalla Troika (UE-FMI-BCE) per salvare la moneta unica.
L’eurozona, nell’attuale configurazione politico-economica, non è altro infatti che un regime a cambi fissi, la cui sostenibilità è resa possibile se l’euro-periferia riequilibra le proprie bilance commerciali, evitando di importare più di quanto esporti: i saldi commerciali attivi rappresentano infatti “l’accumulo” di valuta, indispensabile a mantenere l’euro funzionante. L’austerità non mira a risanare le finanze pubbliche (il debito pubblico italiano si attesta a 1.890 €mld nell’aprile 2011 ed a 2.194 €mld nell’aprile 2015) ma a distruggere la domanda interna attraverso il “consolidamento fiscale” (ossia una caterva di tasse), deprimendo così i consumi e l’import.
Il principale ed insormontabile limite di Matteo Renzi è legato alla sua natura di politico, espressione cioè di quell’establishment euro-atlantico che ha adottato l’austerità per salvare l’eurozona e non si discosterà mai da questa linea sia perché sarebbe l’ammissione di un’interminabile serie di errori, sia perché l’austerità, consentendo di comprare a prezzi di saldo i beni dell’euro-periferia, è gradita alla City ed a Wall Street.
Il destino di Matteo Renzi è quindi sempre stato vincolato al successo delle ricette della Troika, da cui l’ex-sindaco non si è mai discostato eccetto che per il celebre “bonus da 80 euro”, elargito in vista delle elezioni europee e peraltro subito riassorbito dall’incessante aumento delle tasse locali, schizzate del 33% tra il 2010 ed il 201316. La pressione fiscale per l’intero 2014 si attesta infatti alla cifra record di 43,5% del PIL, un livello ritenuto intollerabile anche dalla Corte dei Conti17.
Il “consolidamento fiscale” dà comunque i propri frutti, almeno sotto il punto di vista della bilancia commerciale: nel 2014 il saldo attivo, grazie al crollo dei consumi e dell’import, si attesta a 42,9 €mld, record dal 199318e nel 2015 la dinamica prosegue se si considera che ad aprile il saldo tra export ed import è positivo per 3,7 €mld rispetto ai 3,5 dell’anno precedente19.
Non bisogna certo ricorre alla favola delle api di Bernard de Mandeville per comprendere come un governo che persegue scientificamente la distruzione della domanda interna è destinato ad essere travolto dalla macerie di un’economia nazionale al collasso: ecco quindi spiegato il veloce inabissarsi del gradimento di Matteo Renzi.
L’ex-sindaco di Firenze, non pago dell’inasprimento fiscale, si cimenta poi in una serie di politiche di svalutazione interna, rese necessarie dall’impossibilità di svalutare la moneta: usciamo quindi dal campo della fiscalità, per entrare in quello del taglio di salari e pensioni.
Esattamente come avviene nell‘Italia fascista durante l’aggancio della lira a “quota 90” sterline ed il successivo rientro nel sistema a cambi fissi del gold exchange standard, il taglio delle retribuzioni è infatti la conditio sine qua non per riacquistare competitività sui mercati internazionali, ridurre l’import (grazie ai minori consumi della popolazione) ed aumentare l’export (grazie a salari più competitivi sui mercati internazionali). Cosa sono infatti il blocco dell’adeguamento all’inflazione di pensioni e salari, se non forme di svalutazione interna? Non sono, guarda caso, altre manifestazioni di quella stessa austerità cui si sta ribellando la Grecia?
Un particolare focus è ovviamente posto sul fattore lavoro che in moltissime attività rappresenta la parte determinante dei costi di produzione: parliamo ovviamente dell‘abolizione dell’art.18 per chi firma nuovi contratti di lavoro e dell’introduzione dei licenziamenti economici previsti dal Jobs Act. Esula dalla nostra analisi stabilire dove finisca il diritto dell’imprenditore di decidere liberamente quanti lavoratori impiegare e dove inizi l’interesse della comunità a perseguire la piena occupazione, quello che ci preme sottolineare è come il Jobs Act, scardinando il potere contrattuale dei lavoratori, abbia un palese effetto deflattivo sui salari.
È curioso confrontare a questo proposito le politiche di un governo di centro-sinistra come quello di Matteo Renzi ed uno di centro-destra come quello spagnolo di Mariano Rajoy: per conseguire lo stesso fine di riequilibrare le bilance commerciali, il primo adotta una pressione fiscale record (che nell’immaginario della sinistra si scarica ancora sui “possidenti”) ed una deregolamentazione graduale del mercato del lavoro, mentre il secondo conserva una pressione fiscale tra le più basse d’Europa (36% del PIL20) ma adotta una riforma del lavoro tre le più liberista d’Europa in termini di facilità di licenziamenti. Qualcuno potrebbe obbiettare che, proprio grazie ad un mercato del lavoro più deregolamentato, si stima che il PIL spagnolo cresca del 2,6% nel 201521 rispetto al +0,7% italiano, ma non bisogna scordare che, a differenze dell’Italia, Madrid non ha stretto i cordoni della spesa pubblica, tanto che il deficit per il 2015 è stimato al 4,5% del PIL22 ed il debito pubblico si sta rapidamente avvicinando al 100% del PIL, il doppio del 2008.
L’attuazione della svalutazione interna genera però due problemi al governo di Matteo Renzi: la difficoltà a vendere riforme neoliberiste all’elettorato di centro-sinistra e gli attriti con le istituzioni poste a garanzia della Costituzione che, nate nella cornice di uno Stato nazionale e non cancellate dalla tecnocrazia di Bruxelles, sono obbligate a rilevare la violazione di alcuni principi cardine della Carta nell’attuazione delle suddette riforme deflattive.
L’approvazione del Jobs Act (seguito da una riforma della scuola invisa al corpo docente e studentesco, tradizionali bacini elettorali del PD) è infatti indigeribile per la minoranza di sinistra del PD che, fino all’arrivo dell’ex-DC Matteo Renzi sponsorizzato dall’American Enterprise Institute, era abituata ad un ruolo egemone nel matrimonio DS-Margherita. È infatti il deputato PD Stefano Fassina a notare come la riforma del lavoro voluta da Renzi abbia una palese impostazione neoliberista, in linea con con i dettami della Troika che premono sulla svalutazione interna e sulla compressione dei consumi per uscire dall’eurocrisi23.
Sottraendo le riforme istituzionali utili a consolidare il potere del premier e le nuove leggi su mercato del lavoro e scuola, il paniere del governo Renzi è quasi vuoto e quel poco che rimane non è certo etichettatile come provvedimenti di sinistra: dalla riforma delle banche popolari (in forte odore di incostituzionalità) al recente decreto che facilita l’escussione delle garanzie bancarie e consente agli istituti di credito di dedurre a fini fiscali in uno, anziché in cinque anni, la svalutazione dei crediti, è sempre più ovvia la totale estraneità di Renzi alla tradizione socialdemocratica ed il suo parallelo asservimento agli interessi finanziari. La minoranza del PD sembra infine averne tratto le dovute conseguenze.
Un altro nodo portato al pettine delle politiche di svalutazione interna adottate dai governi della Troika, è l’idiosincrasia tra tecnocrazia europea e tecnocrazia italiana, che conserva comunque un margine di libertà specialmente dove l’azione del Parlamento penetra con difficoltà: ci riferiamo alla Carta costituzionale e all’obbligo del Parlamento di legiferare entro determinati paletti.
I governi Monti-Letta-Renzi, pur non potendo intervenire direttamente sul taglio delle retribuzioni nel settore privato, hanno ampi margini di manovra nel perimetro della spesa pubblica: ne seguono quindi il blocco della perequazione delle pensioni ed il blocco dei contratti della PA che, iniziati nell’autunno del 2011 in piena emergenza spread, proseguono ininterrotti fino ai recenti pronunciamenti della Corte Costituzionale.
La Consulta infatti, con due pronunciamenti in successione, smonta i provvedimenti ritenendoli in aperta violazione della Carta dove negano la tutela del potere di acquisto di pensionati e lavoratori. Il governo reinterpreta ovviamente le sentenze della Consulta in modo da limitarne al massimo gli effetti sulle già vuote casse dello Stato (2,2 €mld per la perequazione delle pensioni24 e 1 €mld per la PA25) ma le decisioni della Corte Costituzionali sono il sintomo che è impossibile per i governi in carica adottare fino in fondo politiche di svalutazione interna, senza incorrere nell’alt di quegli organismi che conservano un certo grado di libertà rispetto al Capo dello Stato ed al Parlamento.
Il peregrinare di Matteo Renzi diventa quindi sempre più incerto: i “tesoretti” si liquefano come neve al sole, la ripresa è impercettibile, la tradizionale base elettorale del centro-sinistra è in subbuglio e le forze centrifughe nel PD sempre più forti, tanto che i deputati Stefano Fassina e Pippo Civati annunciano ufficialmente il loro addio al partito e meditano la costituzione di un nuovo soggetto a sinistra. La riforma della scuola passa infatti al Senato il 25 giugno con 159 voti in favore, due in meno della maggioranza assoluta, sollevando così forti dubbi sulla capacità dell’esecutivo di proseguire il cammino. Riuscirà Renzi a portare a casa anche la riforma del Senato e della RAI o si voterà in autunno con il Consultellum?
In ogni caso, qualsiasi siano gli sviluppi dei prossimi mesi anche alla luce della crisi greca, è già finito il mito dell’infallibilità di Matteo Renzi, “uomo solo al comando”, “ultima speranza per le élite politiche italiane26” e “leader naturale e carismatico27”.
Perché l’establishment ha puntato tutto su una figura come Matteo Renzi, dal piglio decisionista al limite dell’autoritario, nel disperato tentativo di preservare lo status quo e l’integrità della zona euro? E perché Renzi ha miseramente fallito?
È sufficiente leggere qualche lavoro di sociologia sulla figure dei capi carismatici, per rispondere a queste domande.
Max Weber ed il logorio di un falso capo carismatico
Il termine “crisi”, associato nell’immaginario collettivo a periodi di profonda difficoltà economica ed insicurezza sociale, ha un’etimologia greca (il verbo greco κρίνω, krino, giudicare) ed indica letteralmente un momento in cui bisogna operare delle scelte, rese obbligatorie da forti cambiamenti.
È lo storico, economista e filosofo tedesco Max Weber (1864-1920), padre della moderna sociologia, il primo studioso ad osservare, attraverso un’approfondita ricerca storica che parte dall’Antico Testamento ed arriva alla storica contemporanea, come i momenti di crisi siano i periodi in cui sorgono spontaneamente i capi carismatici, che traghettano il proprio popolo fuori dalle acute avversità contingenti verso un nuovo ordine.
La soluzione della crisi è, secondo Weber, la missione specifica del capo carismatico e della ristretta élite (o classe dirigente) che lo circonda. Max Weber tratta l’argomento nell’opera postuma ed incompleta “Economia e Società” (1922) e nella ricerca storica “il Giudaismo Antico” (1919) dove una particolare attenzione è posta sulla figura di Mosè, il primo vero capo carismatico che appare sul palcoscenico della storia, studiato, non a caso, anche da Niccolò Machiavelli ne “Il Principe” (1513).
Un attento lavoro sui leader carismatici nell’interpretazione di Max Weber e sulla funzione dei capi portatori di carisma (il prestigio personale che deriva dalla naturale capacità di comando, persuasione e guida) nelle situazioni straordinarie (crisi, appunto) è svolto dal professore Luciano Cavalli, docente presso la facoltà di sociologia di Firenze ed autore del libro “Il capo carismatico” (Edizioni Il Mulino, 1981).
Cosa si ricava dagli studi di Weber e Cavalli?
Nei momenti di crisi tendono ad emergere naturalmente leader che, completamente devoti ad una missione cui sacrificano qualsiasi altro interesse, riuniscono attorno ad essi “un’aristocrazia” che li assiste nell’attuazione della loro missione, volta al superamento della straordinaria situazione di difficoltà in cui è precipitato il popolo da cui si è elevato il capo. Il capo carismatico, infatti, si può definire il “genio della nazione”, incarnandone la cultura e le aspettative, ed instaura spontaneamente un rapporto plebiscitario con le masse, mediato solo dalle élite che ne diffondono il messaggio e lo assistono nell’attuazione dei suoi disegni. Il capo carismatico si materializza quando il vecchio ordine entra irrimediabilmente in crisi: doma le spinte anarchiche, crea nuovi valori, e infondendoli alle masse (non sarebbe altrimenti dotato di carisma) ed al limite imponendoli anche con la forza, instaura un nuovo ordine, destinato a compiere un nuovo ciclo.
In particolare Max Weber, vivendo i travagliati anni della Repubblica di Weimar, teme che l’instaurasi delle democrazia parlamentare, rappresentativa solo di interessi quotidiani e clientelari, impedisca in futuro l’emergere di nuovi capi carismatici, condannando così l’Occidente ad un’inesorabile declino, privato dell’apporto delle élite creative. L’unica ancora di salvezza è, secondo lo storico e sociologo tedesco, l’avvento della democrazia plebiscitaria, attraverso cui i leader carismatici possono nuovamente instaurare la cinghia di trasmissione tra capo creativo, aristocrazia e masse.
Chiunque abbia seguito la parabola politica di Matteo Renzi dell’ultimo anno, dall’atteggiamento di uomo solo al comando al progetto di  un Partito della Nazione a chiara vocazione plebiscitaria, noterà il chiaro tentativo di costruire attorno all’ex-sindaco di Firenze l’aura del capo carismatico. Tutti i media, dalla carta stampata alle televisioni, nazionali ed in particolar anglofoni, si sono prodigati in questi mesi per attribuire a Matteo Renzi le classiche doti del leader carismatico: eloquenza, legittimazione popolare, passione, lungimiranza, missione salvifica, etc etc.
Perché quindi Matteo Renzi ha sostanzialmente già fallito, ed il suo governo riscontra il favore solo di un italiano su quattro? E perché l’establishment euro-atlantico, avvezzo alle tecniche del potere, ha imposto all’Italia un aspirante capo carismatico?
La risposta sta nell’intima natura di Matteo Renzi, che con il capo carismatico di Max Weber non condivide la fondamentale (ed autentica) missione di demiurgo: traghettare la nazione da un vecchio ordine definitivamente tramontato ad uno nuovo che nessuno, tranne il leader ed una ristretta élite, è capace di vedere. Matteo Renzi non è infatti un capo carismatico secondo i canoni di Weber, bensì uno strumento per la conservazione del presente, l’ultimo tentativo della classe dirigente italiana ed euro-atlantica di preservare lo status quo.
L’instaurazione di un rapporto carismatico tra “la massa” e Matteo Renzi è quindi impossibile, perché la prima percepisce a distanza di pochi mesi che il secondo non vuole o non può superare, bensì cerca di conservare, l’ordine vigente (l’austerità economica, il neoliberismo,l’eurozona, la UE, i rapporti atlantici, l’immigrazione selvaggia), percepito come esausto e fallimentare.
È quindi inutile che i media nazionali ed anglosassoni insistano nell’incensamento di Matteo Renzi: il falso capo carismatico sarà seppellito dalle macerie man mano che il vecchio ordine euro-atlantico crollerà.
P.S.: il venerdì del terrore targato ISIS significa che le trattative tra Troika ed Atene sono a un punto morto.

Federico Dezzani

Nessun commento: