DI FEDERICO DEZZANI
I vani sforzi italiani per risolvere alla radice l’immigrazione
L’immigrazione di massa dall’Africa verso l’Europa non è un fenomeno dalle radici profonde ma, al contrario, è storia recente, il cui inizio può essere ricondotto alla fine della Guerra Fredda ed all’avvento del “nuovo ordine mondiale” propugnato dalle élite euro-atlantiche. Come il fondamentalismo islamico e le varie organizzazioni terroristiche sunnite erano sostanzialmente estranei al mondo bipolare (dall’Algeria al Pakistan, dalla Libia alla Somalia vigevano regimi più o meno limpidi, ma rigorosamente laici e spesso d’ispirazione socialista), così l’immigrazione non era alimentata da ondate di profughi o da flussi superiori alle esigenze del mercato del lavoro, tranne nei paesi europei, Francia e Gran Bretagna in testa, che sul solco dell’esperienza coloniale scelgono fin dagli anni ’80 di adottare la politica, rivelatasi poi fallimentare, dell’accoglienza indiscriminata.
La nascita e lo sviluppo del fondamentalismo islamico risponde sia alla volontà delle monarchie del Golfo, che professano l’islam sunnita più retrogrado ed intollerante (il wahhabismo), di espandere il proprio credo all’intero mondo mussulmano che alla necessità di Washington, Londra e Tel Aviv di plasmare un nemico contro cui intervenire militarmente in Medio Oriente.
I flussi immigratori dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa sono analogamente il prodotto delle politiche adottate dagli angloamericani, che aborriscono l’idea dello sviluppo ordinato della regione (che rimpicciolirebbe Israele data la propria minuscola economia) ma preferiscono piuttosto fomentare tensioni e caos fedeli al “divide et impera”. Le ondate migratorie si inseriscono poi nel progetto massonico/mondialista di lungo periodo di annacquare le nazionalità europee con l’iniezione di popolazioni allogene, per facilitarne la fusione in organismi sovranazionali.
L’Italia, promotrice sin nel XX secolo di un colonialismo “meridionalista” che cerca nei territori africani occasioni di lavoro piuttosto che lo sfruttamento delle risorse naturali, è su posizioni diametralmente opposte agli USA ed al Regno Unito, anche in virtù della sua posizione al centro del Mediterraneo che le espone alle turbolenze di tutta l’Africa a nord del Sahara: dove gli italiani hanno interesse a costruire, gli angloamericani hanno interesse a bombardare, dove gli italiani tessono i rapporti diplomatici, gli angloamericani esacerbano le tensioni, dove gli italiani prediligono il commercio, gli angloamericani optano per la soluzione militare. Tanto la nostra politica arginerebbe i flussi d’immigrazione, quanto quella di Washington e Londra alimenta i dissesti economici e politici che sono all’origine delle migrazioni di massa.
Basti dire che in cima alle nazionalità degli immigrati che sbarcano ogni anno in Italia figurano ancora i somali, il cui Paese sprofonda nel 1991 in un’instabilità da cui non si è mai più ripreso (il che dovrebbe preoccupare non poco per la Libia). Il caos in cui precipita la Somalia è naturale o indotto? E se è artificialmente generato, chi concorre a destabilizzare il fragile paese del Corno d’Africa?
Ebbene, la Somalia è il primo caso di disgregazione di uno Stato africano condotto dagli angloamericani ai danni dell’Italia. Assegnata a Roma in amministrazione fiduciaria dalla Nazioni Unite, dal 1950 al 1960 il povero ma strategico Paese è un’estensione dell’Italia, con cui condivide bandiera, lingua ufficiale ed inno nazionale. Ottenuta l’indipendenza nel luglio del 1960, ai vertici dello Stato siede il filo-britannico Abdirashid Ali Shermarke, primo ministro dal 1960 al 1964 e poi presidente.
Nell’autunno del 1969, lo stesso anno in cui Muammur Gheddafi rovescia con il determinante sostegno dei servizi italiani il re Idris messo in trono dagli inglesi, l’ex-carabiniere Mohammed Siad Barre (1919-1995) è artefice di un golpe che lo eleva a Presidente della Repubblica Democratica Somala. Proprio come la Libia del Colonnello, sebbene la nuova Somalia si inspiri ad ideali socialisti ed apra alla collaborazione con l’URSS, gravita però nell’orbita italiana per quanto concerne l’economia: i rapporti tra la Somalia di Barre e l’Italia di Bettino Craxi sono così buoni che nel 1985 si celebra la storica visita del premier socialista a Mogadiscio, accolto con calore e sfarzo.
La dissoluzione dell’URSS nel 1991 sancisce l’inizio del “nuovo ordine mondiale” a guida angloamericana, dove a saltare sono innanzitutto le conquiste italiane in politica estera, ottenute strizzando l’occhio a Mosca ed ai movimenti terzomondisti: la Libia del Colonnello è immediatamente oggetto delle sanzioni dell’ONU che le impediscono di esportare il petrolio1, mentre per la Somalia è adottata una strategia più aggressiva che punta allo smembramento del Paese.
Già indebolita dalla guerra dell’Ogaden contro l’Etiopia (1977-1978), la Somalia patisce duramente gli effetti della Prima Guerra del Golfo (1990-1991) che azzera le fondamentali rimesse dei somali che lavorano nella regione e blocca le esportazioni di bestiame. Siad Barre è ora stanco ed anziano, il suo clan gestisce in maniera opaca lo Stato ed il Paese è minato dalle faide tra etnie e dalle velleità secessionistiche dell’ex-Somaliland britannico.
Il ministro degli esteri Gianni De Michelis e le autorità egiziane si adoperano per una transizione morbida verso la democrazia, progettando un iter che passa dalla redazione della costituzione a nuove elezioni. A sabotare gli sforzi italo-egiziani intervengono gli inglesi che danno ospitalità a Londra, foraggiandoli anche con cospicui finanziamenti2, ai partiti ostili a Siad Barre: il Somali National Movement che si batte per l’indipendenza dell’ex-Somaliland britannico, l’United Somali Congressdel generale Mohammed Farah Aidid ed il Somali Popular Movement boicottano gli sforzi italiani fino a farli deragliare. Sono in particolare la BBC inglese ed il Foreign Office che si prodigano per alimentare le spinte secessionistiche dell’ex-Somaliland, denigrano il governo centrale di Mogadiscio e discreditano la politica somala dell’Italia.
Neutralizzate le iniziative italo-egiziane, una serie di misteriosi attentati scuote la capitale, ricalcando il classico schema della strategia della tensione: bombe all’ambasciata cinese ed irachena, attentati contro la rappresentanza della CEE e l’ufficio centrale delle poste. Per assestare il colpo di grazia allo stato somalo, gli USA ritirano il loro sostegno all’esercito che, demoralizzato e malpagato, si sfalda rapidamente: è l’inizio della guerra civile tra le etnie, fondamentalisti islamici, separatisti dell’ex-Somaliland britannico e signori della guerra vari che trasformano la Somalia in una terra di nessuno. Lo Stato fallito diventa in cambio un’agevole base per Al Qaida-ISIS-Al Shabab, offrendo così costanti pretesti a Washington per bombardare, con l’unico concreto risultato di tenere il Paese in un perenne stato di prostrazione ed instabilità.
Sono infatti essenzialmente somali i profughi che nei primi anni 2000 si riversano sulle coste italiane in un breve momento di bonaccia internazionale, prima che inizi “la guerra al terrore” e la lunga destabilizzazione del Medio Oriente, utile anche ad Israele.
Il Colonnello Gheddafi scampa nel 1996 all’ennesimo tentativo dell‘MI6 inglese di assassinarlo ricorrendo agli islamisti del Libyan Islamic Fighting Group3 e l’Italia, grazie ad un certosino lavoro diplomatico, ottiene il reinserimento di Tripoli nella comunità internazionale. Nel 1999 sono revocate le sanzioni ONU, i legami economici tra i due Paesi si irrobustiscono, consentendo alle aziende italiane di conquistare la preminenza nei settori energia, infrastrutture e difesa.
Nel febbraio del 2009 il Parlamento italiano ratifica il “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” tra Italia e Libia che, oltre a porre fine ai contenziosi dell’epoca coloniale, vieta ai contraenti il reciproco ricorso della forza (art. 3) e l’ingerenza degli affari interni (art.4). L’Italia si impegna a dotare la Libia, ricorrendo ad imprese italiane, di infrastrutture per in valore di 5 $mld ed è messa a punto una soluzione per risolvere l’annosa questione dell’immigrazione clandestina.L’art 19 del trattato recita infatti4:
1. Le due Parti intensificano la collaborazione in atto nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti e all’immigrazione clandestina, in conformità a quanto previsto dall’Accordo firmato a Roma il 13/12/2000 e dalle successive intese tecniche, tra cui, in particolare, per quanto concerne la lotta all’immigrazione clandestina, i Protocolli di cooperazione firmati a Tripoli il 29 dicembre 2007.
È l’inizio dei respingimenti che, sebbene denigrati dalla organizzazioni sovranazionali e Caritas varie (la Corte europea dei diritti dell’uomo, in spregio all’emergenza sbarchi che l’Italia affronta in solitudine e su pressione dell’establishmet atlantico, ne chiede la sospensione nel 2012), producono un calo del 90% degli sbarchi nel 20105 rispetto all’anno precedente. In termini assoluti l’afflusso di immigrati crolla nel biennio 2009/2010 a 14.000 unità dalle 38.000 del 20086:determinante, per l’attuazione della strategia anti-sbarchi, è la fornitura da parte italiana di sei motovedette alla marina libica che, affiancandosi alle nostre unità, fermano nelle acque libiche le imbarcazioni cariche di immigrati7.
È proprio contro queste motovedette che nel 2011 si accanisce la NATO, annichilendo la sparuta flotta libica e le capacità di contenere i flussi migratori.
2011, il crollo
L’Italia, considerata nei consessi internazionali ancora un paese uscito sconfitto dall’ultima guerra e come tale trattata, è nel 2011 oggetto di un attacco in grande stile che nell’arco di dieci mesi (febbraio – novembre) scardina la democrazia, l’economia e le alleanze internazionali.
Sfruttando l’estrema debolezza italiana e giocando sempre di sponda con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, gli angloamericani ed i francesi coronano finalmente il sogno di rovesciare Muammur Gheddafi: la totale perdita di sovranità monetaria, politica e militare dell’Italia consente così a Washington, Londra e Parigi di riuscire dove avevano fallito per 42 anni (il primo esperimento anglo-francese per spodestare il Colonnello – l’operazione Hilton Assignment8 – è sventato dal Sid guidato dal generale Vito Miceli già nel 1970).
I bombardamenti della NATO radono al suolo lo Stato libico, travolgendo sotto le macerie anche gli strumenti per la lotta all’immigrazione: il 70% della flotta libica9è affondato o gravemente danneggiato dai raid aerei e, fatto ancora più grave, è inferto un colpo letale al regime che, con tutti i suoi limiti, garantisce un livello minimo di organizzazione burocratica, indispensabile per controllare i flussi migratori.
Le cifre degli sbarchi sono sufficientemente eloquenti: nell’intero 2011, mentre i droni americani ed i corpi speciali anglo-francesi sono impegnati nella snervante caccia al Colonnello, sulle coste italiane si riversano 62.000 immigrati, rispetto ai 13.900 dei due anni precedenti10.
Il 2012 è un anno relativamente tranquillo per la vita politica libica, incentrata sulla nascita del Congresso Generale Nazionale incaricato di scrivere la nuova costituzione. È il periodo in cui l’ambasciatore americano Christopher Stevens, usando come base operativa il consolato americano di Bengasi condiviso con la CIA11, supervisiona il traffico d’armi dalla Libia verso i porti turchi, dove gli arsenali del defunto Colonnello equipaggiano gli islamisti impegnati nella lotta contro Bashar Assad12. Qualcosa deve però guastarsi nei rapporti tra Stevens ed i ribelli libici, freschi della recente collaborazione per rovesciare Gheddafi: l’11 settembre 2012 il consolato di Bengasi è preso d’assalto dai miliziani di Ansar al-Sharia e l’ambasciatore americano soccombe nell’incendio appiccato all’edificio dove si è rifugiato.
Ciononostante, l’emergenza sbarchi cala per tutto il 2012 e nell’intero anno si registrano “solo” 13.000 nuovi arrivi.
La sostituzione del defunto Christopher Stevens con l’ambasciatrice Deborah Jones, prudentemente installata a Malta, avvia però nel 2013 una nuova prepotente destabilizzazione del Paese nord-africano: a gennaio il console italiano Giuseppe De Santis esce illeso da un’imboscata tesagli a Bengasi ed il ministro degli esteri Giulio Terzi denuncia il tentativo di rigettare il paese nel caos13; ad aprile è la volta di un attentato dinamitardo all’ambasciata francese; a maggio un’autobomba sventra parte dell’ospedale centrale di Bengasi e la popolazione esasperata protesta contro il governo incapace di garantire la sicurezza; a giugno una carica è piazzata sotto l’auto del corpo diplomatico italiano a Tripoli ed i servizi segreti ipotizzano il coinvolgimento di un terrorista vicino agli inglesi14; a ottobre, a dimostrare l’impotenza del governo, il premier alb è vittima di un sequestro lampo nell’albero in cui alloggia; a dicembre il primo attentato suicida dell’era post-Gheddafi uccide otto persone ad un posto di blocco nei pressi di Bengasi.
L’intero 2013 è poi costellato da misteriosi omicidi eccellenti che eliminano, una dopo l’altra, figure di spicco dell’establishement libico con ovvie ripercussioni sulla stabilità del Paese: muoiono 50-60 persone, tra cui si annoverano funzionari della polizia, giudici, attivisti, generali delle forze armate ed alti ufficiali dei servizi d’informazione15.
Gli sforzi angloamericani per bloccare la normalizzazione del Paese sortiscono gli effetti sperati ed il 2013 è un anno record per gli sbarchi: 43.000 immigrati approdano sulle coste italiane, di cui il 65% parte dalla Libia.
Nel 2014 gli angloamericani raccolgo i frutti della loro strategia di destabilizzazione: le fragili istituzioni libiche collassano sotto il peso di faide tra tribù, attentati dinamitardi ed intolleranze religiose, provocando un parallelo aumento vertiginoso degli sbarchi che totalizzano il record di 170.000 persone.
Basta analizzare le rotte dei barconi per avere conferma che dietro l’ondata di sbarchi che investe l’Italia ci siano Washington e Londra: la quasi totalità dei barconi salpa dalla Tripolitania (la regione libica più vicina alla Sicilia) ed è proprio qui che nell’agosto del 2014, in netta opposizione alla tradizione che vuole la Tripolitania “laica” e la Cirenaica “islamica”, si installa la formazione islamista Alba della Libia.
Disconoscendo l’esito delle elezioni del 25 giugno, Alba della Libia conquista manu militari la capitale, obbligando il legittimo governo del premier Abdullah al-Thani a riparare a Tobruk. Le fortune degli islamisti di Alba della Libia sono legate al sostegno economico e militare elargito da Turchia, Qatar, USA e Regno Unito, uniti anche sul fronte siriano contro il regime laico di Bashar Assad. Come abbiamo più volte evidenziato nelle nostre analisi, la vicinanza degli angloamericani agli islamisti di Tripoli e la parallela ostilità verso il governo di Tobruk e l’esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar, spinge quest’ultimi a cercare a Mosca le forniture militari per la riconquista del Paese, negate loro da Washington che persegue la “somalizzazione” della Libia.
Fa sorridere il tentativo della stampa filo-americana italiana di scaricare sul generale nazionalista Haftar, impegnato da mesi nella riconquista di Bengasi, le colpe dell’immigrazione clandestina: si cimenta nell’impresa il giornalista de Il Manifesto Giuseppe Acconcia (collaboratore dell’OpenDemocracy di George Soros e docente presso l’Università americana del Cairo): anziché notare la lapalissiana responsibilità del governo islamista di Tripoli nel traffico degli immigrati, Acconcia accusa il governo di Tobruk ed il generale egiziano Al-Sisi di alimentare i flussi migratori con oscure finalità ricattatorie16.
Nel 2015 compare anche in Libia l’ISIS, i cui miliziani sono trasbordati con il placet americano dalla coste turche alla Libia per mezzo di navi, di tanto in tanto bersagliate dall’aviazione libica. Il governo di Tobruk non desiste dal chiedere alla comunità internazionale, ed all’Italia in particolare, di essere debitamente equipaggiato per combattere l’immigrazione clandestina, ammonendo anche di possibili infiltrazioni di miliziani dell’ISIS: Roma ignora le richieste del legittimo governo libico e preferisce allertare le prefetture e le regioni per ricevere la cifra record di 400.000 nuovi immigrati17.
L’Italia, dopo l’avvallo alla scellerata operazione NATO contro Muammur Gheddafi, si dimostra infatti ancora completamente succube ai diktat di Washington: anziché arginare un fenomeno destabilizzante e socialmente esplosivo come l’arrivo in massa di centinaia di migliaia di persone, lo Stato italiano, già gravemente debilitato, si adopera in ogni modo per facilitare l’invasione di clandestini.
Roma rifiuta l’assistenza al governo di Tobruk nella lotta all’immigrazione, perché finora la volontà è stata quella di assistere e persino incrementare degli sbarchi in ossequio alla direttive di Washington: ampi spezzoni dello Stato assecondano questa politica.
Dalla Marina Militare alle coop, passando per i servizi: i fiancheggiatori
Nel febbraio del 2012 la Corte europea dei diritti dell’uomo fornisce un assist decisivo per l’attuazione dell’invasione programmata dell’Italia, condannando la politica dei respingimenti attuata dall’Italia che nel biennio 2009-2010 dimezza quasi gli sbarchi: il mondialista Mario Monti, installato a Palazzo Chigi sull’onda dell’emergenza spread, si dice pronto a recepire la sentenza della Corte18.
È in questi mesi che si perfeziona il business dell’immigrazione clandestina, attivo a scala nazionale ma sviscerato solo a Roma nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale: l’indagine del procuratore Giuseppe Pignatone ci interessa non tanto per i risvolti politici ma perché rivela la partecipazione di larghi ed importanti spezzoni dello Stato al fenomeno dell’immigrazione di massa, intesa non come una minaccia da contrastare, ma al contrario come un avvenimento da sfruttare.
L’emergenza clandestini si trasforma a Roma, ma è così in tutta l’Italia, in un’opportunità per macinare utili a spese dello Stato, che prima asseconda ed alimenta gli affari ruotanti attorno alla gestione degli immigrati e poi, con l’avvio di Mare Nostrum, si preoccupa di incrementare esponenzialmente gli arrivi di profughi e clandestini.
A Roma il business dell’immigrazione fa capo a Salvatore Buzzi (“Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende di meno” recita una sua telefonata) e Massimo Carminati, capo di un clan mafioso abile nell’intercettare gli appalti del Comune di Roma, da ultimo quelli legati all’accoglienza dei clandestini.
Chi sono questi due loschi figuri? Due pesci piccoli del mondo criminale romano, che hanno scalato per caso i vertici della cupola mafiosa che fa il bello ed il cattivo tempo nella capitale? Decisamente no.
Salvatore Buzzi, condannato nel 1980 a venti anni di carcere per aver ucciso con 34 coltellate il complice con cui froda la banca dove è impiegato19, ha il raro privilegio nel 1994 di essere graziato dal Capo dello Stato, allora Oscar Luigi Scalfaro. Intuisce da subito le allettanti potenzialità del terzo settore se sviluppato gomito a gomito con la politica e divenuto sodale di Luca Odevaine, già vice-capo Gabinetto ai tempi della giunta di Walter Veltroni, si infiltra così a fondo nel mondo politico romano da essere in grado di accaparrarsi la metà degli appalti legati all’emergenza immigrazione (l’altro 50% è dirottato sulle coop cattolichedell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone). Il consorzio di cooperative Eriches da Buzzi, chiude il bilancio del 2013 con 53 milioni di fatturato e, come ammette da lui stesso, tutti gli utili provengono dalla gestione di profughi e clandestini20.
Massimo Carminati, il re di Roma alle cui dipendenze soggiace anche Buzzi, è invece l’ultimo epigono della Banda Magliana, l’organizzazione malavitosa che imperversa nella capitale tra gli anni ’70 e ’90, così vicina ai servizi segreti da nascondere il proprio arsenale nei depositi del Ministero della Sanità. La longevità di Carminati nel crimine romano, oltre ad un vita piuttosto discreta ed appartata, è riconducibile alla passata esperienza nei Nuclei Armati Rivoluzionari che, sul solco del terrorismo nero degli anni ’70, collaborano alla strategia delle tensione con efferati stragi (la bomba alla stazione di Bologna del 1980) ed omicidi eccellenti (l’assassinio di Piersanti Matterella sempre nel 1980).
La contiguità dei servizi segreti, eufemisticamente definiti “deviati”, alle attività criminali di Buzzi e Carminati è brevemente pubblicizzata appena esplode lo scandalo21: poliziotti che avvertono il “re di Roma” di essere sotto indagine, 007 che forniscono consulenze e apparecchi per non essere intercettati, carabinieri del nucleo operativo della compagnia di Trastevere che si mettono a disposizione dell’organizzazione criminale, etc etc.
Buzzi e Carminati sono a conoscenza già nel novembre 2013, un anno prima che scattino i gli arresti di Mafia Capitale, di essere sotto indagine, ma il loro senso di impunità è tale che i loro affari proseguono imperterriti: a turbarli è solo la nomina nel 2012 a procuratore della Repubblica di Roma di Giuseppe Pignatone che, dopo la sua attività a Reggio Calabria, è considerato un mina vagante, fuori dai giochi romani22.
Un altro ramo dell’inchiesta Mafia Capitale prontamente insabbiato dalla stampa è quello che coinvolge la Marina Militare: nel dicembre del 2014 sono tratti in arresto tre ufficiali con l’accusa di aver organizzato una truffa ai danni dello stato per 7 €mln, appropriandosi del gasolio formalmente destinato ad una nave cisterna affondata nell’Atlantico un anno prima.
La Marina Militare, la forza armata storicamente più vicina degli angloamericani, è tra i maggiori fiancheggiatori dell’immigrazione selvaggia e nell’ottobre del 2013 esercita forti pressioni sul governo italiano per il lancio di Mare Nostrum, l’operazione di salvataggio a largo delle coste siciliane che, anziché arginare il fenomeno degli sbarchi, in poco più di un anno (ottobre 2013- novembre 2014) fa lievitare il numero di immigrati in arrivo all’incredibile cifra di 170.000 unità.
Invece di farsi carico dei barconi quando entrano in acque italiane, la Marina Militare e la Guardia Costiera estendono il loro raggio d’azione alle acque libiche, cosicché agli scafisti è sufficiente affacciarsi sul mare, chiamare i soccorsi ed attendere di essere rimorchiati fino ai porti italiani.
La Marina Militare è entusiasta di Mare Nostrum, che finalmente le offre un ampio spazio mediatico sui cinegiornali della RAI, carta stampata e siti di Amnesty International e Ong varie, dove è celebrato l’impegno della Marina a “salvare il maggior numero possibile di vite umane”23. Poco importa se alcuni immigrati ammettano di essere stati costretti ad imbarcarsi sotto la minaccia della armi, salpando dalle spiagge di Tripoli controllate dalle milizie islamiste di Alba della Libia.
Quando in Parlamento qualcuno fa notare come sia proprio Mare Nostrum la causa dell’aumento esponenziale di sbarchi, il capo di stato maggiore della Marina Giuseppe De Giorgi ha la sfacciataggine di sostenere che non sia l’operazione italiana ad alimentare il flusso di clandestini, bensì “fattori di forza globali”, come “il disfacimento di Eritrea, Siria e Libia”24: l’ammiraglio dimentica che la dissoluzione di questi stati non è frutto di cause naturali, ma della precisa azione di Stati Uniti, Regno Unito ed Israele, coadiuvatati da alcuni paesi mussulmani.
Arriviamo all’interrogativo finale: a cosa servono gli sbarchi di massa, accuratamente apparecchiati dalla NATO?
Emergenza sbarchi, l’altra Ucraina dell’Europa
Nei nostri articoli abbiamo evidenziato fin da subito come il principale obbiettivo del golpe in Ucraina fosse sedare le forze centrifughe in seno all’UE generate dall’eurocrisi: provocando la scontata reazione di Mosca minacciata nei suoi interessi vitali, gli angloamericani elevano la Russia a nuovo pericolo per l’Europa,rispolverando la funzione originale della UE/NATO, nate per il contenimento dei russi.
Abbiamo inoltre dato risalto alla perfetta correlazione tra crisi greca e crisi ucraina, sottolineando come l’aumento delle probabilità che Atene lasci l’euro sia accompagnate a distanza di giorni, se non di ore, dalla recrudescenza del conflitto ucraino.
Ebbene, la funzione degli sbarchi di massa, è la stessa assolta dal conflitto ucraino: creare instabilità e tensioni,presentando la UE/NATO come la soluzione ai problemie minacciando foschi scenari qualora gli Stati affrontassero singolarmente queste sfide. “Fortunati che ci sono la NATO e l’Unione Europea a fronteggiare la Russia e l’immigrazione!” dicono gli alfieri dell’establishment euro-atlantico. “Senza la UE e la NATO verreste inghiottiti dall’Africa e schiacciati dalla Russia! Guai a cambiare lo status quo!” continuano.
Finora le personalità italiane che abbiano meglio esplicitato il concetto sono i massoni Mario Monti e Giorgio Napolitano.
Dice infatti l’ ex-Goldman Sachs Mario Monti, tanto nefasto all’Italia quanto esplicito nel descrivere le strategie del potere25:
“Se si crea un’Europa del Sud, magari con qualche paese che esce dall’euro o con un euro un po’ più debole rispetto a quello adottato dai Paesi del nord, può darsi che l’Europa a quel punto deleghi all’Europa del sud la funzione di frangiflutti rispetto ai flussi migratori, trasformandolo in un avamposto non integrato nell’Europa”.
Incalza l’ex-presidente della Repubblica, ora senatore a vita Giorgio Napolitano:
“Questo è il momento dopo il 1989 in cui si impone la costruzione di un nuovo ordine mondiale. Siamo giunti al dunque, bisogna riflettere su come sia giusto e sostenibile un ordine mondiale. Dobbiamo guardare al domani, ai prossimi mesi e riflettere e operare sul futuro. (…) Non siamo di fronte solo a un’emergenza, siamo dinanzi a movimenti e rimescolamenti di popolazioni nel Mediterraneo (chiaro riferimento al piano Kalergi, NDR). Fino a ieri la questione Mediterraneo-Medio Oriente è stata ai margini dell’azione europea. (…) Oggi è tempo di un’azione non più procrastinabile”.
La strategia angloamericana di compattare la UE con l’emergenza emigrazione ha finora sortito esiti positivi? A differenza della crisi ucraina, dove perlomeno Washington ha ottenuto da Bruxelles l’imposizione delle sanzioni economiche contro la Russia, l’emergenza sbarchi si è rivelata un clamoroso fallimento, alimentando anziché sedando i nazionalismi che stanno sgretolando la UE.
Su pressione dei conservatori inglesi alle prese con le elezioni politiche e della CDU/CSU di Angela Merkel, l’operazione Mare Nostrum che termina il primo novembre 2014 è sostituita dall’operazione europea Triton, che archivia il soccorso nelle acque internazionali e restringe il raggio d’azione dei soccorsi a 30 miglia dalle coste italiane.
Fallisce poi miseramente poi il tentativo di spalmare la fiumana di immigrati in arrivo sulle coste italiane sui diversi membri della UE: è in primis la Francia ad opporsi all’ipotesi che i clandestini siano spartiti per quote proporzionali e le trattative in corso prevedono una modestissima ricollocazione di 40.000 immigrati dalla Grecia e dall’Italia verso gli altri paesi, esclusi Regno Unito, Irlanda e Danimarca26. Nel frattempo sia in Austria che in Francia riprendono i controlli alle frontiere per respingere i clandestini che cercano di superare il confine.
Quali sono dunque le prospettive per l’Italia in vista dell’estate, stagione “calda” per eccellenza per quanto concerne gli sbarchi? Come per l’Ucraina, c’è da aspettarsi anche in Libia una nuova ondata di destabilizzazione ad opera degli angloamericani, sempre più preoccupati dalla velocità con cui si sta disintegrando la UE. I segnali in questo senso purtroppo non mancano: i tagliagole dell’ISIS si rafforzano giorno per giorno in Libia27 ed il governo islamista di Tripoli, molto sensibile agli interessi americani, ha già minacciato di reagire qualora gli europei intervenissero militarmente contro le basi degli scafisti28.
L’Italia, priva di qualsiasi forma di sovranità, rischia così di essere travolta dalla sempre più vasta opera di destabilizzazione condotta dall’establishment euro-atlantico, che dall’Ucraina alla Libia, passando per i Balcani, sta infiammando tutto il nostro estero vicino: comprendere che l’Unione Europea e l’Alleanza Atlantica sono l’origine e non la soluzione dei nostri mali, è il primo passo per fermare la dissoluzione sociale ed economica del Paese.
Federico Dezzani
Fonte: http://federicodezzani.altervista.org
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