di Francesco Manta
Erano anni che in Russia non si assisteva ad un colpo di terrore, ad un attentato che facesse tornare alla mente i periodi bui della spietata quanto logorante lotta al fondamentalismo islamico che accompagnava, e tuttora accompagna, la causa indipendentista delle nazionalità caucasiche della Russia meridionale.
Ci sono voluti sette anni prima che una delle due grandi capitali della Russia si svegliasse in una nuvola di fumo nero, questa volta provocata da due esplosioni simultanee all’interno della sontuosa metropolitana pietrina, più modesta rispetto all’omologa moscovita, pur sempre un gioiello della capitale degli Zar.
Ancora una volta in metropolitana, dopo quello del 2010 a Mosca. Rispetto all’ultimo attentato, tuttavia, in base alle ricostruzioni degli inquirenti si delinea un’inversione di tendenza rispetto al passato: a Park Kultury, il 29 marzo 2010, due donne kamikaze di origine cecena si fecero esplodere nella stazione, oggi invece nessuna vittima sacrificale, bensì due estintori (quelli esplosi), caricati con una modesta quantità di esplosivo e infarciti di sferette metallicheadibite a fare il “lavoro sporco”, come proiettili impazziti.
La matrice degli attentati, secondo quanto riportato dalle autorità russe, sembra ancora una volta riconducibile al fondamentalismo islamico del Caucaso settentrionale: il caso particolare della Russia post Guerra Fredda, e soprattutto il periodo di Putin, offre uno scenario unico di sovrapposizione tra il fenomeno del terrorismo religioso e quello politico interno. Dopo la strage alla scuola di Beslan del 2004, l’imposizione di Ramzan Kadyrov come Presidente della Repubblica Cecena ha in parte frenato il fenomeno del fondamentalismo islamico in Russia, con alcuni sporadici eventi che negli ultimi 15 anni hanno colpito le principali città russe, dalla strage del Teatro Dubrovka a Mosca del 2003 fino a quelli del 29 e 30 dicembre 2013 alla stazione ferroviaria di Volgograd, passando per l’esplosione all’aeroporto di Mosca – Domodedovo del 2011. Il rapporto della Russia col terrorismo è stato sempre molto teso, per questo le misure adottate dalle autorità per far fronte al problema sono sempre state molto stringenti: pattuglie di polizia in ogni stazione della metropolitana, body scanner anti esplosivo all’ingresso di ciascuna stazione (almeno a Mosca), controlli preventivi all’ingresso di ciascun obiettivo sensibile come monumenti di interesse, luoghi del potere, aeroporti e stazioni ferroviarie. C’è da dire, tuttavia, che vi sono ancora molte aree “calde” per il terrorismo islamico che supporta l’indipendenza dei territori del Caucaso settentrionale; la fiamma in Daghestan non si è mai spenta e spesso, seppure passano in sordina sui media, si verificano in questi territori attacchi alle popolazioni locali o verso militari russi, non ultimo l’attacco del 24 marzo scorso presso una base militare russa in Cecenia in cui sono morti sei soldati del governo di Mosca, rivendicato da Daesh.
San Pietroburgo, come qualcuno in queste ore ha ricordato, è sempre stata un’oasi felice, immune dal terrorismo. A San Pietroburgo molte di queste misure preventive non esistevano, infatti il clima in città è stato sempre molto meno pesante di quello che si respira a Mosca. Ieri a San Pietroburgo era presente il Presidente Vladimir Putin per un incontro con il suo omologo bielorusso, Aleksandr Lukashenko. L’idea del movente politico dietro l’attentato di ieri è sorretta anche e soprattutto da questa ragione, quasi a voler rivendicare sotto il naso di Putin un attentato, nella sua città natale. L’inutile dietrologia complottista all’incontrario non regge su niente: chi dice che siano stati attacchi perpetrati dai servizi segreti per distogliere l’attenzione mediatica dal problema dell’opposizione interna lo fa senza onestà intellettuale. Come giustamente ricorda il prof. Igor Pellicciari, se c’è qualcuno cui questo attentato nuoce politicamente quello è proprio Putin. I russi tendono a screditare un capo politico che non riesce a garantire sicurezza alla propria comunità, e questa falla nel sistema non fa bene alla posizione del Presidente russo. Ora la palla passa nuovamente nelle mani del governo di Mosca, che dovrà dunque decidere in che maniera rispondere a tale sollecitazione, ma l’idea è che non si impiegheranno degli hashtag o una manciata di gessetti colorati.
La matrice degli attentati, secondo quanto riportato dalle autorità russe, sembra ancora una volta riconducibile al fondamentalismo islamico del Caucaso settentrionale: il caso particolare della Russia post Guerra Fredda, e soprattutto il periodo di Putin, offre uno scenario unico di sovrapposizione tra il fenomeno del terrorismo religioso e quello politico interno. Dopo la strage alla scuola di Beslan del 2004, l’imposizione di Ramzan Kadyrov come Presidente della Repubblica Cecena ha in parte frenato il fenomeno del fondamentalismo islamico in Russia, con alcuni sporadici eventi che negli ultimi 15 anni hanno colpito le principali città russe, dalla strage del Teatro Dubrovka a Mosca del 2003 fino a quelli del 29 e 30 dicembre 2013 alla stazione ferroviaria di Volgograd, passando per l’esplosione all’aeroporto di Mosca – Domodedovo del 2011. Il rapporto della Russia col terrorismo è stato sempre molto teso, per questo le misure adottate dalle autorità per far fronte al problema sono sempre state molto stringenti: pattuglie di polizia in ogni stazione della metropolitana, body scanner anti esplosivo all’ingresso di ciascuna stazione (almeno a Mosca), controlli preventivi all’ingresso di ciascun obiettivo sensibile come monumenti di interesse, luoghi del potere, aeroporti e stazioni ferroviarie. C’è da dire, tuttavia, che vi sono ancora molte aree “calde” per il terrorismo islamico che supporta l’indipendenza dei territori del Caucaso settentrionale; la fiamma in Daghestan non si è mai spenta e spesso, seppure passano in sordina sui media, si verificano in questi territori attacchi alle popolazioni locali o verso militari russi, non ultimo l’attacco del 24 marzo scorso presso una base militare russa in Cecenia in cui sono morti sei soldati del governo di Mosca, rivendicato da Daesh.
San Pietroburgo, come qualcuno in queste ore ha ricordato, è sempre stata un’oasi felice, immune dal terrorismo. A San Pietroburgo molte di queste misure preventive non esistevano, infatti il clima in città è stato sempre molto meno pesante di quello che si respira a Mosca. Ieri a San Pietroburgo era presente il Presidente Vladimir Putin per un incontro con il suo omologo bielorusso, Aleksandr Lukashenko. L’idea del movente politico dietro l’attentato di ieri è sorretta anche e soprattutto da questa ragione, quasi a voler rivendicare sotto il naso di Putin un attentato, nella sua città natale. L’inutile dietrologia complottista all’incontrario non regge su niente: chi dice che siano stati attacchi perpetrati dai servizi segreti per distogliere l’attenzione mediatica dal problema dell’opposizione interna lo fa senza onestà intellettuale. Come giustamente ricorda il prof. Igor Pellicciari, se c’è qualcuno cui questo attentato nuoce politicamente quello è proprio Putin. I russi tendono a screditare un capo politico che non riesce a garantire sicurezza alla propria comunità, e questa falla nel sistema non fa bene alla posizione del Presidente russo. Ora la palla passa nuovamente nelle mani del governo di Mosca, che dovrà dunque decidere in che maniera rispondere a tale sollecitazione, ma l’idea è che non si impiegheranno degli hashtag o una manciata di gessetti colorati.
Fonte: l'Intellettuale Dissidente
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