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domenica 2 aprile 2017

A Melendugno va in scena il principio della Sicurezza Nazionale o il principio della soppressione del Dissenso a base di Manganello

di ALEXIK

“Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre strumenti volti a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori e di promuovere interventi volti al mantenimento del decoro urbano” …

È particolarmente istruttivo soffermarsi sul testo del Decreto Minniti in materia di ‘Sicurezza delle città’ mentre scorrono in sottofondo le immagini degli espianti degli uliveti di Melendugno, per l’avvio dei cantieri del “Trans Adriatic Pipeline”.




E’ illuminante come alcune centinaia di dipendenti del Ministero dell’Interno si siano fatti interpreti, con la semplicità e l’immediatezza propria della comunicazione non verbale dei manganelli, del contenuto profondo dei concetti enunciati dal Decreto, quali “sicurezza”, “vivibilità dei territori”, “decoro”, “benessere delle comunità territoriali”, e della loro articolazione pratica nell’ambito delle politiche di governo.





Melendugno (LE), 28 marzo 2017.

Le cariche sui sindaci, inoltre, raffigurano plasticamente cosa si intenda per ‘collaborazione interistituzionale per la promozione della sicurezza’, qualora i primi cittadini non vogliano ridurre il proprio ruolo a meri persecutori di mendicanti e poveracci in genere, ma pretendano (temerari!) di rappresentare i bisogni e i desideri della gente che li ha eletti.
Può sorgere il dubbio, invero, che il senso di tali concetti sia stato frainteso, ma io credo che invece i tutori dell’ordine ne abbiano dato una rappresentazione corretta, almeno nell’accezione più cara all’attuale ministro degli Interni (ed anche a tanti suoi predecessori), alla compagine politica che lo esprime ed agli interessi economici che essa rappresenta.

Comunque, il trattamento riservato ai manifestanti di Melendugno da parte della polizia in assetto antisommossa e la messa in stato d’assedio del paesino del leccese non è di per se una novità. Qualcuno ci è già passato prima che toccasse ai salentini.

La sperimentazione valsusina

A 1.200 km a nord ovest, la Val di Susa ha rappresentato, negli anni, un campo di sperimentazione delle strategie di contenimento delle lotte popolari. Un test per l’uso di strumenti repressivi di eccezione, un tempo rivolti contro i militanti di organizzazioni politiche ribelli, e poi estesi nella loro applicazione ad un’intera popolazione civile all’interno di una determinata area.


Strumenti che vanno dalla costante militarizzazione del territorio, all’uso di una particolare violenza contro i dimostranti, ad un eccezionale accanimento giudiziario.
Alla fine del 2015 si contavano circa 1000 imputati e 200 condanne nei procedimenti aperti contro il movimento valsusino, procedimenti che godono di una corsia preferenziale rispetto a quelli istruiti per reati ben più gravi.
Presso la Procura di Torino può infatti accadere che un processo per lo stupro di una bambina si concluda, dopo 20 anni, con la prescrizione, mentre per reati anche bagatellari commessi da militanti No Tav si proceda d’urgenza.
Sono di uso comune nei processi contro i No Tav “la dilatazione del concorso di persone nel reato, l’uso massiccio (e talora indiscriminato) delle misure cautelari, un insieme di forzature (grandi e piccole) in indagini e processi, il ricorso a fattispecie di reato (a dir poco) sovradimensionate con evocazione finanche della finalità di terrorismo, la particolare cura nella gestione dei processi sulla stampa (oltre che negli uffici giudiziari)”1.

La sproporzione fra i criteri di giudizio utilizzati emerge nella sua plateale nudità quando la stessa Procura sostiene l’accusa di terrorismo per i manifestanti colpevoli di aver danneggiato un compressore, mentre archivia sistematicamente le denunce per le gravi lesioni, anche permanenti e fortemente invalidanti, subite dai militanti No Tav nel corso di cariche e fermi2, stabilendo una singolare gerarchia di importanza fra ‘l’incolumità’ delle cose e quella delle persone.
Tutto questo, negli anni, è stato preceduto e accompagnato da un’intensa opera di denigrazione e criminalizzazione mediatica del movimento, finalizzata alla preparazione del terreno e della base di consenso necessaria all’esplicarsi dell’azione repressiva3.

In Val di Susa, in sintesi, si è andato sperimentando quanto il trattamento di una popolazione dissidente potesse avvicinarsi a quello riservato ad una popolazione ‘nemica’.

Non si tratta di un’esagerazione: nel 2011 l’ultimo colpo di coda del morente governo Berlusconi, fu quello di definire – sul modello delle disposizioni già in atto per le discariche napoletane – il cantiere della Lyon Turin Ferroviaire come ‘Area di interesse strategico nazionale’, cioè area ‘ove l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato’.
L’applicazione cioè, di un diritto penale di eccezione a base territoriale, “un modello normativo eccezionale a cominciare dal requisito che legittima tutto il sistema in deroga: la proclamazione dello stato di emergenza, adottata con decreto del Consiglio dei Ministri, al di fuori di qualsiasi controllo parlamentare”.4
Una logica militare a tutti gli effetti scelta, non come si vuol in genere far credere, dai temibili black bloc ma dallo Stato, per contenere l’indisponibilità di intere popolazioni a subire politiche di devastazione ambientale.

Nel 2014, con l’art. 37 del Decreto ’Sblocca Italia’ , il modello viene esteso dal Governo Renzi anche ai cantieri di costruzione del “Trans Adriatic Pipeline”, a cui si attribuisce carattere di priorità nazionale e di interesse strategico … nel senso ovviamente dell’interesse strategico della Snam, della British Petroleum, della azera Socar, della belga Fluxys, della spagnola Enagas, della svizzera Axpo, soci del consorzio T.A.P. (!!!)



Melendugno (LE), in difesa degli ulivi, 28 marzo 2017.

Dunque, l’apparato normativo atto a reprimere i difensori degli ulivi salentini è già stato ampiamente predisposto, e questo ben prima dell’arrivo al dicastero degli Interni di Domenico ‘Marco’ Minniti.
Ma se l’obiettivo è la costruzione e persecuzione del ‘nemico interno’ e la gestione del dissenso con logiche di guerra, il neoministro presenta ottime referenze.

L’uomo giusto al posto giusto.

Figlio di un pilota dell’aeronautica militare e uomo di provata fede atlantica, Marco Minniti, dal governo D’Alema in poi, ha collezionato una lunga serie di incarichi governativi con deleghe ai servizi segreti, alla cooperazione con la Nato, al coordinamento di operazioni durante la guerra dei Balcani, alla promozione dell’industria bellica. Tutte attività a stretto contatto e in perfetta sinergia con ministri della difesa, capi delle forze armate, centri di intelligence, manager delle holding belliche5.
Di lui WikiLeaks ricorda come sia riuscito a rassicurare l’ambasciata USA sulla riconferma dell’acquisto da parte dell’Italia dei caccia F-35 (un pacco e un salasso), dopo l’elezione di Prodi nel 2006.
Ammiragli, generali, ex capi di Stato Maggiore, funzionari dei servizi e della NATO, ex prefetti, ex magistrati, ex comandanti delle teste di cuoio, consiglieri militari, analisti della CIA, hanno fatto parte delle sue frequentazioni nell’ambito della Fondazione ICSA, il centro studi sui temi d’intelligence e dell’analisi militare da lui fondato nel 2009 assieme a Francesco Cossiga.

E chissà se non sia stato proprio Cossiga il suo mentore in tema di ordine pubblico, a cui ispirare i suoi primi atti da neoministro. Atti come lo sgombero del Grande Ghetto di Rignano (FG), conclusosi con due lavoratori maliani – Mamadu Konate e Nouhou Dumbia – bruciati vivi.
Questa la ricostruzione dei fatti da parte di Campagne in lotta, ‘sin dalle prime ore, gli abitanti del Ghetto hanno raccontato la responsabilità delle forze dell’ordine in quell’incendio, considerando le fiamme che hanno distrutto le baracche come una strategia di sgombero.
 Quella accidentale, è la versione su cui invece concordano la stampa e le istituzioni coinvolte’.

Davanti a tanto orrore, passa anche in secondo piano la gestione delirante dell’ordine pubblico di sabato scorso, in occasione del corteo Eurostop, preceduto da fogli di via, da una intensa campagna di terrore sul presunto arrivo del terribile blocco nero, e dall’enunciazione (molto cossighiana) dell’intenzione di infiltrare agenti in borghese fra i dimostranti.
La prima manifestazione nazionale di movimento dell’era Minniti ha dovuto rinunciare a 120 compagne/i (tre pullman) sequestrati per tutto il giorno in un centro di identificazione – alla faccia del diritto costituzionale di manifestare – e sopportare l’accerchiamento di una parte del corteo, prima spezzato dalla polizia in due tronconi, e poi assediato senza via d’uscita nel tentativo di provocarne la reazione.


A tali ‘innovazioni’ nella gestione della piazza, se ne aggiungono altre, proprio oggi, in diretta dal presidio di Melendugno: “Praticamente stiamo cercando di fronteggiare un esercito. Sul posto c’è: polizia, carabinieri, finanza, addirittura i contractor, quelli che pagano per combattere in Iraq, e persino la marina militare“.
Come già succede da tempo nel cantiere TAV di Chiomonte, in tutti le ‘aree di interesse strategico nazionale, ove l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato’ i militari vengono impiegati in funzione di ordine pubblico … ma i paramilitari fino ad ora non li avevamo ancora visti !

Torniamo al Ministro. Il contenuto dei suoi raccapriccianti decreti in materia di Immigrazione e di Sicurezza urbana è stato in parte già analizzato da Antigone sulle pagine di Carmilla, sottolineando l’impatto nefasto che tali provvedimenti avranno sulle esistenze di chi vive faticosamente già ai margini.
Ma i decreti Minniti non colpiscono il povero solamente nell’esercizio del suo diritto al movimento, alla fruizione degli spazi della città e, in definitiva, nella sua capacità di sopravvivenza individuale (esercizio dell’accattonaggio, di piccoli commerci), ma anche nella sua possibilità di reazione ed organizzazione collettiva.




Bologna, picchetto antisfratto, 7 marzo 2017.

Per esempio un capitolo intero del Decreto sulla sicurezza delle città viene destinato all’ampliamento delle prerogative del prefetto di disporre il concorso della forza pubblica nello sgombero di occupazioni ‘arbitrarie’ di immobili.
Chi occupa una casa, chi si organizza per resistere ad uno sfratto dovrà subire d’ora in poi un maggior livello di violenza, e questo non riguarda solo i classici ceti ‘marginali’, ma ampie fasce di ex ceto medio proletarizzato dalla crisi che non riesce più a sostenere mutui o affitti.
Ovviamente, le disposizioni sugli sgomberi valgono anche per gli spazi occupati non abitativi.

Ulteriori disposizioni possono colpire direttamente chi lotta attuando, per esempio blocchi ferroviari o picchetti, in quanto ‘chiunque ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione delle infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze’ può essere soggetto a sanzione pecuniaria e ordine di allontanamento, fino al divieto di accesso per sei mesi dal luogo della lotta.
Ma più in generale, i patti sottoscritti da prefetto e sindaco possono rivolgersi contro fenomeni generici di ‘turbativa del libero utilizzo degli spazi pubblici‘, e in questa definizione può ricadere qualsiasi tipo di protesta.
Dulcis in fundo, un emendamento della Carfagna ha introdotto nel decreto la possibilità dell’arresto in flagranza in differita (entro 48 ore) per reati avvenuti in occasione di manifestazioni pubbliche ripresi da telecamere e in immagini fotografiche, estendendo ai presidi e cortei quanto già previsto per gli stadi.

Che si tratti dunque di gestione militare della piazza, o della creazione di una sorta di ‘diritto amministrativo del nemico’ (il potere di ordinanza dei sindaci contro determinati soggetti sociali) da affiancare a quello penale, l’obiettivo è sempre quello di colpire le figure conflittuali o potenzialmente tali in vista di un aggravamento della crisi.
Prevedono, evidentemente, che essa si evolverà in maniera particolarmente grave, se affinano strumenti così sproporzionati rispetto alla reale entità del conflitto e della capacità di organizzazione di chi si oppone.
Prevedono, evidentemente, che l’estendersi dell’esercito industriale di riserva non si incontrerà mai più con nessuna rivoluzione industriale in grado di assorbirlo, e si attrezzano per rispedirlo altrove.
Prevedono, evidentemente, che il capitale in crisi di valorizzazione, spingerà gradualmente l’espropriazione oltre i limiti posti dal minimo vitale di masse sempre più consistenti di persone (nel suo piccolo, l’esempio salentino significa questo: famiglie di olivicoltori rovinate, nuova carne da emigrazione), e si attrezzano per neutralizzarne la reazione.
Loro si attrezzano. E noi ?

Fonte : Carmilla OnLine

1- Livio Pepino, La Val Susa e il diritto penale del nemico, in ‘Quaderni del Controsservatorio Valsusa n. 1’, Intra Moenia Edizioni, 2014.
2- Sull’argomento si consiglia la visione del documentario ‘Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in Valsusa’. Qui il trailer.
3- Per i dettagli: Xenia Chiaramonte, Alessandro Senaldi, Criminalizzare i movimenti. I No Tav fra etichettamento e resistenza, in ‘Studi sulla questione criminale, X, n. 1, 2015, pp. 105-144.
4- Carlo Ruga Riva, Diritto penale, regioni e territorio. Tecniche funzioni e limiti, Giuffrè, 2012, p. 187.
5- Per il curriculum dettagliato: Antonio Mazzeo, Marco Minniti. Quest’uomo è una sicurezza, 20 gennaio 2017.

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