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martedì 23 febbraio 2016

E' un " Bluff " perenne

di Michele Rallo

A un tavolo di poker – si sa – il bluff è consentito; anzi, è una delle varianti “istituzionali” del gioco stesso. È previsto che un giocatore faccia finta di avere carte migliori di quelle che realmente ha, in modo da spaventare gli altri e indurli ad abbandonare la partita. I bravi giocatori – però – dopo avere soffiato il piatto agli avversari, mantengono coperte le loro carte e le confondono nel mazzo, in modo da non fornire agli avversari indicazioni utili per le partite future.




In politica – invece – il bluff non funziona; o, meglio, può funzionare soltanto a inizio di partita. Perché? Perché il simulatore non può mantenere coperte le proprie carte, e il suo sistema di gioco – a più o meno breve scadenza – è destinato ad essere scoperto.


Prendete Renzi, per esempio. Ha bluffato fin dal primo momento, prima ancora della sua nomina a Presidente del Consiglio (ricordate “Enrico stai sereno”?) ed ha continuato poi imperterrito, ostentando la sicurezza di chi ha in mano un poker servito. In realtà, in mano aveva soltanto una doppia coppia: due fanti (potrebbero essere Padoan e Delrio) e due regine (forse la Boschi e la Madia). Un po’ poco per sedersi attorno a un tavolo con giocatori di prim’ordine e qualche abilissimo baro.

Eppure, il Pifferaio dell’Arno non ha fatto una piega, ed ha continuato a bluffare anche quando è stato costretto a mostrare al tavolo il suo gioco scarso a sgangherato. Voglia di perdere, di farsi spennare dagli altri giocatori? No. Il gioco renziano ha una sua logica, una sua cervellotica ed illogicissima logica. Non mira ad un miglioramento della situazione economica, ma soltanto a dare l’impressione di un miglioramento.

Tutte le sue iniziative, dalle prime alle ultime, sono state concepite in funzione delle loro ricadute propagandistiche. Gli 80 euro mensili di sconto fiscale riconosciuti ad una larga platea (e negati ad altri) sono stati studiati non soltanto per far dire al popolino che Renzi aveva fatto un bel regalo a tanti, ma soprattutto nella speranza che i denari in questione venissero spesi nei negozi, in modo da poter disporre di statistiche che attestassero una ripresa dei consumi. Poco importava che il cospicuo mancato introito fiscale venisse a fiaccare i conti pubblici. Si sarebbe posto rimedio con la “flessibilità”, cioè con un semplice rinviodelle scadenze contabili; e pazienza se, a breve termine, gli “impegni con l’Europa” avrebbero dovuto essere comunque mantenuti.

Idem per quanto riguarda il Jobs Act, con i suoi fortissimi incentivi (ma solo per i primi tre anni) alle imprese private che assumessero personale a tempo indeterminato. Anche questo era un provvedimento disastroso per i conti pubblici; e, naturalmente, si passava sotto silenzio il fatto che il Jobs Act cancellasse del tutto il concetto di impiego a tempo indeterminato, rendendo possibili i licenziamenti (pure quelli ingiusti o immotivati) prima che per i neo-assunti potesse maturare anche soltanto il primo stadio di fantomatiche “tutele crescenti”. Pure in questo caso, comunque, il bluff aveva un obiettivo preciso: invogliare gli imprenditori ad assumere a tempo indeterminato, salvo poi a licenziare successivamente; non prima, però, di aver fornito al governo le statistiche atte a dimostrare un aumento (bugiardo) dei posti di lavoro. Anche i tre anni di sconti per le assunzioni, naturalmente, dovevano andare in conto flessibilità, nella speranza che gli italiani non si rendessero conto che “flessibilità” non significa affatto “cancellazione”.

E così via cantando. Sempre all’insegna delle “riforme”. Perché le riforme – recita ancor oggi il Vispo Tereso, disciplinatamente supportato dai media conservator-progressisti – sono indispensabili per attrarre gli investimenti esteri. E perché gli investitori e i “mercati” – mi permetto di aggiungere – sono naturalmente portati ad andare là dove il lavoro costa meno, là dove i lavoratori si possono buttare sulla strada dall’oggi al domani, magari con il disturbo di una piccola mancia per salvare la faccia ai promotori di un qualsiasi Jobs Act. Poco importa. L’importante è che qualcuno venga ad aprire qualche filiale in Italia, come la si aprirebbe a Tunisi o a Shanghai; pagando i dipendenti come li si pagherebbe a Tunisi o a Shanghai. E l’importante, soprattutto, è che questo ambaradan porti alla creazione di qualche simil-posto di lavoro, anche “a tempo”; ma tale, comunque, da poter figurare in qualche statistica “a fisarmonica”, buona per una conferenza-stampa in maniche di camicia.

Ma la strategia renziana non si ferma qui. Un altro dei suoi pilastri è il gabellare ogni eventuale riverbero positivo della congiuntura internazionale come un benèfico effetto della propria azione di governo. Esempio-tipo: il fortissimo calo dei prezzi del petrolio, che – come universalmente riconosciuto – ha avuto un peso determinante nel miglioramento dei conti pubblici di tutti i Paesi europei.

In ultimo, un pizzico di arroganza ostentata contro quanti, nell’Unione Europea, non si rendono conto che il Parolaio della Tuscia ha un disperato bisogno di “flessibilità”, per parare i contraccolpi della sua spensierata gestione e scaricarli sui governi prossimi venturi. Ma nulla di allarmante, beninteso; perché, ad uno schioccar di dita della Cancelliera, il nostro è pronto a rientrare disciplinatamente nei ranghi e a promettere di fare il bravo suddito europeo (e atlantico).

Per il momento, si accontenta di fare la ruota in tv, ripetendo fino all’ossessione che la situazione comincia a migliorare, che si colgono già i primi benèfici effetti del Jobs Act e delle altre illuminate “riforme”, che siamo finalmente al cospetto di una “ripartenza” dell’economia italiana. Finora gli è andata bene: la grande stampa vicina ai “mercati” e le televisioni berlusconiane hanno fatto finta di credergli, riversando il loro ottimismo sui creduli lettori e telespettatori.

Ma il tempo passa, e la gente incomincia a chiedersi dove caspita sia questa benedetta “ripartenza”. Mi viene in mente la quartina dell’Araba Fenice: “Che ci sia, ognun lo dice. Dove sia, nessun lo sa”.



Fonte: Il Discrimine