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domenica 17 gennaio 2016

Jobs Act, disoccupazione giovanile e repressione del conflitto (Furti in abitazione aumentano del 40%).

Il Jobs Act non ha contribuito alla crescita dell’occupazione in Italia, in particolare dell’occupazione giovanile. Aumentano, per contro, i tassi di inattività e il lavoro improduttivo di sorveglianza e repressione del conflitto, e aumenta conseguentemente la spesa pubblica per farvi fronte.

di Guglielmo Forges Davanzati

Nella migliore delle ipotesi, ovvero volendo attribuire interamente al Jobs Act la creazione di nuovi posti di lavoro, si può stimare che, con riforma realizzata, l’occupazione è aumentata di circa 83.000 unità, nel periodo compreso fra gennaio e ottobre 2015.






Ma occorre considerare che, nello stesso periodo del 2014, il numero di nuove assunzioni si è assestato a 174.000 unità, ovvero più del doppio. In più, su fonte ISTAT, per l'Istat tra il secondo e il terzo trimestre 2015 i disoccupati scoraggiati sono aumentati di 300.000 unità.
Si registra anche un aumento del numero di lavoratori indipendenti: un dato che si presta a interpretazioni non univoche, dal momento che è verosimile che si tratti di giovani con occupazione discontinua, con partita IVA, in una condizione di lavoro subordinato, per così dire, nascosto. In più, su fonte Eurostat, si rileva che è ancora in aumento la disoccupazione intellettuale: solo un laureato su due trova lavoro nel nostro Paese, mentre siamo fanalino di coda per l’occupazione dei diplomati (30,5% a fronte di una media UE del 59,8%). Le statistiche sui laureati sono ancora più imbarazzanti perché risultiamo il Paese con meno laureati fra i 30 e i 34 anni, con una percentuale del 23,9% contro la media europea del 37.9%. A ciò si aggiunge il fatto che non aumenta l’occupazione giovanile, in un contesto, quello europeo, caratterizzato – per contro – da una significativa riduzione dei tassi di disoccupazione, come certificato da Eurostat.

Ciò non significa che il Jobs Act ha contribuito a ridurre l’occupazione: significa che la nuova legislazione del mercato del lavoro ha scarsissima influenza nel determinare gli andamenti dell’occupazione e che, dunque, questi sono influenzati in misura rilevante da fattori diversi rispetto a quelli che (de)regolamentano le assunzioni. Si osservi che la propaganda governativa mira a evidenziare la crescita delle assunzioni con contratti a tempo determinato: si tratta appunto di propaganda, nel senso che il Jobs Act si traduce in sgravi fiscali per assunzioni con contratti a tutele crescenti per anzianità di servizio (in sostanza, diventa sempre più difficile essere licenziati all’aumentare degli anni di servizio in azienda); cosa ben diversa dal tradizionale contratto propriamente a tempo indeterminato[1].

E’ molto plausibile che la mancata crescita dell’occupazione sia stata significativamente influenzata dall’andamento della domanda aggregata[2] e, in particolare, da due fattori.

1) In primo luogo, va evidenziato che la dinamica degli investimenti privati continua a essere di segno negativo rispetto agli scorsi anni. In più, le esportazioni nette, nel corso dell’ultimi anno, non hanno contribuito a far crescere la domanda, anzi. Su fonte ISTAT, si registra, per il 2015, una contrazione del saldo commerciale dai 5.3 miliardi dell’ottobre 2014 a circa 4.8 miliardi dell’ottobre 2015. Ciò è accaduto fondamentalmente a ragione del pur modesto aumento del tasso di crescita, che si è immediatamente tradotto in un rilevante aumento delle importazioni. La pressoché totale dipendenza del nostro settore produttivo dall’acquisto dall’estero di prodotti energetici, di beni strumentali e di prodotti intermedi ha prodotto una crescita delle importazioni nell’ordine del 5% (http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/il-deficient-spending-della-renzinomics/).

2) In secondo luogo, è continuato, nel periodo considerato, l’aumento dei risparmi per motivi precauzionali. Si tratta di un fenomeno tipicamente associato a un aumento dell’incertezza, che, nel contesto attuale, è in larga misura dipendente dal continuo aumento della disoccupazione giovanile e dei tassi di inattività, nella sostanziale assenza di ammortizzatori sociali. In altri termini, le famiglie italiane hanno reagito e reagiscono alla bassissima probabilità per i loro figli di trovare occupazione trasferendo loro reddito, ovvero sostituendosi allo Stato nell’erogazione di sussidi; il che, sul piano macroeconomico, si traduce in riduzione della domanda e conseguente riduzione dell’occupazione.

In questo scenario, i trasferimenti monetari alle famiglie (p.e. la manovra dei 500 euro) hanno scarsa efficacia, così come rischia di essere scarsamente efficace una manovra “espansiva” – come vuole essere quella contenuta nella Legge di Stabilità 2015 – che non agisca sui fattori strutturali che frenano la crescita dell’economia italiana: fra questi, in primo luogo, le piccole dimensioni aziendali e la bassa propensione a innovare. I trasferimenti monetari, infatti, in una condizione di elevata incertezza e di elevata pressione fiscale, si traducono (come si è verificato con la manovra dei 500 euro per gli incapienti) in aumenti di risparmi con effetti pressoché nulli sui consumi e la domanda interna. Ciò anche a ragione della drammatica compressione dei servizi di Welfare. La riduzione dei fondi alla Sanità e all’Istruzione (combinata con la loro progressiva privatizzazione), in un contesto di crescente invecchiamento della popolazione, spinge le famiglie a ridurre i consumi di beni e a destinare risorse crescenti a servizi di cura e alla scolarizzazione. Incidentalmente, si può osservare che la compressione dei servizi di Welfare ha contribuito e contribuisce alla continua riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro, per l’ovvia considerazione per la quale una popolazione poco istruita e con difficile accesso alle cure mediche è poco produttiva.

Vi è di più. La bassa probabilità di trovare impiego tende a generare due effetti. In primo luogo, e per quanto attiene a individui che possono sopravvivere attingendo ai risparmi accumulati, vi sono effetti di scoraggiamento e bassa intensità della ricerca di lavoro. In secondo luogo, e per quanto riguarda individui che non hanno redditi non da lavoro, l’inattività tende a trasformarsi in comportamenti anti-sociali, producendo un aumento delle attività criminali, come messo in evidenza da un recente rapporto di Bankitalia[3] Si può considerare, a riguardo, che il numero di detenuti è in continuo aumento, così come lo è la spesa pubblica per attività di repressione del conflitto[4]. E’ bene chiarire che si tratta di un fenomeno non solo italiano e che è significativamente correlato con l’aumento delle diseguaglianze distributive, come mostrato in Fig.1. Si può anche rilevare che le attività criminali sono di norma maggiori in presenza di elevata disoccupazione giovanile, secondo un effetto noto come age-crime curve per il quale gli individui nella fascia d’età superiore ai quaranta tendono a delinquere meno[5].




Figura 1: diseguaglianze distributive e detenzioni carcerarie nei Paesi OCSE

Se anche si ammette che la riduzione della conflittualità generi effetti macroeconomici positivi (ad esempio, perché incentiva gli investimenti), la conflittualità non espressa nelle relazioni industriali si manifesta altrove, con danni anche economici niente affatto trascurabili. Ci si riferisce all’alternativa fra exit e voice, ovvero fra ‘uscita’ e protesta[6], ovvero all’aumento rilevante delle forme di conflittualità non istituzionalizzate. Ci si riferisce, in altri termini, all’aumento della criminalità imputabile alla povertà crescente e alla crescente disuguaglianza della distribuzione dei redditi. Il problema è stato a lungo studiato negli Stati Uniti e lì le indagini più recenti segnalano un incremento estremamente rilevante del numero di crimini e di sovraffollamento delle carceri. Prima della crisi, si calcola che circa 1/5 della forza-lavoro statunitense è stata impegnata in attività di repressione e sorveglianza. Lo ‘Stato prigione’ (Garrison State) è la definizione data a questo modello di sviluppo. Un’economia nella quale il settore improduttivo è a tal punto esteso è un’economia che sostiene costi diretti e indiretti rilevanti: i detenuti – e coloro che li sorvegliano –non contribuiscono alla crescita economica, il loro controllo grava sul bilancio pubblico, la diffusa presenza di attività criminali disincentiva gli investimenti, riducendo, anche per questa via, il tasso di crescita.

Con riferimento al caso europeo e italiano, su fonte EUROSTAT si attesta che negli ultimi anni sono aumentati i reati contro il patrimonio. I reati da cui si può ricavare un guadagno economico (furti, rapine, truffe, estorsioni, spaccio di sostanze stupefacenti, usura, ricettazione) sono aumentati a partire dal 2010, mentre sono diminuiti i reati non economici. I furti in abitazione hanno registrato nel 2012 un aumento del 40% rispetto al 2010. Crescono anche le truffe informatiche e le rapine in abitazione (del 22,1% tra il 2011 e il 2012 e del 65,8% dal 2010), le rapine in strada (del 25,7% dal 2010) e quelle effettuate negli esercizi commerciali (+20,7% dal 2010), mentre il trend è ancora in diminuzione per le rapine in banca (5%). I dati mostrano che l’aumento delle diseguaglianze ha generato aumenti significativi su alcune tipologie specifiche di attività illecite, in primis i reati che non richiedono particolari abilità criminali, come i furti[7].

L’irrazionalità delle misure messe in atto risulta in tal senso palese: da un lato, il Governo rinuncia ad accrescere la spesa pubblica per aumentare l’occupazione, dall’altro è costretto a farlo perché l’aumento dei tassi di disoccupazione mina la coesione sociale e rende necessario accrescere i costi di sorveglianza e repressione del conflitto, ampliando l’”apparato disciplinare” (il c.d. guard labor)[8] e contribuendo, anche per questa ragione, a frenare la crescita.

NOTE

[1] V. http://sbilanciamoci.info/6610-2/

[2]Si veda, fra gli altri, http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/lavoro-e-sindacato/quota-salari-e-investimenti-alcuni-effetti-delle-riforme-del-lavoro/

[3] De Blasio, G. e Menon, C. (2013). L’impatto della crisi sulle attività criminali, Banca d’Italia, working paper n. 952.

[4]Si tratta di spese per vitto, alloggio ed eventuale trasporto detenuti, spese per le forze dell’ordine deputate alla custodia (polizia penitenziaria), spese per il personale dell’area socio-psico-pedagogica e per i dirigenti, oltre ad altri costi connessi ai progetti educativi e di inserimento lavorativo.

[5] Cfr. Farringotn, D.P. (1986). Age and crime. Chicago: University of Chicago Press

[6] Ci si riferisce a Hirschman, A.O. (1970). Exit, voice, and loyalty. Harvard University Press.

[7] V. http://www.censis.it/7?shadow_comunicato_stampa=121004

[8] V. Bowles, S. and Jayadev A. (2005). Guard labor, “Journal of Development Economics”: 328-348.; Bowles, S.. and Jayadev, A. (2007). Garrison America, “Economists’ voice”, March: 1-7.

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