Il welfare aziendale è una tappa ulteriore nello smantellamento dello stato sociale. Non solo, è anche un attacco al tuo salario. Lentamente, ma inesorabilmente, le quote di welfare aziendale saranno considerate sostitutive degli aumenti salariali. Invece di soldi, riceverai fondi in “benefits”. Non solo si torna al pagamento in natura degli anni ’50, ma vieni legato a doppio filo all’azienda: se perdi il lavoro, perdi quote di servizi e assistenza.
Il welfare aziendale è un vero e proprio mercato dove operano grandi aziende, assicurazioni, una serie di soggetti che riescono a guadagnare da servizi come sanità, scuola, assistenza agli anziani.
Com’è possibile che forme di stato sociale diventino improvvisamente così profittevoli? La risposta è semplice. Se c’è qualcuno che riesce a lucrare su queste voci, c’è qualcuno che ci perde. Questo qualcuno sei tu.
La legge di stabilità 2016 del Governo Renzi ha dato ulteriore spinta a questo sistema: “la Legge ha potenziato le agevolazioni fiscali per le aziende che concedono servizi (…); permette l’erogazione di premi di risultato in forma di servizi e welfare (..). Le aziende inoltre hanno compreso che il welfare sussidiario (…) è fonte di numerose opportunità (…) contiene i costi (…) fidelizza i dipendenti” (Il Sole 24 Ore 26 ottobre 2016).
Poco importa che oggi il welfare venga contrattato con sindacati o Rsu e Rsa. A lungo andare questo sistema mina la sindacalizzazione stessa. Il lavoratore può accedere a forme di welfare solo in un rapporto di collaborazione con l’azienda e tale collaborazione presuppone l’abbandono di ogni forma di conflittualità. In ultima analisi prevede l’abbandono del sindacato come strumento di organizzazione delle rivendicazioni dei lavoratori a favore di un rapporto corporativo con il proprio datore di lavoro.
1.Cos’è il welfare aziendale?
Per welfare aziendale si intende tutto quel pacchetto di servizi e agevolazioni che un’azienda offre ai propri dipendenti teoricamente “in aggiunta” o a volte in sostituzione del pagamento monetario di stipendio o premi di produzione. Si tratta di misure come la copertura sanitaria o le spese d’istruzione, che negli ultimi anni hanno vissuto una vera e propria espansione, sia nel settore pubblico ma in special modo in quello privato. Non solo, il welfare aziendale si è già evoluto abbracciando nuovi settori di impiego, come shopping, cultura e benessere, trasformandosi in un vero e proprio investimento delle aziende nella fidelizzazione del dipendente.
2.Come si è evoluto?
Siamo passati dal buono pasto per la pausa pranzo, al buono spesa per il supermercato, fino ad arrivare al voucher per pagare rette scolastiche, libri di testo o servizi di baby sitting. Nelle aziende dove il welfare aziendale è una realtà consolidata, vengono istituiti nidi aziendali, campus estivi per i figli dei dipendenti e figure come il maggiordomo, che svolge commissioni in posta o lavanderia al posto dell’interessato. L’ultima novità del settore è il flexible benefit, un pacchetto retributivo “in natura” nel quale ogni singolo lavoratore può scegliere l’agevolazione che più gli è congeniale fino al raggiungimento del plafond stabilito.
3.Quali sono i settori in cui è più sviluppato?
Nell’ambito sanitario, il welfare aziendale ha addirittura superato se stesso diventando un vero e proprio obbligo: le convenzioni con cliniche e ambulatori privati ad opera della singola impresa sono state scavalcate in favore di una gestione nazionale da parte degli enti bilaterali, composti pariteticamente da associazioni padronali e sindacati confederali. In questo modo il welfare aziendale ha guadagnato un posto fisso nella contrattazione collettiva, come nel caso della copertura sanitaria Fondo Est/Unisalute, pagato dai dipendenti del settore del Commercio direttamente in busta paga. Ad integrazione dei fondi di categoria, poi, esistono anche coperture assicurative che vanno a colmare le prestazioni non rimborsate: un vero e proprio business costruito sulla malattia.
4.Il welfare aziendale è un’opportunità per i lavoratori?
Ad una prima occhiata sembrerebbe così. Le cose stanno diversamente: se analizziamo da dove provengono i fondi che defiscalizzano il welfare aziendale e ne immaginiamo le conseguenze, capiamo che non è tutto oro quel che luccica. La scorsa finanziaria del governo Renzi, infatti, ha eliminato tutte le tasse previste sui fondi destinati a questo tipo di benefit, rinunciando ad un notevole introito fiscale. Stiamo parlando di un risparmio che per il dipendente si aggira intorno al 10%, ma per il datore di lavoro oltrepassa il 40%.
5.Quindi ci guadagnano tutti?
E’ vero che il lavoratore risparmia il 10% di trattenute se decide di destinare il proprio premio al welfare aziendale, ma si tratta solo di una partita di giro. Lo Stato, avendo meno entrate fiscali, a sua volta destinerà meno fondi a sanità, istruzione e pensioni pubbliche, perché integrate privatamente dai dipendenti che hanno accesso al welfare aziendale. Nei fatti è un falso regalo: invece di destinare i nostri soldi alla fiscalità generale ci stanno incentivando a indirizzarli verso strutture private per poter smantellare lo stato sociale pubblico. In realtà stiamo pagando due volte per lo stesso servizio. Il welfare aziendale è funzionale al disfacimento dei servizi pubblici fondamentali, un apripista alla loro privatizzazione mascherata da riforma progressista.
6.Chi ci guadagna realmente?
A spartirsi la torta del welfare aziendale sono in tanti. Innanzitutto lo Stato, che rinunciando ad una parte degli introiti fiscali può giustificare la riduzione dello stato sociale. In secondo luogo ci sono le aziende che vendono reti welfare, società in espansione che vivono dei fondi regalati dallo Stato alle imprese. A fianco di queste aziende ci sono anche fondi pensionistici integrativi, casse assicurative, scuole private: tutte realtà che come parassiti si nutrono sulla distruzione dello stato sociale, accaparrandosi parte delle nostre trattenute.
7.In cosa consiste la fidelizzazione?
Studi recenti mostrano come le aziende dove il welfare è più sviluppato presentano tassi inferiori di assenteismo, maggiore produttività e una combattività inferiore. Non è che nelle aziende dove c’è il welfare aziendale non ci si ammala, ma è che si viene portati verso il “presenzialismo”. L’azienda le pensa tutte pur di farti lavorare di più, quindi se tuo figlio sta male ti paga la baby sitter, se devi ritirare una raccomandata manda il maggiordomo, se vuoi lamentarti ci pensi due volte perché il datore di lavoro è lo stesso soggetto che ti consente di avere questi servizi. Il prezzo che paghiamo non sono solo le tasse, ma è il nostro tempo, un pezzo in più della nostra vita che trascorreremo al lavoro.
8.Quali sono i rischi a breve termine?
A breve assisteremo ad una pressione da parte delle aziende per tramutare quote sempre maggiori dello stipendio in fondi destinati al welfare aziendale. Non solo: gli aumenti contrattuali verranno vincolati sempre di più all’accesso al welfare aziendale. Se non accedi ai fondi integrativi, perdi anche gli aumenti contrattuali. Fiat (Fca) sta già spianando la strada. Si tratta di un risparmio notevole per le aziende, perché di fatto abbassano gli stipendi integrandoli con benefit pagati dagli stessi lavoratori con la fiscalità generale. Alla pressione delle imprese si somma anche quella del sindacato, che gestendo quote di welfare attraverso gli enti bilaterali, possiede veri e propri interessi economici nella sua diffusione. Non è un caso che il welfare aziendale sia ormai il protagonista di molti rinnovi contrattuali.
9.Quali sono i rischi nel lungo periodo?
Con l’espansione del welfare aziendale, il nostro modello sociale somiglierà sempre di più a quello degli Usa. Senza copertura assicurativa non potremo accedere alle cure sanitarie, senza pensione integrativa non avremo redditi durante la vecchiaia. Tutto questo ci sarà consentito solo se avremo un posto di lavoro, quindi faremo di tutto per non essere licenziati: orari e turni massacranti per uno stipendio ridotto, perché l’esclusione dal ciclo produttivo diventerà l’esclusione da ogni tipo di assistenza.Il welfare aziendale può sostituire lo stato sociale? Può sostituire ad esempio la sanità pubblica?
Per quanto si possa estendere il welfare aziendale, questo non riguarderà mai la totalità dei lavoratori in misura eguale.
Le aziende e gli istituti privati che si sostituiscono al welfare non hanno alcuna intenzione di soddisfare “un diritto”, hanno semplicemente intenzione di guadagnarci. Appena una voce risulterà in perdita verrà scansata dal welfare aziendale, facendola ricadere sulla spesa pubblica. Il risultato? Pagherai la sanità integrativa, ma dovrai comunque pagarti le prestazioni sanitarie più onerose, preparando uno scenario da incubo per milioni di persone che scopriranno di non poter accedere alle cure mediche.
10.Qual è l’effetto sui sindacati?
Il modo migliore per contrastare enti bilaterali e welfare aziendale è lottare per aumenti salariali e per uno stato sociale universale. Questa lotta spetterebbe a un sindacato degno di questo nome, ma come può avvenire se lo stesso sindacato inizia a trarre convenienza dalla bilateralità? Non abbiamo cifre chiare a riguardo, ma quelle poche che ci sono dimostrano come gli enti bilaterali e la cogestione del welfare aziendale costituiscano una fetta importante dei bilanci sindacali.
Nel 2013 è uscito un rapporto su previdenza integrativa e Enti Biliaterali: già allora si contavano 536 fondi previdenziali con un giro di 104 miliardi di Euro (6% del Pil) e 260 fondi di sanità integrativa. Si tratti di fondi “aperti” o di categoria, si parla comunque di enti privati, difficilmente controllabili. Sempre nel 2013, 10mila persone risultavano impiegate da questo settore. Tra questi molti sono sindacalisti o ex sindacalisti. Il sindacato incassa i gettoni di presenza per la partecipazione ai Consigli D’Amministrazione o di Gestione. Grossa parte dei contributi versati dagli stessi lavoratori finisce proprio nelle spese di gestione.
Guardando i dati del 2013, si nota che le spese per l’erogazione dei servizi difficilmente superano il 50% del bilancio di un fondo. Il resto sono costi gestionali. Fonchim (Fondo previdenziale dei Chimici) ha destinato nel 2013 588mila Euro annui agli organi statutari e 1,2 milioni di Euro ai costi di gestione. Il Fondo Cometa ha speso per i suoi “organi” 250mila Euro annui più 1,1 milioni per il personale. La defiscalizzazione del welfare aziendale, quindi, contribuisce anche al “mantenimento” dei sindacati e non solo delle aziende.
Che fare quindi?
Se ti stai domandando se destinare il tuo premio di produttività al welfare aziendale o riceverlo in busta paga, ti avvisiamo che in entrambi i casi a pagare sarai sempre tu. Dal nostro punto di vista boicottare il sistema partendo dall’ultimo anello della catena, ovvero la somma percepita dal dipendente, non servirà a far retrocedere il governo sulla privatizzazione dello stato sociale. Gli strumenti che dobbiamo mettere in campo sono ben altri.
Il punto è comprendere che questa impostazione va contestata in tutti i rinnovi contrattuali e fare pressioni sul nostro sindacato perché il welfare aziendale non venga fatto passare come una misura progressista, perché così non è.
Non possiamo accettare la logica del baratto dei nostri aumenti salariali in cambio di fondi da destinare al welfare, così come non vogliamo rinunciare a ore di ROL o Ferie in cambio di servizi che riducano l’assenteismo, soprattutto se questi riguardano il tempo libero che impieghiamo con la nostra famiglia.
Va preteso che le organizzazioni dei lavoratori tornino a lottare per uno stato sociale universale, a cui possano accedere tutti, lavoratori e disoccupati, pensionati e studenti. Uno stato sociale che garantisca a tutti servizi fondamentali di qualità e in larga quantità, a partire dall’offerta sanitaria e da quella scolastica, basato su tasse dirette fortemente progressive dove chi meno ha, meno paga.
fonte: Stop Euro
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