di Marco Mori
L’Italicum, la nota riforma della legge elettorale, e la riforma costituzionale in corso costituiscono, nel complesso, un colpo di Stato. L’equilibrio tra poteri fondamentali è definitivamente accantonato in favore di un esecutivo forte, anzi fortissimo. Una volta tanto, più che specificare le mie idee, voglio farvi leggere direttamente le parole dei Padri Costituenti, con una carrellata di verbalizzazioni che davvero non vi potranno lasciare indifferenti. In esse si evince il totale sfavore verso un Governo che entrasse a piedi uniti nell’attività legislativa che, anzi, veniva, come sappiamo, vietata.
L’On. Tupini rappresentava egregiamente il pensiero fatto proprio dalla Costituente sul ruolo del Parlamento:
“Punto centrale e fulcro di tutto l’ordinamento è il Parlamento. Noi auspichiamo che il Parlamento possa, in avvenire, rappresentare per il nostro popolo come il palladio delle sue libertà e l’istituto senza del quale la democrazia è nome vano e artificioso. Anche il regime fascista parlava di democrazia ma il Parlamento era ridotto a una smorfia ed a una contraffazione di se stesso.
Anche l’On. Meuccio Ruini, nella sua relazione al progetto di Costituzione, rimarcava:
“La sovranità del popolo si esplica, mediante il voto, nell’elezione del Parlamento e nel referendum(n.d.s. – il fatto che non votiamo secondo legalità costituzionale da dieci anni, secondo alcuni, è un fatto trascurabile). E poiché anche il referendum si inserisce nell’attività legislativa del Parlamento, il fulcro concreto dell’organizzazione costituzionale è qui, nel Parlamento; che non è sovrano di per se stesso; ma è l’organo di più immediata derivazione dal popolo (n.d.s. chissà cosa penserebbe Ruini di un Parlamento composto in violazione della sovranità popolare che, invece di rinunciare al suo potere, decide di modificare la Costituzione secondo le richieste del Governo, creando un esecutivo dominante); e come tale riassume in sé la funzione di fare le leggi e di determinare e dirigere la formazione e l’attività del governo”.
I padri costituenti concepirono un preciso equilibrio tra i tre fondamentali poteri al fine di impedire che in futuro, la nostra neonata Repubblica, potesse ancora essere preda di totalitarismi, come tragicamente avvenuto con il fascismo. Se ogni potere controlla e limita l’altro, ferma la preminenza della sovranità popolare, il sistema avrebbe potuto e dovuto rimanere in perfetto equilibrio così preservando la democrazia. I tre poteri di cui parlo sono, come ampiamente noto, quello esecutivo, quello legislativo e quello giudiziario. L’Italia arriva da un periodo in cui la democrazia è stata sospesa. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8878/14, una pronuncia davvero senza precedenti per la nostra Repubblica, passata peraltro in sostanziale sordina, ha certificato apertamente la grave alterazione dei principi di rappresentanza democratica avvenuto negli anni di vigenza della legge elettorale che ha preceduto l’italicum, il porcellum. Testualmente dalle motivazioni della sentenza si evince:
“i cittadini elettori non hanno potuto esercitare il diritto di voto personale, eguale, libero e diretto, per la oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica”.
Mentre questo Parlamento illegittimo lavora per cedere ogni funzione all’esecutivo in pochi rammentano che, ai sensi dell’art. 77 Cost., fatti salvi i casi in cui il Governo riceva espressa delega dal Parlamento, l’attività legislativa da parte del Governo è vietata:
“Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano forza di legge”.
L’attività legislativa del Governo è possibile, secondo la Costituzione, solo in presenza di straordinari casi di necessità ed urgenza, dunque è un’attività, per definizione, limitata ed eccezionale, e non certamente il metodo ordinario per condurre un Paese.
Durante il dibattito costituente si sono confrontate posizioni completamente contrarie alla decretazione d’urgenza e posizioni che aprivano alla stessa, ma solo in casi straordinari. Dunque era unanimemente condivisa la divisione tra potere esecutivo e legislativo. Alla fine prevalse la tesi che consentiva, in particolari e limitatissimi casi, anche al governo di legiferare, ma nessuno si sognava di creare un esecutivo forte, nessuno pensava ad un esecutivo che un domani pensasse addirittura di scrivere la Costituzione abolendo il Senato. La memoria storica del fascismo era viva e fungeva da monito, monito che oggi è purtroppo andato perduto al punto che nessuno si accorge che “Renzussolini” ha compiuto un’illecita svolta autoritaria. Il paragone con il “Duce” riguarda unicamente le riforme in atto, visto che è evidente che Renzi le attua per distruggere il Paese asservendolo alla finanza, mentre Mussolini, a prescindere dagli errori commessi, voleva un Italia forte.
L’On. Zuccarini durante la sottocommissione, e dunque già il 20 settembre 1946, affermava:
“(Zuccarini) è contrario alla creazione di una Giunta permanente, cui sarebbero affidati dei compiti che devono invece essere assolti esclusivamente dall’Assemblea. Oggi ci si è abituati all’idea che il Governo fa le leggi, le approva e le rende esecutive; ma tutto questo non deve più verificarsi in avvenire; non deve esserci una legge che non sia approvata dalla Camera. Il potere esecutivo deve essere il mandatario del potere legislativo. Pertanto, quell’abitudine non può trovare riconoscimento, sia pur limitato, nella Costituzione, perché ciò farebbe rinunciare la Camera alla sua funzione essenziale”.
Sempre nella medesima seduta meritano lettura anche gli interventi degli Onorevoli Mortati e Bozzi che si apprezzano appieno nelle verbalizzazioni:
“Mortati, osserva che l’articolo, come è formulato, conduce necessariamente all’esame del principio della ammissibilità della decretazione di urgenza. Quanto al merito si associa all’onorevole Zuccarini. Che il Governo sia costretto in casi eccezionali e straordinarissimi a prendere un provvedimento all’infuori delle Camere, è una eventualità ammissibile e il quesito che si deve porre è se sia il caso di legalizzare questa eventualità (omissis…) Rileva che di tutti i decreti-legge che la storia parlamentare ricorda, solo una percentuale minima è giustificata dall’urgenza; in tutti gli altri casi questa è un pretesto che il Governo, e per esso la burocrazia, usa per decretare a sua volontà. Contro questo cattivo uso del potere esecutivo bisogna reagire, vietando al Governo l’emissione autonoma di qualsiasi procedimento di urgenza”.
“Bozzi esprime il parere che, in linea di massima, dovrebbe essere vietata al Governo questa facoltà, che è stata una delle piaghe del nostro Paese e che in periodo di Camera aperta è assolutamente inammissibile”.
Anche l’On. Einaudi, con particolare rilievo al ramo fiscale, fu chiarissimo:
“che non da oggi soltanto egli è per il divieto assoluto della decretazione d’urgenza e, senza alcuna eccezione, neanche per i decreti-catenaccio, dei quali nega qualunque giustificazione. Se nel campo fiscale-tributario si temono possibili inconvenienti, spetterà all’amministrazione di ricorrere agli opportuni accorgimenti per evitarli”.
Ed ancora l’On. Tosato:
“Tosato è anch’egli contrario alla decretazione d’urgenza per ragioni teoriche generali e per ragioni di carattere particolare. Ricorda che è nella teoria controverso se l’istituto dell’urgenza sia fonte di diritto: alcuni lonegano in ogni caso, altri quando manchi il riconoscimento del carattere di urgenza nel provvedimento. Anche se la facoltà della decretazione di urgenza viene limitata, la questione non è risolta; onde crede più opportuno o andare incontro alla pratica invalsa, o stabilire esplicitamente che l’istituto della decretazione di urgenza è escluso”.
Il 12 novembre 1946, sempre durante le sedute della sottocommissione, si apprezzano ulteriori eleganti dissertazioni:
“La Rocca dichiara di essere personalmente contrario a qualsiasi forma di delega del potere legislativo al Governo, e ciò in conformità al principio ormai sancito in tutte le costituzioni, da quella di Weimar a quella recente della Francia, per non parlare di altre, come la russa e la jugoslava. Il potere legislativo non può essere esercitato che dal Parlamento. Aggiunge che, con la delega della potestà legislativa al Governo, si può correre il rischio di far sorgere in un modo od in un altro il deprecato inconveniente dell’emanazione dei decreti-leggi, cosa che assolutamente è da evitare”.
La situazione non muta affatto passando alla lettura dei verbali delle sedute dell’Assemblea Costituente vera e propria. Iniziando dal 4 marzo 1947 possiamo partire da uno dei più brillanti giuristi del tempo, ovviamente parlo dell’On. Piero Calamandrei, che ben evidenzia il senso dell’apertura fatta all’uso del decreto legge di fronte ad ipotesi di eccezionale urgenza:
“Su molti problemi vivi, dei quali pareva che si dovesse trovare nella Costituzione una chiara soluzione, si è preferito di chiuder gli occhi. Enumero rapidissimamente alcuni di questi problemi. C’è quello dei decreti di urgenza. Se ho visto bene, dei decreti di urgenza non vi è accenno nella Costituzione. Il fatto che se ne sia taciuto richiama il ricordo di quelle madri ottocentesche che facevano uscire i figliuoli dal salotto quando la conversazione minacciava di cadere su certi argomenti scabrosi. Nella Costituzione non si deve parlare dei decreti-legge perché questo è un argomento pericoloso. Ma, insomma, potrà avvenire che si verifichi la necessità e l’urgenza, di fronte alla quale il normale procedimento legislativo non sarà sufficiente: il terremoto, l’eruzione di un vulcano. Credete che si possa mettere nella Costituzione un articolo il quale dica che sono vietati i terremoti? Se non si può mettere un articolo di questa natura, bisognerà pure prevedere la possibilità di questi cataclismi e disporre una forma di legislazione di urgenza, che è più provvido disciplinare e limitare piuttosto che ignorarla”.
Il senso dell’apertura ai decreti legge nella costituente era un senso assolutamente pregno di quel concetto di stato di necessità che avrebbe dovuto rendere tale forma legislativa l’estrema ratio dell’ordinamento. Con un Parlamento che, ex post, doveva ovviamente assurgere al fondamentale ruolo di garanzia circa la legittimità dell’operato del governo sia nel merito che nella forma.
Figuriamoci se si poteva ipotizzare che fosse prerogativa del Governo occuparsi di riforme costituzionali, come purtroppo oggi avviene, a causa dell’analfabetismo istituzionale di Matteo Renzi e dei suoi Ministri. Il tutto anche con la colpevole inerzia dei giuristi che evidentemente, in gran parte, preferiscono mettere la testa sotto la sabbia.
Ma meglio tornare ai livello eccelso dei Padri Costituenti.
L’Onorevole Crispo, nella seduta del 10.09.1947 sembra cogliere, anticipandoli, i drammatici fatti che viviamo in questi giorni:
“Onorevoli colleghi, parlerò brevemente sul modo in cui il progetto di Costituzione contempla l’attività legislativa del Governo, argomento del quale, a mio avviso, non si rileva mai abbastanza la gravità, per i pericoli enormi che può produrre una legislazione che taluni scrittori definirono una vera e propria usurpazione del potere legislativo da parte del potere esecutivo. E mi occupo esclusivamente di questo tema, perché mi pare che questa parte del Progetto presenti le maggiori manchevolezze, come mi sarà facile dimostrare. Come è noto, l’attività legislativa del potere esecutivo si esplica in una duplice forma: attraverso la delega del potere legislativo; attraverso la forma autonoma del decreto-legge. Il progetto di Costituzione, mentre si occupa dell’attività legislativa delegata, tace del tutto dell’attività legislativa autonoma, quella, cioè, determinata da un vero e proprio stato di necessità e di urgenza. È stato or ora affermato dall’onorevole Codacci Pisanelli che si volle così abolire questa forma di attività legislativa. Non mi sembra che tale opinione sia da accogliersi essendo, ormai, da tutti riconosciuto che la necessità di fatto possa tramutarsi e si tramuti in una fonte di diritto, e che il decreto-legge ha il suo fondamento e la sua legittimità in uno stato di necessità. Basterebbe in proposito ricordare il decreto-catenaccio, tipico esempio di decreto-legge, determinato da opportunità ed esigenze fiscali o finanziarie. Il silenzio del progetto è, dunque, una lacuna che bisognerà colmare (omississ….) Si ritiene che, durante il ventennio fascista, ammontarono a ben 30 mila i decreti-legge emessi dal Governo, alcuni deiquali perfino per la nomina di qualche impiegato. Né farebbe sorpresa che l’abuso continuasse in regime democratico: di qui la necessità di norme atte a stabilire che il decreto-legge può essere emanato esclusivamente nei casi di urgenza e di necessità, ed a precisare che tali casi non sono mai ammissibili quando le Camere legislative sono in funzione.Tali norme dovrebbero essere integrate con quelle relative alla conversione in legge, al termine di presentazione per la conversione, e a quello entro il quale la conversione debba aver luogo”.
Ma, a mio avviso, il passo più importante è quello che si evince dalla lettura della verbalizzazione delle dichiarazioni dell’On. Ruini del 17 ottobre 1947, ove si apprende sostanzialmente quella che è l’interpretazione realmente autentica di quello che poi è diventato l’art. 77 Cost.
Trattasi di un passaggio che evidenzia come con il “porcellum”, la legge elettorale che consente a questo Parlamento di operare secondo gli ordini del Governo, le garanzie originariamente previste per la decretazione d’urgenza, siano state letteralmente spazzate via. Una legge ordinaria ha effettivamente modificato la forma Repubblicana dello Stato. I nominati che siedono nelle Camere non hanno alcuna possibilità di contraddire chi li ha messi lì.
“Il Presidente della Repubblica non può emanare decreti aventi valore legislativo, deliberati dal Governo, se non in casi straordinari di assoluta e urgente necessità. In tali casi le Camere, anche se sciolte, sono appositamente convocate e debbono riunirsi entro cinque giorni. I decreti perdono di efficacia se non sono convertiti in legge e pubblicati entro sessanta giorni.
Si è arrivati a questa soluzione, seguendo un ordine, un iter di ragionamento. Si è dapprima posto il quesito se conviene prendere in considerazione o mostrar di ignorare quello «stato di necessità» — come dice una prevalente dottrina — da cui dipende l’emanazione dei decreti-legge. Che vi possa essere stato di necessità — anche se non ha veste di istituto giuridico — è un principio generale di diritto largamente ammesso. A ciò si riconduce il sistema del decreto-legge; usato fra l’altro in Inghilterra, paese classicamente libero, con il successivo bill d’indennità, da parte delle Camere. È stato osservato che (a prescindere dalle particolari garanzie che dà il costume politico in Inghilterra, più che in altri paesi) quanto ivi avviene senza alcuna norma costituzionale, solo in base al costume, sembra più difficilmente ammissibile in paesi a costituzione rigida. Se non vi è norma di costituzione, non solo il decreto-legge ma lo stesso bill d’indennità resterebbero atti incostituzionali.
Per un complesso di considerazioni, alle quali hanno aderito i membri del Comitato, tranne l’onorevole Lucifero, si è ritenuto preferibile prevedere nella Costituzione, per porgli i limiti più rigorosi, il decreto-legge. Non ci ha trattenuti il timore di dare cittadinanza nella Carta costituzionale ad un atto che desta così sfavorevoli ricordi e che solleva indignazione in spiriti liberali, che non riflettono come, non mettendo nulla, si viene a facilitare ed incoraggiare l’uso dei decreti-legge, che nulla può impedire, anche il silenzio della Costituzione che significa divieto; non si avranno limiti; e così si farà, col silenzio, opera anti liberale.
Secondo punto: l’onorevole Mortati aveva avanzato una proposta per cercare di classificare e di individuare i casi nei quali poteva essere ammesso il decreto-legge. Aveva (oltre che allo stato d’assedio, che rinviava al Titolo del potere esecutivo) accennato al caso di una modifica delle tariffe doganali, in cui occorre non solo l’immediatezza, ma anche il segreto per evitare speculazioni ed altri turbamenti. Altri osservò che un caso più specifico di necessità del segreto si ha per le borse; e non solo per la loro diretta disciplina, ma anche pei provvedimenti che possono aver riflesso in borsa, ed è necessario che siano tenuti nella maggior segretezza prima di essere emanati. Se fosse possibile indicare i casi, nei quali soltanto può ammettersi il decreto-legge, sarebbe certamente la via migliore; ed il Comitato ha invitato l’onorevole Mortati a trovare una formulazione adatta e completa; ma lo stesso onorevole Mortati ha finito col riconoscere che non è possibile.
Venuta meno la soluzione di una limitazione, per così dire, di sostanza, che riducesse i casi di decreti-legge soltanto ad alcune categorie di atti, si è — passando al terzo punto nel nostro ragionamento — stabilito di ricorrere ad una limitazione di procedura, che sia molto rigorosa e tale da impedire e colpire gli abusi. Si è pertanto, nel testo che vi ho letto, determinato che non si può ricorrere al decreto-legge se non in casi straordinari di assoluta urgenza e necessità (la forma adottata non è positiva, di autorizzazione al Governo di emettere decreti-legge, ma è negativa: «non possono essere emessi»; anche le sfumature possono servire). Cert’è che, direttamente o indirettamente, si riconosce l’eventualità dei decreti-legge, ma subito si appongono i freni e i limiti più efficaci che si possano pensare.
I provvedimenti presi dal Governo devono essere immediatamente — il giorno stesso della loro emanazione — presentati alle Camere per la loro conversione in legge. Se le Camere non sono già raccolte, devono esserlo, anche se sciolte, non più tardi che entro cinque giorni. (n.d.s. ma l’orrendo porcellum, con un Parlamento composto dai partiti che hanno nominato ogni singolo componente, ha fatto saltare il banco!).
Né basta. Vi è un altro freno. Se i decreti-legge non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro presentazione alle Camere, perdono ogni efficacia. Ciò accentua il loro carattere di provvisorietà, e pone un brevissimo termine, nel quale possono aver vigore, senza che intervenga la conversione in legge. Tali i criteri, onorevoli colleghi, che hanno ispirato la disposizione proposta”.
Mentre i Padri Costituenti vietavano al Governo la possibilità di legiferare, oggi il Governo scrive la riforma Costituzionale e la impone alle Camere, quelle Camere che esercitano, come certificato dalla Corte di Cassazione, in grave alterazione dei principi di rappresentanza democratica, in quanto formate in forza di un premio di maggioranza dichiarato incostituzionale e composte da nominati che rispondono al partito.
Con l’eliminazione del Senato rimarrà una sola Camera che sarà, sotto il totale controllo, di chi vincerà le elezioni godendo del premio di maggioranza. Chi, di volta in volta, sarà al potere, avrà l’assoluto controllo delle Istituzioni potendo anche decidere, in ogni momento di tenerselo, cancellando la democrazia. Oppure di cedere il Paese all’UE in ossequio al disegno dichiarato di superare le sovranità nazionali.
Il Governo diverrà l’unico organo legislativo con un Parlamento che via via sarà un mero ratificatore delle scelte dell’esecutivo.
L’ultima volta che questo accadde, c’era Mussolini al potere.
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