Abolire, abolire, abolire. Ora è il turno di Equitalia, ma sono anni che l’ansia di far fuori quel che non va è diventato il mantra della politica nella penosa transizione tra seconda e terza repubblica. E ogni volta le speranze di semplificare lo Stato o di ridurre la pressione fiscale si infrangono contro la dura realtà. La magia riesce a metà: sparisce il contenitore, rimane il contenuto.
È una storia che inizia quando Silvio Berlusconi decide, con un colpo di teatro, di usare la cancellazione dell’Ici, la tassa sulle abitazioni, per rimontare lo svantaggio contro il suo sfidante Romano Prodi. Era il 2006.
Berlusconi perde per un pugno di voti e per l’abolizione dell’Ici bisognerà aspettare il 2008. Peccato che nel corso dei successivi anni sei anni l’Ici riappare diventando Imu,Tari,Tasi, Tares, Taser, Trise, Tuc e Iuc. Risultato? Nel 2015 l’imposta abolita, quella che non doveva esserci più, è costata 49 miliardi di euro agli italiani. Non male, per un fantasma.
Nel 2011, però, ancora non lo sapeva nessuno che sarebbe andata così. E la fregola di abolire, abolire, abolire ancora ribolliva nelle vene dell’opinione pubblica e della classe politica, tecnica per l’occasione. Era il 6 dicembre 2011, il giorno della presentazione del decreto “Salva Italia” e Mario Monti gongolava (a modo suo, s’intende) al pensiero di essere il primo Presidente del Consiglio a eliminare - pardon, riordinare - le Province, accorpandole e rendendole enti di secondo livello. Missione fallita, perché due anni dopo la Consulta decide per l’incostituzionalità dell’abolizione. Ci riprova Matteo Renzi, due anni dopo, il 3 dicembre del 2014, con una riforma-svuotamento-abolizione sostanzialmente analoga, che se vincerà il sì al referendum sarà definitiva. Peccato che le province rimarranno, così come le loro competenze, i loro dipendenti e i loro costi. A saltare sono i politici, e basta. Così, da 10 miliardi che costavano da vive, le non-province che non esistono più oggi ne costano 9,5.
Sono anni che l’ansia di far fuori quel che non va è diventato il mantra della politica nella penosa transizione tra seconda e terza repubblica. E ogni volta le speranze di semplificare lo Stato o di ridurre la pressione fiscale si infrangono contro la dura realtà. La magia riesce a metà: sparisce il contenitore, rimane il contenuto
Nella boutique degli zombie istituzionali, tuttavia, il pezzo grosso è il Senato della Repubblica. Abolito, pure lui, se vincerà il Sì. O meglio, al pari delle province, rimodulato in un ente di secondo livello, nel quale sederanno sindaci e consiglieri regionali. Comunque la pensiate sulla fine del bicameralismo perfetto, non accapigliatevi sui costi, perché nonostante 230 senatori in meno, per di più pagati ciascuno dal loro ente di provenienza, i risparmi saranno risibili. Il nuovo Senato, infatti, costerà solo l’8,8% in meno rispetto a quello attuale. Da 540 milioni di euro all’anno, si passerà a 496. Un risparmio di 48 milioni, cui si sommerà quello del Cnel,che di milioni ne costa 19 e che da cadavere ne costerà poco meno di 9.
E arriviamo finalmente a Equitalia, battezzata Riscossione Spa da Berlusconi nel 2006, ribattezzata da Romano Prodi nel 2007, abolita da Renzi (entro l’anno) con la Legge di Bilancio del 2017. L’ente esattore partecipato da Agenzie delle Entrate e Inps, va in soffitta con un’utile netto di 21,5, nonostante percentuali di recupero di tasse e multe non pagate piuttosto basse, circa il 10% di quel che avrebbe dovuto portare a casa. Non si sa bene chi dovrà sostituirlo: l’ipotesi più accreditata è che l’ente, insieme ai suoi settemila dipendenti, finisca nell’Agenzia delle Entrate. Dove, cambiando organizzazione e metodo, si spera, continuerà a fare il suo mestiere, agli stessi costi o quasi. Il nome siamo riusciti ad abolirlo, il fantasma anche stavota resterà. Statene certi.
Fonte: Linkiesta
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