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venerdì 21 ottobre 2016

Il vero quesito del referendum: approvate il superamento della democrazia parlamentare?

di Raniero La Valle *

Cari Amici,

poiché parlo a una grande riunione di persone la cui motivazione più profonda è che “l’uomo non vive di solo pane”, sento prima di tutto il bisogno di dirvi la ragione per la quale a 85 anni corro l’Italia per sostenere il NO al referendum, quando i giovani di oggi sono disperati per tanti altri motivi.

La ragione principale è una ragione di verità. Nell’ appello con cui i “Cattolici del No” hanno spiegato ai cittadini perché si oppongono a questa riforma, hanno detto di farlo per una questione di giustizia e una questione di verità. 





In effetti l’Italia ha oggi un grosso problema, di sapere la verità del referendum, non perché qualcuno dica la “sua” verità sul referendum, ma per capire che cosa il referendum dice di sé, che cosa rivela del dramma politico che oggi stiamo vivendo in questo Paese e nel mondo. 

La verità è il criterio supremo su cui viene giudicato il potere: sulla verità il potere sta o cade. Lo dice Gesù a Pilato, che voleva sapere se egli fosse un re e Gesù risponde “sono re”, e subito lo nega perché, dice, sono venuto al mondo per “rendere testimonianza alla verità”. Infatti non è un re, nel senso di Pilato, ma un suddito crocefisso. È la più radicale delegittimazione del potere senza verità. Ebbene è proprio la verità che spesso manca al potere e per saperlo basta guardare alla storia dei re e dei potenti, che fanno le guerre per una bugia – come è avvenuto in Vietnam, in Iraq e ora in Siria - e comprano il povero, o il voto del povero, al prezzo di un paio di sandali. 

Dunque c’è una questione di verità col potere e c’è una questione di verità col referendum. Ognuno ne parla a suo modo e tutti lo fanno come se parlassero di oggetti diversi; per gli uni è la fine di Renzi, per altri ne è il principio; per gli uni abolisce il Senato, per altri abolisce i senatori; per gli uni favorisce le autonomie, per altri le nega; ed essendo un oggetto misterioso, non si sa nemmeno perché si vota il 4 dicembre con la neve e non si vota invece il 4 ottobre con la brezza autunnale. 

In questa mancanza di verità si è accesa una polemica sul quesito su cui si deve votare, che non è l’enunciazione del contenuto della legge ma lo slogan che il governo le ha messo in Parlamento come titolo. Per cui la domanda è se la riforma realizza davvero ciò che promette, oppure se mira a risultati del tutto diversi e tenuti nascosti. 

E poiché il titolo promette cinque cose e non c’è il tempo di esaminarle tutte, mi fermerò alla prima per vedere se il titolo è vero. 

La prima cosa promessa è il superamento del bicameralismo paritario o, come si dice più comunemente, del bicameralismo perfetto. 

Allo stato attuale delle cose il bicameralismo perfetto consiste in due Camere che hanno gli stessi poteri: danno la fiducia, controllano l’esecutivo e fanno le leggi. Avendo entrambe la stessa dignità e la stessa centralità nel sistema, non c’è una Camera alta e una Camera bassa, tutte e due sono Camere alte. 

La diversa misura delle due Camere era invece la caratteristica del Regno d’Italia. Secondo lo Statuto Albertino c’era una Camera alta, che era il Senato del Regno, ed era chiamata alta perché i senatori erano nominati dal Re. La Camera dei deputati, i quali invece erano eletti dal popolo, era detta Camera bassa. Era evidente in quella concezione che il Re era l’alto, e il popolo era il basso. Il Senato, nella varietà delle vicende politiche, doveva garantire la continuità del Regno. Questa è la ragione per cui nel “Gattopardo” un messaggero del Re va a chiedere al principe di Salina di fare il senatore: perché anche con l’unità d’Italia i signori continuino a regnare come prima e tutto cambi perché tutto resti com’era. La stessa continuità il Senato del Regno doveva assicurare nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato fascista, ma Mussolini preferì fare la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, sicché fu poi la Costituente che sciolse il Senato; e i costituenti, trovando il terreno vergine, senza Camera né alta né bassa, decisero di fare due Camere, ambedue elette dal popolo e perciò aventi la stessa statura. 

Adesso con la riforma proposta, c’è un rovesciamento perché la Camera dei Deputati diventa lei la Camera alta. In essa siederanno infatti dei deputati di nomina regia, che cioè saranno nominati dall’alto, ovvero dal governo e dai capi dei partiti, e sarà la Camera che dovrà assicurare la continuità del potere e del regime, e dicendo che “tutto cambia”, si farà garante che tutto resti com’è. Invece il Senato diverrà la Camera bassa; e tanto bassa, che non sarà fatta nemmeno da senatori eletti dal popolo, ma da sindaci e onorevoli locali designati dai Consigli regionali. 

E a questo punto la questione è questa: pur declassati, questi senatori potranno fare davvero i senatori? Secondo Renzi, dovendo essi venire a Roma a sbrigare delle pratiche, come già fanno i sindaci, ne potranno approfittare per passare anche dal Senato e tra una cosa e l’altra fare i senatori. Però secondo l’art.55 della nuova Costituzione il Senato dovrebbe vegliare su pressoché tutte le politiche pubbliche, valutarle e verificarle, come se fosse una sorta di “commissario politico” della Repubblica. Secondo poi l’art. 70, che ridistribuisce le competenze tra Camera e Senato, i senatori avranno ingentissime altre incombenze e per adempierle dovranno osservare una tempistica massacrante; infatti, mentre da un lato per moltissime leggi fondamentali, che restano nelle competenze del bicameralismo paritario, i senatori dovranno passare in Senato tanto tempo quanto i deputati alla Camera, d’altro lato per richiamare al proprio esame ogni altra legge e per intervenire, deliberare, proporre modifiche, fare ricorso alla Corte costituzionale, dare il loro parere quando il governo voglia sostituirsi ai poteri delle Regioni e delle città metropolitane, i senatori avranno termini tassativi ora di 5 giorni, ora di 10 giorni, ora di 15 o 30 giorni che si accavalleranno tra loro. Questo ancora nessuno l’ha detto; ma è chiaro che nel ping pong tra una legge e l’altra, tra un richiamo di una legge e un altro, tra una proposta di modifica e l’altra, i senatori per non saltare i termini dovrebbero stare a Roma molto più a lungo dei deputati, che invece possono andare a casa quando vogliono senza che a loro scada termine alcuno. E qui c’è il paradosso: una riforma che doveva addirittura istituire un Senato delle autonomie, rischia di risolversi in un una sorta di sabotaggio delle autonomie da parte del Senato. 

Perciò è impossibile che sindaci di grandi città e consiglieri regionali di rilievo possano abbandonare i loro doveri d’ufficio nel territorio per installarsi a Roma correndo dietro alle leggi e alle delibere con uno scadenzario in mano. Il che vuol dire che a Roma non ci staranno affatto e perciò ci sarà un Senato ma non ci saranno i senatori, e l’attività legislativa sarà bloccata. 

Allora la domanda è: non era meglio piuttosto abolire il Senato? Non lo hanno fatto. Forse i riformatori che volevano “cambiare verso” all’Italia erano troppo conservatori, forse Renzi era troppo organico alla vecchia classe politica per arrivare a sopprimere il Senato della Repubblica, e perfino per osare di cambiarne il nome, che doveva essere “Senato delle autonomie”. Quello che invece hanno fatto è stato di depotenziarlo per renderlo innocuo, per levare l’incomodo che esso arrecava ai governi. E così hanno tolto al Senato l’unico potere che veramente contava e che dava fastidio, il potere di dare e togliere la fiducia. E questo lo hanno statuito senza ambiguità e senza esitazione alcuna: con questa riforma infatti il governo esce totalmente dal controllo del Senato. Così almeno una Camera è messa fuori gioco. E perché la spoliazione fosse ben chiara, hanno tolto al Senato anche quel potere che purtroppo nella nostra cultura massimamente è rappresentativo della sovranità: il potere di deliberare lo stato di guerra che l’art. 87 della nuova Costituzione toglie al Senato e riserva alla sola Camera dei deputati. 

In questo consiste dunque l’uscita dal bicameralismo perfetto, che è il titolo e la gloria della legge di revisione che dobbiamo votare.

L’uscita è dalla democrazia parlamentare 
Ma quanto, dopo questa uscita, il bicameralismo diventa imperfetto? Diventa tanto imperfetto che neanche la Camera dei deputati funzionerà più come un organo della democrazia parlamentare. La democrazia parlamentare consiste infatti nel rapporto di fiducia per cui il governo nasce e dipende dalla fiducia espressa dalla maggioranza del Parlamento. Ma nel nuovo sistema, la fiducia verrebbe data da una Camera nella quale la maggioranza assoluta dei seggi sarebbe occupata per legge dai nominati di un solo partito. Ora ci dicono che questa legge, l’Italicum, la cambieranno, quando ormai a Renzi, che può perdere, non conviene più. Però finora essa ha fatto parte integrante del cambiamento istituzionale, è stata imposta al Parlamento col voto di fiducia come premessa della stessa riforma, e la Corte Costituzionale, rinviando la decisione sulla sua incostituzionalità a dopo il referendum, l’ha formalmente consegnata al giudizio del popolo italiano. Perciò inevitabilmente il 4 dicembre voteremo insieme sia sulla riforma di uscita dal bicameralismo che sulla legge elettorale che l’accompagna, voteremo cioè sul “combinato disposto”. Dunque voteremo per un sistema in cui al governo la fiducia sarà data da una Camera di sua fiducia, con una maggioranza di deputati nominati dallo stesso governo, corrispondenti però a una minoranza degli elettori. In tal modo la fiducia al governo non sarà più un atto libero di Camere elette e rappresentative di tutto il popolo, ma diverrà un atto interno di partito, diverrà un atto dovuto per disciplina di partito, non importa se riunito al Nazareno o a Montecitorio. 

Dunque il punto non è che dal bicameralismo perfetto si passa a un bicameralismo dimezzato. La verità è che il bicameralismo resta, ma è la democrazia parlamentare che se ne va. Il superamento è questo, e questo dovrebbe essere perciò il titolo non menzognero della legge. Ci sarà una democrazia e ci sarà un Parlamento, ma non ci sarà più una democrazia parlamentare. Per questo i riformatori si gloriano del fatto che ci sarà un solo governo per tutti i cinque anni di legislatura, e magari per più legislature, e non ci saranno più come prima 63 governi in 63 anni, come dicono Renzi e l’ambasciatore americano. Ma se dalle urne viene fuori non dico un tiranno, ma un invasato, un uomo del destino, un pazzo, uno Stranamore, un apprendista stregone, o anche semplicemente un idiota, non c’è niente da fare, la sua signoria è assicurata per molti anni; e così le elezioni politiche si trasformano ogni volta per il Paese in una roulette russa, in un rischio di suicidio. 

Questa è una delle verità del referendum. Ma c’è anche, come dicevamo, una verità che sta dietro al referendum, e che esso rivela. Essa viene alla luce quando si dice che la legge Renzi-Boschi attua finalmente riforme attese e avviate da tempo.

Un processo di restaurazione 

È verissimo che queste riforme vengono da lontano. Ma da chi sono attese? Sono attese dai mercati, dagli investitori, dalle grandi agenzie e società del commercio globalizzato. E sono state avviate dalle Banche, dalle Borse, dalla Trilaterale, dalla scuola di Chicago, dai Premi Nobel dati agli apostoli della dottrina neoliberista, come von Hayek e Friedman, dal Consenso di Washington del 1989, dal Fondo Monetario Internazionale e dalle sue ricette di riforme strutturali. La Costituzione renziana è in effetti il punto di arrivo di un processo di restaurazione condotto da classi dirigenti pentite di quella democrazia che avevamo ritrovato e reinventato dopo la tragedia dei fascismi sconfitti, e che avevamo messo nelle Costituzioni del dopoguerra. 

Il fulcro di questa restaurazione consiste nel trasferire la sovranità dal popolo ai mercati. 

È una restaurazione che ha bisogno di poteri spicci e sbrigativi, tanto meglio se loquaci, che mettano la politica al passo coi dogmi economici, magari pregati di essere più flessibili. 

Ciò comporta un blocco del pluralismo politico e richiede una società impietosa divisa in due tra vincenti e perdenti, accolti ed esclusi, necessari ed esuberi, salvati e sommersi. Per i poveri, che non hanno altra ricchezza che il diritto, è un disastro. Ed è una società che non può più ripudiare la guerra, perché la guerra è il giudice di ultima istanza nella lotta per gli interessi esterni del sistema, per le risorse e per la supremazia. 

Da noi il decennio di svolta è stato tra il 1981 e il 1991, a partire dal divorzio tra governo e Banca d’Italia, fino alle picconate alla Costituzione di Cossiga, fino a Maastricht, e al Nuovo Modello di Difesa con cui l’Italia ha ripudiato la pace, ha cambiato natura e missione delle Forze Armate e dopo la scomparsa del nemico sovietico ha accettato la scelta atlantica insensata di sostituirlo con l’Islam come nemico. Da allora viviamo nella nuova conflittualità che si è aperta col Sud del mondo, e col terrorismo come nuovo nome e nuova condizione permanente della guerra. 

Questo processo di restaurazione peraltro non si è concluso. Il referendum ne è una tappa intermedia. Già ci dicono che se vince il Si la riforma verrà riformata e si aprirà una stagione di ulteriori revisioni. Certo non basta un No per fermare questo processo, ma il No è condizione perché esso possa essere interrotto e rovesciato. 

* intervento al meeting “Loppiano-Lab” del Movimento dei Focolari a Loppiano (Firenze) il 30 settembre 2016

fonte: MicroMega

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