“Una settimana lavorativa di 4 giorni, perché solo ridistribuendo il lavoro potremo contrastare il dramma della disoccupazione. E l’introduzione del reddito minimo garantito è un obiettivo da perseguire”. Le proposte del giuslavorista Piergiovanni Alleva – docente universitario e consigliere regionale in Emilia Romagna – appaiono massimaliste, al limite dell'irrealizzabile. Il pensiero va alla copertura economica, dove trovare i soldi? “Nessuna utopia, abbiamo fatto i calcoli e le risorse ci sono: in Emilia Romagna, ad esempio, sono sufficienti quelle locali”.
Di certo, Alleva non crede che il Jobs Act sia la soluzione per contrastare la precarietà, anzi.
Il giuslavorista, dopo esser stato protagonista lo scorso anno della battaglia in difesa dell'articolo 18 poi manomesso dal governo Renzi, si prepara adesso per l’eventuale referendum di primavera: “I lavoratori non hanno più quasi tutele, e le poche che hanno non le rivendicano per paura di venire licenziati. Il Jobs Act ha distrutto la giustizia del lavoro, ma grazie ai tre referendum della Cgil abbiamo una straordinaria occasione di riscatto”.
Professore, in Emilia Romagna Lei ha presentato una proposta di legge per passare da 5 a 4 giorni lavorativi: un modo per contrastare la disoccupare allo storico grido “lavorare meno, lavorare tutti”?
Passare da cinque a quattro giorni lavorativi significa ridurre l'orario di lavoro, e quindi anche il salario, del 20 per cento. Sarebbe perfetto poter dare al lavoratore che accetta di ridurre l'orario (dico “accetta” perché tutta l'operazione è strettamente volontaria) una compensazione totale. Poiché la legislazione nazionale non dà alcuna compensazione nel caso di contratti di solidarietà espansivi – mentre la dà per quelli difensivi – occorre utilizzare risorse locali che consentirebbero, secondo i nostri calcoli, una compensazione fino al 92 per cento del valore del suo salario. Il lavoratore perderebbe solo l'8 per cento del suo potere di acquisto, ma guadagnerebbe un giorno libero in più alla settimana che a questo punto sarebbe fatta di quattro giorni lavorativi e tre di tempo libero. Per “risorse locali” si intende l'utilizzo del salario di ingresso previsto per i neo assunti, dei risparmi resi possibili dall'utilizzo di misure di welfare aziendale, nonché di uno specifico contributo regionale.
Ma la proposta dei 4 giorni lavorativi si potrebbe attuare anche su scala nazionale?
Certo, dovrebbe essere assunta a livello nazionale perché a quel livello con un ulteriore apporto della finanza centrale si potrebbe arrivare alla compensazione completa.
Sempre in Emilia Romagna è passata una legge che introduce il reddito minimo. In Parlamento giacciono ben tre proposte di legge sul reddito minimo garantito, una di Sel, una del Pd e una del Movimento 5 Stelle. Potrebbe essere l'antidoto per contrastare la precarietà e l’enorme tasso di disuguaglianza nel Paese?
Il reddito minimo garantito è un obiettivo da perseguire. La recente legge approvata in merito dalla regione Emilia Romagna, lascia a desiderare perché, a mio giudizio, le risorse destinate vanno concentrate sulle classi di età più avanzate che difficilmente possono essere reinserite nel mercato del lavoro. Per i più giovani occorre un inserimento lavorativo quale vera soluzione e quindi in un certo senso la mia proposta di legge è complementare a quella sul reddito minimo. In altre parole, reddito garantito per chi difficilmente potrà ancora lavorare e invece reddito da lavoro per chi può e vorrebbe lavorare.
In base ai recenti dati dell'Istat la disoccupazione, soprattutto giovanile, è in aumento. La politica è rimasta a guardare di fronte a questa emergenza nazionale? Servono nuovi investimenti pubblici mirati?
La disoccupazione giovanile è il nostro principale problema ed infatti la mia proposta è prioritariamente diretta a ridurla quanto più possibile. Tuttavia, investimenti pubblici sono certamente indispensabili perché proposte di tipo redistributivo del lavoro esistente sono necessarie ma non sufficienti.
Per la narrazione dei governi Renzi e Gentiloni, il Jobs Act ha avuto il merito di abbassare la percentuale dei disoccupati. È d'accordo? Qual è il suo giudizio sul Jobs Act?
Il Jobs Act ha portato la distruzione delle tutele e della dignità dei lavoratori intrecciata con una vera e propria truffa di dimensioni gigantesche. Ciò perché l'incremento dell'occupazione a tempo indeterminato altro non è in realtà che la trasformazione di precedenti contratti precari irregolari e come tali già da considerare per legge a tempo indeterminato. I molti miliardi, più di 20 nel triennio, pagati alle imprese per queste apparenti trasformazioni sono stati un incredibile regalo a dei contravventori delle regole contrattuali che avrebbero dovuto invece essere multati. Sarebbe stato molto più produttivo utilizzarli per creare nuovi posti di lavoro.
Finiti gli incentivi alle imprese, in effetti sarebbero terminate anche le assunzioni...
L'incremento occupazionale di lavoro stabile prospettato non c'è stato perché il governo Renzi ha creato in concorrenza tipologie contrattuali ultra precarie, come i contratti a termine acausali ed i voucher-lavoro. Nel mercato del lavoro, come in ogni mercato, la moneta cattiva scaccia la buona e la cattivissima la cattiva.
I voucher: vanno aboliti o è sufficiente regolamentarli?
Il punto fondamentale è che i voucher non devono assolutamente essere utilizzati nell'impresa dove è essenziale, sia per la produzione sia per la dignità delle persone, che si instaurino dei rapporti di lavoro. Altra cosa è l'utilizzo da parte dei datori di lavoro non imprenditori, come famiglie o altri soggetti privati. Secondo me, comunque, sarebbe meglio abolirli.
Non hanno avuto almeno il merito di far emergere il lavoro in nero?
Il voucher non fa emergere ma incentiva il lavoro nero, in quanto costituisce in concreto un alibi per utilizzare lavoro irregolare. Con il voucher si denunzia un’ora di lavoro, ma questa è la foglia di fico per farne poi svolgere molte di più in nero. L'obbligo di avvisi telematici ed altre annunciate garanzie di cui parla il governo Gentiloni servirebbero solo se, non appena fatta la denunzia da parte del datore di lavoro, partisse un controllo “in loco” degli organi ispettivi il che, come si comprende, è una prospettiva inattuabile.
Per il giuslavorista Pietro Ichino la Consulta, il prossimo mercoledì 11 gennaio, potrebbe bocciare l'ammissibilità dei tre quesiti proposti dalla Cgil, un rischio che vale soprattutto per quello riguardante l'art. 18. Che ne pensa?
L'argomento di Ichino è del tutto infondato e francamente penso che lo sappia benissimo. Il problema è tutto qui: se una regola ha un limite di applicabilità e si elimina questo limite attraverso un’abrogazione referendaria ovviamente l'ambito di applicazione della regola si espande ad un nuovo territorio e se tutti i limiti vengono aboliti la regola diventa generale. L'abrogazione di un elemento negativo e il conseguente ampliamento positivo della regola sono in realtà le due facce di una stessa medaglia. La Corte ha già affrontato questo problema nella sentenza n. 41 del 2003 che dichiarò ammissibile un quesito referendario che abrogava tutti i limiti all'applicabilità dell'articolo 18. Questa volta si chiede di eliminare un solo limite, quello dei sedici dipendenti.
Però anche altri analisti temono che l’11 gennaio possa giungere una bocciatura...
Il problema purtroppo non è giuridico e un giudizio di inammissibilità da parte della Corte costituirebbe un grave caso di incoerenza da un lato e di interferenza politica dall'altro.
Se alla fine ci sarà il referendum e se dovesse vincere il Sì abrogativo, per l'art 18 si tornerebbe ad una situazione pre-Fornero?
Sì, nel senso che la formulazione originaria dell'art 18 varrebbe per tutti, anche per i lavoratori delle imprese di livello occupazionale compreso tra i 5 e i 16 dipendenti. Voglio sottolineare questo argomento che potrà avere un grande valore propagandistico: tutti i lavoratori che sono stati assunti col cosiddetto “contratto a tutele crescenti”, che in realtà significa senza garanzia di stabilità, votando Sì al referendum regaleranno a se stessi la stabilità e la sicurezza del posto di lavoro.
Per anni si è pensato alla flessibilità in uscita – quindi la possibilità dell’azienda di poter licenziare il lavoratore – per rilanciare l'economia italiana. Per anni, quindi, visti i risultati odierni, si sono sbagliate tutte le politiche?
Ho sempre avuto un senso di repulsione verso il ragionamento per cui senza art. 18 le imprese assumerebbero maggiormente e più volentieri: equivale a dire che vogliono tenere sotto ricatto di licenziamento ingiustificato i lavoratori in maniera che quest'ultimi non possano mai alzare la testa o avanzare qualche rivendicazione. Così non si va da nessuna parte, perché è solo dalla fidelizzazione della risorsa umana, e cioè dalla fiducia e dignità e dall'identificazione dei lavoratori con l'impresa, che può aumentare la produttività.
Torniamo al dramma della disoccupazione. Come affrontare la progressiva scomparsa del lavoro provocata dall’automazione tecnologica? Dalla fase di alienazione dovuta alla diffusione delle macchine, arriveremo alla scomparsa dell’uomo dai luoghi di lavoro?
La progressiva automazione del processo produttivo resta ovviamente un problema centrale per i destini della società capitalistica: la continua crescente sostituzione del lavoro vivo con lavoro morto secondo Marx costituisce per il capitalismo l’avverarsi del monito “fratello ricordati che devi morire”, nel senso del riproporsi in modo sempre più drammatico di crisi di sottoconsumo. È inevitabile che le merci non trovino più sbocco di mercato se le persone che dovrebbero acquistarle, vendendo la loro forza lavoro, vengono progressivamente estromesse dal processo produttivo. Il capitalismo non ha i mezzi per contrastare questa sua malattia endogena se non quello di aumentare, spesso in maniera artificiosa, i bisogni e quindi la produzione, ma il risultato finale non è, a quanto pare, in equilibrio.
fonte: MicroMega
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