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domenica 15 gennaio 2017

Dalla Rete, un giorno, Risorgeremo

Le istituzioni e i palazzi del potere sono sempre più distanti dai cittadini che al contempo intensificano la propria partecipazione politica grazie alle piazze virtuali.

di FRANCESCO COLACI

Il popolo dello stivale è sempre più incline ad allontanarsi dai partiti e dallo Stato, mentre cresce il malcontento e la voglia di partecipazione. Attraverso i nuovi media, anche gli individui culturalmente meno sensibili sono investiti da propagande di ogni genere, entrando inevitabilmente a contatto con un nuovo giro d’informazioni, inusuale rispetto all’egemone forma dell’intrattenimento.





Il risultato è quello di un rafforzamento circolare, dove lo spazio digitale e social potenzia la piazza reale e, viceversa, quest’ultima richiede capacità di organizzazione e mobilitazione sempre più complesse, le quali necessitano dell’uso di piattaforme quali Facebook e Twitter.
Durante l’ultima campagna referendaria per la riforma costituzionale, numerose voci di protesta nell’opinione pubblica, (soprattutto i sostenitori del renziano Sì), hanno mosso delle dure critiche per le modalità di conduzione della propaganda, con particolare riferimento alla cattiva sensibilizzazione della popolazione sulle ragioni del No. Queste ultime, tuttavia, sono state lucidamente esposte ai comitati, ma spesso ridotte dai media alle semplicistiche dimissioni di Renzi.

Al di là delle critiche, che non cesseranno mai di esistere, occorre risaltare alcuni aspetti positivi riscontrabili in seguito e durante il referendum in questione. La campagna, condotta nelle piazze e virtualmente, ha gentilmente costretto i cittadini giovani e meno giovani a informarsi sui temi della carta costituzionale e dei diritti sociali, li ha spinti al dibattito e a creare nuove “agorà” sulle questioni pubbliche. Si è potuto dunque riscontrare che il social, uno strumento nato per tutt’altro fine rispetto alla sensibilizzazione popolare, sia stato adeguatamente strumentalizzato da gruppi consistenti e politicizzati di cittadini attivi. Il risultato che ne è conseguito è l’unificazione dei luoghi di dibattito a livello nazionale (se pur all’interno di un’ottica di divisione tra “fazioni”).

Per quanto concerne il rapporto stilato da Demos e pubblicato sul sito ufficiale, è possibile riscontrare una certa continuità nell’atteggiamento italiano verso ogni tipologia di istituzione o organizzazione. In primo luogo, sempre più grande è la diffidenza nei confronti dei partiti e dei sindacati, considerati dai più uno strumento fallimentare per il cambiamento delle politiche sociali del Paese (le differenze rispetto al 2015 sono evidenti dal grafico). Altro dato interessante è il calo netto di reputazione e fiducia nei confronti delle associazioni imprenditoriali (26 % nel 2015 e 25% nell’anno successivo), evidentemente considerate come categoria lavorativa favorita dalla legislazione in materia di licenziamento dei dipendenti (vedi Jobs Act). Una cifra ancora più sorprendente e indicativa dello status delle austere politiche continentali nei confronti dell’Italia è il calo drastico di riverenza e ottimismo nei confronti delle istituzioni europee. Secondo i sondaggi il cittadino medio italiano, nel giro di 6 anni, è giunto a percentuali di calo di fiducia verso l’Unione Europea pari al 21 %.

Giornali quali Repubblica considerano questo deficit di eurofilia un elemento negativo che, al contrario, per i lettori dell’Intellettuale Dissidente e i suoi redattori, è un fatto positivo e di conferma sull’evidente malfunzionamento del sistema Europa. Sarà per questa ragione che, al contrario, a subire una forte crescita sono i sentimenti localistici, rappresentati dalla crescita di interesse nei confronti delle Regioni (23% nel 2015 e 27% nel 2016) e dei Comuni (32% nel 2015 e 39% nel 2016). Nonostante il calo di fiducia complessivo verso la Chiesa cattolica e le istituzioni religiose, risulta divertente il dato che vede, in vetta alle classifiche, la grande popolarità di Papa Bergoglio, la cui figura è risaltata dai media per la capacità di apertura e dialogo inerente ai temi della laicità.

Risulta abbastanza logico l’aumento di interesse nei confronti del ruolo delle Forze dell’Ordine (dal 68% del 2015 al 71% del 2016) dettato dal bisogno di sicurezza del cittadino alla luce di un clima di emergenza terroristico. Quest’ultimo dato non è sottovalutabile poiché in ipotetici scenari di violenza e terrorismo si potrebbe assistere a un rafforzamento del controllo e dell’autorità militare e poliziesca sul territorio nazionale, con il consenso di cittadini sempre più timorosi di nuovi episodi simili alle stragi del Bataclan e Nizza. Infine, le cifre meno incoraggianti sono quelle riguardanti la diffidenza nei confronti del Parlamento italiano (appena l’11% nel 2016), le quali unite a quelle altrettanto gravi sulla forma “partito” costituiscono un segnale d’allarme, colmo di ambiguità positive.

Se gli italiani rigettano in maniera consistente gli strumenti fondamentali per l’esercizio della democrazia (intesa nel significato non liberale del termine), paradossalmente sembra crescere lo spirito critico e civico che attiene alla capacità di mobilitazione (virtuale e fisica) delle masse. La presa di distanza dei cittadini nei confronti della politica istituzionale è la conseguenza dell’azione di due fattori fondamentali. In primis, gli errori della classe dirigente italiana, la cui corruzione non ha certamente incoraggiato la partecipazione individuale alla dimensione della “polis”. Se, infatti, per le generazioni cresciute nel clima del dopoguerra l’attività politica rappresentava un dovere costituzionale del cittadino, le nuove generazioni hanno iniziato ad alienarsi rispetto a questa concezione (probabilmente perché queste ultime non hanno vissuto personalmente l’importanza della rappresentatività popolare). A ciò si aggiunge la diffidenza crescente, che deriva da una storia italiana di illeciti, frutto di una cultura dell’illegalità ben radicata nel nostro paese. Emblematica è l’ondata di vicende giudiziarie che ha caratterizzato la fine della prima repubblica in Italia, ovvero il caso “Mani pulite”. La scoperta di un sistema di tangenti e finanziamenti illeciti ai partiti (Partito Socialista Italiano, Democrazia Cristiana ecc…) e lo scandalo mediatico che ne è conseguito, hanno minato la fiducia popolare verso le istituzioni. Questa “perdita di fede” nella politica si è inevitabilmente riversata sulle nuove generazioni, sedimentando nella psicologia collettiva il disprezzo e la diffidenza verso lo Stato.

Questo sentimento negativo è certamente amplificato dal secondo fattore preso in considerazione: il cosiddetto old medium televisivo. Se effettivamente l’universo di internet costituisce una garanzia per il pluralismo delle fonti e delle opinioni, il mondo televisivo e giornalistico delle emittenti ufficiali italiane ha spesso fornito visioni unilaterali ed eccessivamente drammatiche per scoraggiare l’audience. Tv, telegiornali di Stato o dei privati hanno frequentemente evidenziato la problematicità e la corruzione dello scenario politico italiano, senza curarsi delle reazioni dell’audience, dello sdegno e del conseguente allontanamento del cittadino dalla galassia dell’attivismo. Ciò lascia supporre che quest’opera di demotivazione indotta, (come di sviamento dell’opinione pubblica), sia una strategia voluta dagli stessi governi e dalle agenzie di comunicazione corrispondenti. Questa è una delle critiche che Danilo Zolo, giurista e filosofo del diritto italiano, muove agli apparati mediatici italiani, europei e occidentali nel suo libro Da cittadini a sudditi. Secondo Zolo, questo scoraggiamento sarebbe volontario, tant’è che egli ipotizza l’idea di una futura società da lui denominata “modello Singapore”:

Una tipologia di società già esistente, (nell’omonima Singapore), la quale consiste nella centralità del modello liberista e del mercato, nell’incremento dell’efficienza produttiva e nell’esistenza di un sistema politico autoritario dalle vesti democratiche

Si potrebbe affermare che la piacevole maschera progressista descritta da Zolo sia l’elemento chiave per la sopravvivenza delle odierne tecnocrazie occidentali, dove il divertimento consumistico risulta prioritario rispetto alle questioni pubbliche. La stessa ideologia atlantica del divertimento aprioristico sembra oramai inquinare la stessa politica, con la spettacolarizzazione e l’esaltazione dei leaderismi in campagna elettorale (tv, radio, web) e la negligenza della sostanza, ovvero le problematiche sociali e la loro risoluzione. Tuttavia, di fronte alle questioni dell’etica e della legalità, oggetto di campagna referendaria (privatizzazione energia, no triv, riforma costituzionale ecc…) non vi è leaderismo o spettacolarizzazione che tenga, non è prevista alcuna riverenza nei confronti di personaggi pubblici, amati o disprezzati da un’opinione pubblica sempre più diffidente. Ecco come l’interesse popolare torna a riemergere, dal momento che l’importanza di determinate tematiche risulta più limpida, per esempio, rispetto alle enigmatiche aspirazioni di un neo-presidente del governo. Ecco, dunque, come i social (realizzati per la “distrazione”, la socializzazione e il divertimento) si trasformano in un efficace strumento di contro-propaganda. Il rapporto di Demos può certamente tornare utile, ma solo diventando osservatori è possibile analizzare le interazioni sociali, gli usi e le abitudini quotidiane del cittadino, (dunque le modalità di approccio del singolo alla vita politica), e cogliere dunque le sfumature di cambiamento fra la politica del passato e quella del futuro. Di fronte a uno scenario dove la principali emittenti nazionali sono ormai governative e l’industria dell’intrattenimento non intende porre un freno alla strategia ludico-manipolatoria, l’attivismo social incentrato sulla sensibilizzazione degli utenti, (e accompagnato da mobilitazioni reali), può rivelarsi un barlume di speranza per il risveglio delle coscienze e la ricostruzione di una comunità politica nazionale.

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