di Savino Balzano
C'è un dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, un olio su tavola della metà del XVI secolo, che esprime in parte quanto stiamo vivendo in questi anni. Guardando l’opera, si apprezza uno scenario di pacata e serena quotidianità: sullo sfondo un pallido sole riscalda tiepidamente le bianche case della città; diverse navi si addentrano nella baia, cariche di ricche merci provenienti da paesi lontani ed esotici, e conducono serenamente i marinai stanchi alle donne perché possano rivivere finalmente quell’amore, inconsapevole di chissà quali segreti custoditi dalla lunga assenza;
il mare appare calmo, sazio, pago e privo di quegli slanci belligeranti e traditori cui a volte si lascia andare; la vegetazione è verdeggiante e florida e convive tenera col resto, senza avere nulla a pretendere dalla vita e dal mondo; in primo piano il contadino si poggia fiducioso all’aratro e solca accomodanti fenditure per i suoi semi, colmi della speranza del raccolto; il pastore conduce il suo gregge e gode all’idea dei guadagni che deriveranno dalla vendita del latte, dei formaggi, della lana; le nuvole scorrono silenziose e le montagne perpetuano la loro noia, noncuranti come colui il quale è troppo grande da poter essere interessato all’uomo e alle sue vicende effimere.
Eppure, a guardare con più attenzione l’opera, ci si rende conto che, nel contesto di una surreale pace indifferente, si consuma una morte carica tragica inumanità: in basso a destra si scorge Icaro che affoga, dopo essere caduto da quel famoso volo vicino al sole, il quale severo col calore dei suoi raggi sciolse la cera di quelle fragili ali costruite dall’ingegno di Dedalo.
Poco di nuovo, penseranno alcuni, dopotutto le dolci note cantavano che ognuno vive dentro i suoi egoismi vestiti di sofismi e che non c’è rivoluzione nell’affermare che alla fine ognuno si faccia gli affaracci propri a dispetto di qualsiasi forma di coesione e solidarietà sociale. Insomma, se Icaro affoga un po’ se l’è cercata: nessuno lo ha costretto a volare così vicino al sole o a librarsi proprio; avrebbe potuto volare basso, in tutti i sensi, o rimanere con i piedi ben piantati a terra.
Ancora si potrebbe opinare che l’indifferenza mostratagli è un po’ giustificata dal fatto che la sua triste fine possa essere evitata dal resto dell’umanità per sé stessa: basta vivere una vita modesta, poco pretenziosa, vanesia o arrogante. In parte forse è vero, seppure in ballo ci sia qualcosa in più della sopravvivenza stessa di Icaro: si, insomma, aldilà della compassione che si possa nutrire per una vita che si spegne, ciò che è in ballo è il mondo che vogliamo, i valori cui decidiamo di ispirare le nostre esistenze, le nostre stesse scelte, il nostro modello culturale.
Veniamo a noi. Il 7 dicembre scorso, in un silenzio quasi surreale (eccezion fatta per qualche sparuto commento apparso sulla stampa) la Corte di Cassazione ha prodotto la sentenza 25201. In maniera molto sintetica, la pronuncia esprime un principio chiaro, ispirato all’art. 41 della Costituzione relativo alla libertà di iniziativa economica, consistente nel riconoscere all’imprenditore il diritto di licenziare un lavoratore per esigenze di profitto. Nella stessa sentenza, inoltre, la Corte stabilisce che non spetti al giudice esprimersi sul merito della valutazione economica delle scelte imprenditoriali, dal momento che il padrone è libero di gestire la sua azienda come gli pare e piace.
Ora, teniamo presente che ad esprimersi sul merito non sia stato un giudice di pace di chissà quale provincia dimenticata da Dio, ma la Corte di Cassazione, che – essendo l’ultimo grado di giudizio previsto dal nostro ordinamento interno – esercita una funzione uniformante. In poche parole, se la Cassazione si esprime secondo un certo orientamento, i giudici di primo e secondo grado tenderanno ad uniformarsi, affinché non si vedano rigettare le pronunce dalla Cassazione in caso di ulteriori ricorsi in terzo grado. È bene sottolineare, ad onore del vero, che la Corte non si sia pronunciata a sezioni unite e che in precedenza essa abbia prodotto pareri con quest’ultimo contrastanti. Tutto qui? Si tratta solo di una sentenza che sottende una vicenda personale, quella di un povero Icaro che possiamo tranquillamente lasciar affogare nell’indifferenza generale?Decisamente no, sarebbe troppo semplice.
È in ballo una scelta, quella di un modello culturale al quale vogliamo definitivamente ispirarci, quella di un modello culturale per il quale dobbiamo decidere di combattere. Che cos’è un licenziamento? In quali casi, quantomeno relativamente al licenziamento economico, pensiamo che il ricorso a tale strumento sia legittimo? Abbiamo dinanzi a noi due modelli: il primo è quello per il quale il licenziamento sia da considerarsi un’estrema ratio, uno strumento cui ricorrere con sofferenza e logoramento interiore, proprio quando altra strada non sia percorribile, quando non vi sia altra via perché la baracca possa restare in piedi; il secondo è quello del licenziamento totalmente liberalizzato e indiscriminato, legato al contenimento dei costi e alla massimizzazione del profitto, allo sgravare l’azienda da voci di costo rimpiazzabili e riconducibili a funzioni spalmabili su altri colleghi, magari caricando di peso i superstiti come fossero cafoni delle campagne cerignolane.
La questione è assai seria e pericolosa. Siamo a un bivio: dobbiamo scegliere se considerare il lavoratore come una persona, con tutte le implicazioni del suo essere umano, oppure come una mera voce di costo da espungere perché si possano utilizzare quei fondi per nuovi complementi d’arredo nell’ufficio dell’Amministratore Delegato.
Questo discorso poi, che inevitabilmente ci spinge a considerare assurda la sentenza in questione, non può essere scollegato dal tema del licenziamento illegittimo. Come molti già sapranno, il 2017 è un anno importante anche per la dura battaglia che la CGIL ha deciso di intraprendere, non da sola dal momento che l’iniziativa è supportata da numerose realtà sindacali esterne alla vecchia confederazione. È stato infatti indetto un referendum abrogativo volto all’eliminazione, tra le altre cose, delle norme che impediscono il reintegro in caso di licenziamento illegittimo.
È davvero stucchevole dover assistere agli interventi che alcuni politici, per la verità quasi tutti del PD, hanno già cominciato a fare nelle varie televisioni. Il leitmotiv è sempre dannatamente lo stesso: pare che un ritorno al passato, alla normativa desueta dello Statuto dei Lavoratori, citata con lo stesso disprezzo di chi parlando masticasse uno spicchio di limone, sia assolutamente insostenibile dal momento che le aziende necessitino di elasticità nella gestione della loro organizzazione produttiva. In TV continuano imperterriti a sostenere, parlando della legge 300 del 1970 (lo Statuto, appunto), che non possiamo certo permetterci di tornare a quarant’anni fa.
Dinanzi ad affermazioni di questo tipo si fa veramente fatica a mantenere la calma: prima di tutto sono considerazioni semplicemente illogiche, basti tener presente che certi diritti non possano essere ritenuti validi in base alla loro età. I diritti civili si affermano in Europa convenzionalmente nel XVII secolo e non per questo ci verrebbe oggi da pensare di abolirli. I principi fondamentali della Costituzione sono entrati in vigore nel 1948 e non per questo ci verrebbe di metterli in discussione oggi, tanto è vero che non possono essere oggetto di revisione costituzionale. Ad ogni modo, oltre ad essere profondamente illogica, un’affermazione di questo tipo è gravemente mendace ed è il caso di ripeterlo fino alla nausea: già la vecchia normativa prevedeva la possibilità di licenziare liberamente, purché sussistessero comprovati motivi soggettivi o oggettivi. L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori serviva solo a garantire il reintegro in caso di licenziamento illegittimo, ossia immotivato. Ora, ammesso che il licenziamento illegittimo garantisca nuovi strumenti utili alle aziende per svilupparsi e creare profitto (e i dati non confermano tale orientamento!), siamo disposti a sacrificare il diritto di una persona a riavere il posto di lavoro in caso di licenziamento immotivato? È questo il punto, è su questo che si gioca lareale battaglia.
La politica, dal canto suo, prova a difendere, con argomentazioni illogiche e mendaci, le sue posizioni creando quella guerra tra poveri che spinge comprensibilmente chi ha fame aconfondere il diritto col privilegio. Facciamo uno sforzo di immaginazione: un tizio viene licenziato perché in ufficio ha inavvertitamente urtato un vaso che cadendo si è rotto. Decide di ricorrere al giudice del lavoro perché sostiene che, per quanto il fatto sussista (in effetti ha sfasciato il vaso), esso fosse involontario e non costituisca motivazione sufficiente al licenziamento. Ebbene, l’attuale normativa, anche qualora il giudice dovesse ravvisare che il lavoratore abbia ragione, non prevede possibilità di riottenere il posto di lavoro: al massimo il lavoratore può sperare in un indennizzo economico. In un caso del genere, il reintegro nel posto di lavoro è da considerarsi un diritto inalienabile o un privilegio sacrificabile?
Concludiamo ricorrendo a un’immagine romantica perché quasi sempre i diritti sono il frutto di una lotta condotta con grande sacrificio da eroi romantici, spesso a costo della stessa vita. Poi il romanticismo non va più di moda e forse dobbiamo cercare di restaurarlo, proprio come i diritti. Oggi è necessario essere coraggiosi per professarsi romantici, proprio come coraggioso deve essere l’uomo disposto a lottare per i propri diritti. È dolce quindi pensare che il diritto sia come un raggio di sole: il fatto che abbronzi il viso di qualcuno, non comporta che non ne possa godere anche qualcun altro
Veniamo a noi. Il 7 dicembre scorso, in un silenzio quasi surreale (eccezion fatta per qualche sparuto commento apparso sulla stampa) la Corte di Cassazione ha prodotto la sentenza 25201. In maniera molto sintetica, la pronuncia esprime un principio chiaro, ispirato all’art. 41 della Costituzione relativo alla libertà di iniziativa economica, consistente nel riconoscere all’imprenditore il diritto di licenziare un lavoratore per esigenze di profitto. Nella stessa sentenza, inoltre, la Corte stabilisce che non spetti al giudice esprimersi sul merito della valutazione economica delle scelte imprenditoriali, dal momento che il padrone è libero di gestire la sua azienda come gli pare e piace.
Ora, teniamo presente che ad esprimersi sul merito non sia stato un giudice di pace di chissà quale provincia dimenticata da Dio, ma la Corte di Cassazione, che – essendo l’ultimo grado di giudizio previsto dal nostro ordinamento interno – esercita una funzione uniformante. In poche parole, se la Cassazione si esprime secondo un certo orientamento, i giudici di primo e secondo grado tenderanno ad uniformarsi, affinché non si vedano rigettare le pronunce dalla Cassazione in caso di ulteriori ricorsi in terzo grado. È bene sottolineare, ad onore del vero, che la Corte non si sia pronunciata a sezioni unite e che in precedenza essa abbia prodotto pareri con quest’ultimo contrastanti. Tutto qui? Si tratta solo di una sentenza che sottende una vicenda personale, quella di un povero Icaro che possiamo tranquillamente lasciar affogare nell’indifferenza generale?Decisamente no, sarebbe troppo semplice.
È in ballo una scelta, quella di un modello culturale al quale vogliamo definitivamente ispirarci, quella di un modello culturale per il quale dobbiamo decidere di combattere. Che cos’è un licenziamento? In quali casi, quantomeno relativamente al licenziamento economico, pensiamo che il ricorso a tale strumento sia legittimo? Abbiamo dinanzi a noi due modelli: il primo è quello per il quale il licenziamento sia da considerarsi un’estrema ratio, uno strumento cui ricorrere con sofferenza e logoramento interiore, proprio quando altra strada non sia percorribile, quando non vi sia altra via perché la baracca possa restare in piedi; il secondo è quello del licenziamento totalmente liberalizzato e indiscriminato, legato al contenimento dei costi e alla massimizzazione del profitto, allo sgravare l’azienda da voci di costo rimpiazzabili e riconducibili a funzioni spalmabili su altri colleghi, magari caricando di peso i superstiti come fossero cafoni delle campagne cerignolane.
La questione è assai seria e pericolosa. Siamo a un bivio: dobbiamo scegliere se considerare il lavoratore come una persona, con tutte le implicazioni del suo essere umano, oppure come una mera voce di costo da espungere perché si possano utilizzare quei fondi per nuovi complementi d’arredo nell’ufficio dell’Amministratore Delegato.
Questo discorso poi, che inevitabilmente ci spinge a considerare assurda la sentenza in questione, non può essere scollegato dal tema del licenziamento illegittimo. Come molti già sapranno, il 2017 è un anno importante anche per la dura battaglia che la CGIL ha deciso di intraprendere, non da sola dal momento che l’iniziativa è supportata da numerose realtà sindacali esterne alla vecchia confederazione. È stato infatti indetto un referendum abrogativo volto all’eliminazione, tra le altre cose, delle norme che impediscono il reintegro in caso di licenziamento illegittimo.
È davvero stucchevole dover assistere agli interventi che alcuni politici, per la verità quasi tutti del PD, hanno già cominciato a fare nelle varie televisioni. Il leitmotiv è sempre dannatamente lo stesso: pare che un ritorno al passato, alla normativa desueta dello Statuto dei Lavoratori, citata con lo stesso disprezzo di chi parlando masticasse uno spicchio di limone, sia assolutamente insostenibile dal momento che le aziende necessitino di elasticità nella gestione della loro organizzazione produttiva. In TV continuano imperterriti a sostenere, parlando della legge 300 del 1970 (lo Statuto, appunto), che non possiamo certo permetterci di tornare a quarant’anni fa.
Dinanzi ad affermazioni di questo tipo si fa veramente fatica a mantenere la calma: prima di tutto sono considerazioni semplicemente illogiche, basti tener presente che certi diritti non possano essere ritenuti validi in base alla loro età. I diritti civili si affermano in Europa convenzionalmente nel XVII secolo e non per questo ci verrebbe oggi da pensare di abolirli. I principi fondamentali della Costituzione sono entrati in vigore nel 1948 e non per questo ci verrebbe di metterli in discussione oggi, tanto è vero che non possono essere oggetto di revisione costituzionale. Ad ogni modo, oltre ad essere profondamente illogica, un’affermazione di questo tipo è gravemente mendace ed è il caso di ripeterlo fino alla nausea: già la vecchia normativa prevedeva la possibilità di licenziare liberamente, purché sussistessero comprovati motivi soggettivi o oggettivi. L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori serviva solo a garantire il reintegro in caso di licenziamento illegittimo, ossia immotivato. Ora, ammesso che il licenziamento illegittimo garantisca nuovi strumenti utili alle aziende per svilupparsi e creare profitto (e i dati non confermano tale orientamento!), siamo disposti a sacrificare il diritto di una persona a riavere il posto di lavoro in caso di licenziamento immotivato? È questo il punto, è su questo che si gioca lareale battaglia.
La politica, dal canto suo, prova a difendere, con argomentazioni illogiche e mendaci, le sue posizioni creando quella guerra tra poveri che spinge comprensibilmente chi ha fame aconfondere il diritto col privilegio. Facciamo uno sforzo di immaginazione: un tizio viene licenziato perché in ufficio ha inavvertitamente urtato un vaso che cadendo si è rotto. Decide di ricorrere al giudice del lavoro perché sostiene che, per quanto il fatto sussista (in effetti ha sfasciato il vaso), esso fosse involontario e non costituisca motivazione sufficiente al licenziamento. Ebbene, l’attuale normativa, anche qualora il giudice dovesse ravvisare che il lavoratore abbia ragione, non prevede possibilità di riottenere il posto di lavoro: al massimo il lavoratore può sperare in un indennizzo economico. In un caso del genere, il reintegro nel posto di lavoro è da considerarsi un diritto inalienabile o un privilegio sacrificabile?
Concludiamo ricorrendo a un’immagine romantica perché quasi sempre i diritti sono il frutto di una lotta condotta con grande sacrificio da eroi romantici, spesso a costo della stessa vita. Poi il romanticismo non va più di moda e forse dobbiamo cercare di restaurarlo, proprio come i diritti. Oggi è necessario essere coraggiosi per professarsi romantici, proprio come coraggioso deve essere l’uomo disposto a lottare per i propri diritti. È dolce quindi pensare che il diritto sia come un raggio di sole: il fatto che abbronzi il viso di qualcuno, non comporta che non ne possa godere anche qualcun altro
fonte: L'Intellettuale Dissidente
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