La legge di conversione del decreto legge IMU Bankitalia appare incostituzionale.
Anzitutto vi è stata violazione del diritto della opposizione del M5S di svolgere le proprie ragioni opponendosi al provvedimento, secondo le regole della Costituzione e il regolamento della Camera. La cd tagliola è incostituzionale, perchè elimina il diritto della opposizione di motivare il suo voto contrario.
La opposizione è parte essenziale della democrazia , i cui diritti vanno rispettati. Diversamente siamo in una situazione di regime cioè di dittatura della maggioranza. E stupisce che alcuni dei guardiani della Costituzione tacciano su questo aspetto gravissimo del vero e proprio colpo di mano del Presidente della Camera Laura Boldrini che ha impedito al M5S di motivare la sua opposizione sacrosanta di fronte a dl illegittimo, per difetto, almeno in parte, del requisito di necessità e urgenza.
Ma illegittimo anche in relazione al diritto dovere di spiegare le ragioni del no rispetto ad un decreto che prevede una spesa enorme e affronta temi gravi e complessi, di cui il popolo ignora il contenuto reale. La Presidente della Camera sa che la democrazia non dà tutto il potere a nessuno, ma lo distribuisce variamente a maggioranza e minoranza , che trapassano l’una nell’altra proprio perchè, come insegna Aristotele, l’alternanza è l’essenza della democrazia e prova della libertà.
“Nel contesto costituzionale , tirannide della maggioranza è violare, legiferando e governando, i diritti della minoranza”, insegna Giovanni Sartori. Per cui la legge di conversione approvata il 29 gennaio è incostituzionale . Inoltre la parte del decreto legge IMUBankitalia che riguarda la cd ricapitalizzazione di Bankitalia per 7.5 miliardi di euro si tradurrà nel finanziamento illecito , attraverso Bankitalia , di istituti di credito in crisi, cioè in una donazione di enormi somme di denaro alle banche azioniste che controllano Bankitalia. Che sono Intesa San Paolo (42%), Unicredit (22,11%), MPS (4,60%), INPS (5.00 %), Carige ( 4,03%) e altre banche.
Questa parte del dl , che riguarda Bankitalia, sembra del tutto estranea al DL sull’ IMU, che è imposta sulla prima casa, per la quale poteva essere giustificata la situazione straordinaria di necessità e urgenza ex art 77 sec comma della Costituz. Situazione che non si giustifica con la “ricapitalizzazione”, di Bankitalia.
La verità è che l’Italia con 1,7 trilioni di euro di debito versa in uno stato di disperazione. E se fino ad oggi la BCE ha comprato titoli italiani alleggerendo la pressione sul debito, per l’avvenire la BCE non potrà più continuare a comperare i titoli . Nel 2014 le banche italiane dovranno ridurre l’acquisto del debito italiano, ma i nodi sono venuti al pettine. I soldi le banche li hanno ottenuti attraverso il decreto IMUBANKITALIA a spese dei cittadini su cui graverà il costo finale di questa operazione.
Si tratta di un decreto truffa che vuole cose diverse da quelle che dice: apparentemente ricapitalizzare Bankitalia, che dovrebbe essere patrimonio degli italiani, invece vuole finanziare le banche in crisi , ex banche pubbliche divenute private, che controllano Bankitalia , di cui sono proprietarie.
Questo è il problema. Che fare?
La prima cosa è che il Presidente della Repubblica ai sensi dell’art 74 della Costituzione, prima di promulgare la legge di conversione, chieda con messaggio motivato alle Camere, una nuova deliberazione ( art 74 Costituzione), e come ha già rilevato in relazione al decreto milleproroghe, chieda lo stralcio dei due provvedimenti.
Ma questo è il primo passo da compiere, a mio modesto avviso. Poi in sede di applicazione del decreto IMU, si potrà eccepire davanti al giudice la incostituzionalità della legge di conversione. Purtroppo i cittadini non possono adire direttamente la Corte Costituzionale.
Poveri cocchi, tutti in fila attraverso Buchenwald... Non lo sapevate? Eppure è scritto così chiaro!
Sì, lo so, Mundell non era "de sinistra". Però non era nemmeno un imbecille (comincio a pensare che ci sia un nesso). Quindi capiva che in una unione monetaria fra paesi diversi il recupero di competitività nel breve periodo passa per il taglio dei salari, e questo taglio non è possibile senza un drastico aumento della disoccupazione. La disoccupazione è già aumentata, però. Ora resta il taglio dei salari, per chi ci sta. Chi non ci sta va ad aumentare ulteriormente la disoccupazione, e l'azienda se ne va in Polonia, grazie alla simpatica mobilità dei capitali, che l'integrazione finanziaria europea favorisce.
Questo è il sistema che avete voluto voi, il sistema che affratella i popoli europei (come ancora qualcuno raglia durante le mie conferenze).
Certo, sì, lo so, nemmeno Keynes era "de sinistra", ma nemmeno lui era un imbecille. Guardate cosa dice di Winston Churchill:
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"Chi vuole un fine vuole anche i mezzi per raggiungerlo". Volevate il fine superiore dell'unificazione monetaria europea? Bene: allora dovete volere anche i mezzi per raggiungerlo: disoccupazione, tagli dei salari, deportazioni... pardon: emigrazione. Strano, eh? Appena qualcuno si mette in testa un fine superiore, qualcun altro deve fare le valigie (se gli danno il tempo di farle).
Cari utili idioti, ricordatevi: gli utili idioti di qualsiasi regime sono utili finché dura il regime. Quanto potrà mai durare questa storia?
E tanto per farvi capire come va a finire quando uno nasconde la testa nella sabbia, come lo struzzo, vi dico che ieri, girando per il web a seguito delle tristi riflessioni che questa vicenda paradigmatica evocava, ho scoperto la parola "bandierista". Quello che poi gli è successo non se lo meritavano nemmeno loro, nessuno può meritare un orrore simile, un orrore che qualcuno ricorda 365 giorni l'anno. L'Europa che state ricostruendo è l'Europa della deflazione e della disoccupazione di massa, è l'Europa che ha reso possibili questi orrori. In nome di un qualunque Dio, vi prego, aprite gli occhi..
«Si vuole evitare che, anche in caso di uscita dell’Italia dall’euro, il paese possa tornare ad esercitare in futuro la piena sovranità monetaria con una banca nazionale attiva». Per l’economista Nino Galloni, già docente alla Cattolica di Milano, all’università di Modena e alla Luiss, il vero obiettivo della manovra che ha fatto indignare i grillini – la “ghigliottina” di Laura Boldrini che taglia il dibattito in aula per impedire di discutere un decreto-truffa, truccato da provvedimento anti-Imu – è l’amputazione (anche per il futuro) della sovranità monetaria nazionale, cioè la capacità teorica di Bankitalia di tornare un giorno ad essere il “bancomat del Tesoro”, permettendo al governo di fare spesa pubblica per investire in occupazione e risollevare l’economia nazionale, finanziando investimenti con sano debito pubblico sovrano. In altre parole: chi “consegna” definitivamente la banca centrale al credito privato vuole mettere una pietra tombale sulla libertà democratica del paese.
Il decreto-vergogna, dice Galloni ad Alessandro Bianchi in un’intervista su “L’antidiplomatico”, è stato approvato grazie all’inaudita “tagliola” della Boldrini, per imporre una rivalutazione delle quote di Bankitalia, ferme ai 156.000 euro di valore del 1936. Così, il capitale di riserva passerà a 7,5 miliardi di euro. E agli azionisti – principalmente banche private – sarà garantito un dividendo del 6%, quindi fino a 450 milioni di euro di profitti l’anno. Infine, le quote della Banca d’Italia potranno essere vendute a soggetti stranieri, purché comunitari. Ma l’ennesimo regalo alle banche disposto dal governo Letta nasconde un disegno ancora più pericoloso: la vera posta in gioco, sottolinea Galloni, è la fine (definitiva) della sovraniotà italiana. «Mentre oggi con un capitale di 156.000 euro sarebbe piuttosto agevole rendere nuovamente pubblica la banca centrale e salvare anche le nostre lire, con il decreto deciso dal governo Letta diventa praticamente impossibile».
Per ripristinare la sovranità monetaria, aggiunge Galloni, in caso di uscita dall’euro «l’unica soluzione sarebbe creare una nuova Banca d’Italia», operazione ovviamente «molto complessa». Se non altro, si consola l’economista, «la vicenda è un segnale di forte debolezza da parte di chi oggi combatte per sostenere l’euro», non-moneta sempre più indifendibile. Per questo, Palazzo Chigi – che di fatto si limita ad eseguire i diktat neoliberisti che l’élite oligarchico-finanziaria affida alla Troika – vuole assolutamente evitare che lo Stato possa tornare nelle condizioni di poter finanziare il proprio sviluppo. Un dettaglio determinante, infatti, riguarda il caso del Monte dei Paschi di Siena. Il suo presidente, Alessandro Profumo, ha appena dichiarato che, senza una immediata ricapitalizzazione di Mps, salta tutto il sistema bancario italiano. «Traduzione: se non si fa la ricapitalizzazione e Mps diventa pubblica comprerà il denaro dalla Bce allo 0,25%, lo rivenderà allo Stato allo 0,30% e, quindi, quella differenziale di guadagno che oggi hanno le banche dai tassi d’interesse sui titoli di Stato e lo 0,25% non lo ricaveranno più».
Obiettivo strategico del decreto messo a punto da Saccomanni per conto del governo Letta-Napolitano: impedire allo Stato di riappropriarsi della sua sovranità monetaria, condizione indispensabile per poter affrontare la crisieconomica prodotta dall’Eurozona. «La vera battaglia in corso non è solo tra pro-euro o anti-euro», dice Galloni, ma ormai coinvolge anche «lo scenario che abbiamo in mente in caso di uscita dalla moneta unica». Ovvero: «Lo si farà ripristinando la sovranità monetaria e degli Stati o rimanendo schiavi con monete diverse dall’euro?». Oggi, il fronte anti-euro non è ancora una realtà omogenea: si divide tra chi vuole uscire dall’euro a qualunque costo e chi invece vorrebbe farlo ripristinando la sovranità monetaria. «E l’obiettivo, oggi, è tagliare la strada a questi ultimi ed evitare che il giorno dopo che salta l’euro, magari nei modi più imprevedibili, lo Stato possa tornare ad esercitare la piena sovranità monetaria».
Un’uscita confusa dalla moneta unica – cioè senza il ripristino della piena facoltà di spesa da parte dello Stato grazie alla libera emissione di valuta – è destinata a produrre «conseguenze che non si possono oggi prevedere, ma gravi». Nino Galloni sostiene che dovremmo prendere a modello la Gran Bretagna, l’Australia e anche gli Usa. Di fatto, in tutto il mondo, «solo la vecchia Europa ha deciso di abdicare alla propria sovranità monetaria: non è da tutti avere rinunciato ad una funzione così essenziale». Quantomeno, nonostante la disinformazione “militare” organizzata dai media mainstream, l’opinione pubblica si è mobilitata, grazie anche alla ferma opposizione condotta dal M5S. C’è da augurarsi che il governo venga travolto dalle polemiche e faccia retromarcia. «Ora che è stata raggiunta una piena consapevolezza è importante proseguire in questa azione», dice Galloni. «Per il “Movimento 5 Stelle” sarebbe una vittoria mediatica importante, in risposta a tutti coloro che l’accusano di muoversi solo su questioni secondarie». Questa, al contrario, «è una vicenda di fondamentale importanza per il futuro del nostro paese».
Il golpe non è avvenuto ieri sera. Il golpe è avvenuto stamattina.
In Commissione Affari Costituzionali, secondo i giornali, "è stato approvato il testo della legge elettorale": non è vero. Nello spazio di pochi secondi, il Presidente della Commissione ha avocato a sé il ruolo di relatore in aula, e ha fatto approvare il testo arrivato da Renzusconi senza alcuna discussione né tantomeno alcuna votazione.
Il tutto in mezzo alle proteste del MoVimento 5 Stelle, che ha chiesto il conteggio dei voti, che non è avvenuto. Il Presidente è scappato. I parlamentari non hanno praticamente avuto alcuna possibilità di discutere o emendare il testo di legge, che va in aula così com'è.
Intanto, i "grillini" vengono dipinti dall'informazione come i sabotatori della democrazia.
Quale democrazia? E' morta stamattina. Il Parlamento non esiste più.
Questa mattina, 30 gennaio 2014, il MoVimento 5 Stelle ha presentato la:
DENUNCIA PER LA MESSA IN STATO D'ACCUSA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, CONCERNENTE IL REATO DI ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
Il Presidente della Repubblica, On. Giorgio Napolitano, nell'esercizio delle sue funzioni, ha violato - sotto il profilo oggettivo e soggettivo, e con modalità formali ed informali - i valori, i principi e le supreme norme della Costituzione repubblicana. Il compimento e l'omissione di atti e di fatti idonei ad impedire e a turbare l'attività degli organi costituzionali, imputabili ed ascrivibili all'operato del Presidente della Repubblica in carica, ha determinato una modifica sostanziale della forma di stato e di governo della Repubblica italiana, delineata nella Carta costituzionale vigente. Si rilevano segnatamente, a seguire, i principali atti e fatti volti a configurare il reato di attentato alla Costituzione, di cui all'articolo 90 Cost.
1. Espropriazione della funzione legislativa del Parlamento e abuso della decretazione d'urgenza
La nostra Carta costituzionale disegna una forma di governo parlamentare che si sostanzia in un saldo rapporto tra Camere rappresentative e Governo. La prevaricazione governativa assoluta, caratterizzata da decretazione d'urgenza, fiducie parlamentari e maxiememendamenti configura, piuttosto, un ordinamento altro e diverso che non conosce più il principio supremo della separazione dei poteri. Il predominio legislativo da parte del Governo, attraverso decreti legge, promulgati dal Presidente della Repubblica, viola palesemente sia gli articoli 70 e 77 della Costituzione, sia le norme di primaria rilevanza ordinamentale (quale la Legge n. 400 del 1988), sia numerose sentenze della Corte costituzionale (tra tutte: sentenza n. 29 del 1995, n. 22 del 2012 e n. 220 del 2013). Ma al di là del pur impressionante aspetto quantitativo che, comunque, sotto il profilo del rapporto costituzionale tra Parlamento e Governo assume fortissima rilevanza, è necessario rimarcare, parallelamente, una preoccupante espansione della loro portata, insita nei contenuti normativi e, soprattutto, nella loro eterogeneità.
Aspetto ulteriormente grave è la reiterazione, attraverso decreto- legge, di norme contenute in altro decreto-legge, non convertito in legge. La promulgazione, da parte del Presidente della Repubblica, di simili provvedimenti è risultata in palese contrasto con la nota sentenza della Corte costituzionale n. 360 del 1996, che ha rilevato come «il decreto- legge reiterato - per il fatto di riprodurre (nel suo complesso o in singole disposizioni), il contenuto di un decreto-legge non convertito, senza introdurre variazioni sostanziali - lede la previsione costituzionale sotto più profili».
La forma di governo parlamentare, alla luce dell'attività normativa del Governo, pienamente avallata dalla connessa promulgazione da parte del Presidente della Repubblica, si è sostanzialmente trasformata in «presidenziale» o «direttoriale», in cui il ruolo costituzionale del Parlamento è annientato in nome dell'attività normativa derivante dal combinato Governo-Presidenza della Repubblica.
2. Riforma della Costituzione e del sistema elettorale
Il Presidente della Repubblica ha formalmente e informalmente incalzato e sollecitato il Parlamento all'approvazione di un disegno di legge costituzionale volto a configurare una procedura straordinaria e derogatoria del Testo fondamentale, sia sotto il profilo procedimentale che sotto quello degli organi deputati a modificare la Costituzione repubblicana.
In particolare, il disegno di legge costituzionale governativo presentato alle Camere il 10 giugno 2013, sulla base dell'autorizzazione da parte del Capo dello Stato, istituiva una procedura di revisione costituzionale in esplicita antitesi sia rispetto all'art. 138 Cost., sia rispetto all'art. 72, quarto comma, della Costituzione che dispone: «La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale».
Il Capo dello Stato ha, dunque, promosso l'approvazione di una legge costituzionale derogatoria, tra le altre, della norma di chiusura della Costituzione - ovvero l'art. 138 Cost. - minando uno dei principi cardine del nostro ordinamento costituzionale: la sua rigidità. Egli ha tentato di trasformare la nostra Carta in una Costituzione di tipo flessibile. Flessibilità che, transitivamente, si sarebbe potuta ritenere espandibile, direttamente ed indirettamente, alla Prima Parte della Costituzione repubblicana, in cui sono sanciti i principi fondamentali della convivenza civile del nostro ordinamento democratico.
Il Presidente della Repubblica ha, inoltre, in data 24 ottobre 2013, nel corso dell'esame parlamentare riferito alla riforma della legge elettorale, impropriamente convocato alcuni soggetti, umiliando istituzionalmente il luogo naturalmente deputato alla formazione delle leggi. Si tratta, segnatamente, del Ministro per le Riforme Costituzionali, del Ministro per i Rapporti con il Parlamento e Coordinamento delle Attività di Governo, dei Presidenti dei Gruppi Parlamentari "Partito Democratico", "Popolo della Libertà" e "Scelta Civica per l'Italia" del Senato della Repubblica, e del Presidente della Commissione Permanente Affari Costituzionali del Senato.
3. Mancato esercizio del potere di rinvio presidenziale
Il Presidente della Repubblica, recita l’articolo 74 della Costituzione, prima di promulgare un progetto approvato dalle due Camere, può rinviarlo al mittente, chiedendo una nuova deliberazione. Il rinvio presidenziale costituisce una funzione di controllo preventivo, posto a garanzia della complessiva coerenza del sistema costituzionale.
Spiccano, con evidenza, alcuni mancati e doverosi interventi di rinvio presidenziale, connessi a norme viziate da incostituzionalità manifesta.
Possono, in particolare, evidenziarsi sia con riferimento alla legge n. 124 del 2008 (c.d. «Lodo Alfano»), sia con riguardo alla legge n. 51 del 2010 (c.d. «Legittimo impedimento»). Nel primo caso, le violazioni di carattere costituzionale commesse ad opera della Presidenza della Repubblica sono risultate duplici, stante sia l'autorizzazione alla presentazione alle Camere del disegno di legge governativo, sia la sua relativa promulgazione; norma, questa, dichiarata integralmente incostituzionale dalla Consulta con sentenza n. 262 del 2009. Nel secondo caso, la legge promulgata è stata dichiarata parzialmente illegittima dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 23 del 2011 ed integralmente abrogata con referendum popolare del giugno 2011.
4. Seconda elezione del Presidente della Repubblica
Ai sensi dell'articolo 85, primo comma, della Costituzione «Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni». É, dunque, evidente che il testo costituzionale non contempla la possibilità dello svolgimento del doppio mandato da parte del Capo dello Stato.
A tal riguardo, il Presidente Ciampi ebbe a dichiarare che: «Il rinnovo di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato».
In definitiva, anche in occasione della sua rielezione, il Presidente della Repubblica - accettando il nuovo e doppio incarico - ha violato la forma e la sostanza del testo costituzionale, connesso ai suoi principi fondamentali.
5. Improprio esercizio del potere di grazia
L'articolo 87 della Costituzione assegna al Presidente della Repubblica la possibilità di concedere la grazia e di commutare le pene. La Corte costituzionale ha sancito, a tal riguardo, con sentenza n. 200 del 2006, che tale istituto trova supporto costituzionale esclusivamente al fine di «mitigare o elidere il trattamento sanzionatorio per eccezionali ragioni umanitarie».
Viceversa, in data 21 dicembre 2012, il Capo dello Stato ha firmato il decreto con cui è stata concessa al direttore del quotidiano "Il Giornale", dott. Sallusti, la commutazione della pena detentiva ancora da espiare nella corrispondente pena pecuniaria. A sostegno di tale provvedimento presidenziale, il Quirinale ha «valutato che la volontà politica bipartisan espressa in disegni di legge e sostenuta dal governo, non si è ancora tradotta in norme legislative».
Analogamente, il Presidente della Repubblica, in data 5 aprile 2013 ha concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano, in relazione alla condanna alla pena della reclusione e alle pene accessorie inflitta con sentenza della Corte d'Appello di Milano del 15 dicembre 2010. La Presidenza della Repubblica ha reso noto che, nel caso concreto, «l'esercizio del potere di clemenza ha così ovviato a una situazione di evidente delicatezza sotto il profilo delle relazioni bilaterali con un Paese amico».
Con nota del 13 agosto 2013, inoltre, il Presidente della Repubblica ha impropriamente indicato le modalità dell'esercizio del potere di grazia, con riferimento alla condanna definitiva del dottor Berlusconi, a seguito di sentenza penale irrevocabile relativa a gravissimi reati.
Dunque, anche con riguardo agli istituti di clemenza, il potere nelle mani del Capo dello Stato ha subito una palese distorsione, ai fini risolutivi di controversie relative alla politica estera ed interna del Paese.
6. Rapporto con la magistratura: Processo Stato - mafia
Anche nell'ambito dei rapporti con l'ordine giudiziario i comportamenti commissivi del Presidente della Repubblica si sono contraddistinti per manifeste violazioni di principi fondamentali della nostra Carta costituzionale, con riferimento all'autonomia e all'indipendenza della magistratura da ogni altro potere statuale. La Presidenza della Repubblica, attraverso il suo Segretario generale, in data 4 aprile 2012, ha inviato al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione una lettera nella quale si chiedevano chiarimenti sulla configurabilità penale della condotta di taluni esponenti politici coinvolti nell’indagine concernente la trattativa Stato-mafia e, addirittura, segnalando l’opportunità di raggiungere una visione giuridicamente univoca tra le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta. Inoltre, il Presidente della Repubblica ha sollevato Conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo, in merito ad alcune intercettazioni telefoniche indirette riguardanti lo stesso Capo dello Stato. Tale iniziativa presidenziale, fortemente stigmatizzata anche da un presidente emerito della Corte costituzionale, ha mostrato un grave atteggiamento intimidatorio nei confronti della magistratura, oltretutto nell'ambito di un delicatissimo procedimento penale concernente la presunta trattativa tra le istituzioni statali e la criminalità organizzata. Sempre con riferimento al suddetto procedimento penale, il Presidente della Repubblica ha inviato al Presidente della Corte di Assise di Palermo una missiva, al fine di sottrarsi alla prova testimoniale. In particolare egli ha auspicato che la Corte potesse valutare «nel corso del dibattimento a norma dell'art. 495, comma 4, c.p.p. il reale contributo che le mie dichiarazioni, sulle circostanze in relazione alle quali è stata ammessa la testimonianza, potrebbero effettivamente arrecare all'accertamento processuale in corso».
Il Presidente della Repubblica in carica non sta svolgendo, dunque, il suo mandato, in armonia con i compiti e le funzioni assegnatigli dalla Costituzione e rinvenibili nei suoi supremi principi. Gli atti e i fatti summenzionati svelano la commissione di comportamenti sanzionabili, di natura dolosa, attraverso cui il Capo dello Stato ha non solo abusato dei suoi poteri e violato i suoi doveri ma, nei fatti, ha radicalmente alterato il sistema costituzionale repubblicano.
Pertanto, ai sensi della Legge 5 giugno 1989, n. 219, è quanto mai opportuna la presente denuncia, volta alla messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica per il reato di attentato alla Costituzione.
Cercano di addossare al Movimento 5 Stelle, facendo evidente disinformazione, l'eventuale pagamento dell'IMU a carico dei cittadini Italiani. Gente .... siate vigili e informati. Ecco come Mentana, facendo vera informazione, smonta le loro teorie.
«Povero Renzi, non ha ancora capito che, se mai andrà al governo, non potrà comandare». Idem gli altri “volti nuovi” (o semi-nuovi) della politica, da Vendola fino al leghista Salvini, tutti «destinati a vedere vanificate le loro riforme: che siano di destra o di sinistra, sono accomunati dallo stesso destino. Perché il vero potere è altrove. Così vicino, eppure invisibile», incarnato dagli uomini dislocati a Roma dal vero dominus dell’Italia, Mario Draghi. Secondo Marcello Foa, se la Seconda Repubblica ha portato ad esecutivi più longevi ma non troppo stabili – Berlusconi, Prodi – fino al super-tecnocrate Monti e alle larghe intese di Letta, è per via del «male endemico che però non spiega la cronica inefficienza dei governi», a cui è stato impedito di cambiare la politica. Chi frena? Per capirlo, si tratta di scoprire «chi ha in mano l’apparato del governo, chi pubblica sulla Gazzetta Ufficiale disposizioni di legge illogiche, incongruenti, contraddittorie al punto da vanificare, casualmente, la riforma generando sconcerto nell’opinione pubblica, che naturalmente se la prende con i soliti partiti».
La spiegazione: «Chi ha la facoltà di velocizzare o di rallentare l’immenso apparato dello Stato: le persone che hanno questa facoltà esistono e possiedono le chiavi del potere», scrive Foa in un post sul “Giornale”, citando un articolo di “Italia Oggi” del maggio scorso, firmato da Roberto Narduzzi. Titolo: “Draghi ha già piazzato i suoi uomini in tutti i posti chiave dell’economia”. Per attivare lo scudo anti-spread, scrive Narduzzi, occorre «offrire garanzie manageriali ai prestatori che devono di fatto approvare la qualità della squadra italica chiamata a gestire il programma». Draghi lo sa bene, aggiunge “Italia Oggi”, e non ha perso tempo: «Non è affatto casuale l’arrivo di uomini di Bankitalia ai posti chiave della finanza pubblica. Fabrizio Saccomanni come ministro dell’economia e Daniele Franco alla Ragioneria dello Stato». Sono «persone di qualità e di cui Draghi si fida», ovvero «persone giuste per interagire con la Bce, il Fmi o la Commissione se l’attivazione dello scudo si fa realtà». Altre pedine strategiche: alla direzione generale del Tesoro un certo Vincenzo La Via, proveniente dalla Banca Mondiale, e all’Agenzia delle Entrate un tecnocrate come Attilio Befera, «molto stimato da Draghi». A questo punto, «soltanto il bilancio dell’Inps, oggetto di feroci critiche per Inpdap ed esodati, sfugge al controllo tecnico di un Draghi boy».
Il “vero premier italiano”, quello che governa dall’Eurotower Bce di Francoforte in perfetta sintonia con Napolitano, ha messo a punto ogni casella chiave per gestire gli effetti operativi dell’attivazione italiana dello scudo anti-spread, osserva Foa, rileggendo “Italia Oggi”. «Il tono dell’articolo è compiaciuto e compiacente. Come dire: bravo Draghi!». Con questi sistemi, aggiunge Foa, si governano le istituzioni grazie a «tecniche di occupazione del potere», vanificando ogni dialettica politica fondata sul confronto democratico, grazie al super-potere di «membri altolocati delle élite che contano davvero». Lo conferma un altro servizio, firmato da Andrea Cangini sul “Quotidiano Nazionale”: “Leggi e governanti ‘ostaggio dei tecnici’. Così i grandi burocrati guidano la politica”. «Lo Stato sono loro», taglia corto l’ex ministro Altero Matteoli, «e la repubblica è appesa alle loro decisioni». Destra e sinistra non contano, di fronte al potere dei super-burocrati: ragioniere generale dello Stato, capi di gabinetto, direttori di dipartimento, capi dell’ufficio legislativo dei ministeri più importanti. «Hanno dunque in pugno il paese, e da quasi vent’anni sono sempre gli stessi», restando nel recinto di «una casta chiusa, irresponsabile ed autoreferenziale».
Osserva ancora Cangini: sono 15-20 individui, sempre quelli. «Il più noto è Vincenzo Fortunato, ex Tar, più di 500.000 euro di stipendio l’anno fino a poco tempo fa». I super-tecnocrati nostrani «sono il vero e inamovibile potere italiano», sintetizza un ex ministro diessino, confortato da un suo omologo ex forzista. Entrambi sostengono che le bollinature, cioè il via libera contabile della Ragioneria ad ogni provvedimento di spesa, «vengono concesse solo se il provvedimento rientra nella ‘visione’ politica del ragioniere generale. In caso contrario vengono negate o subordinate a scelte ‘politiche’ diverse». C’è un’altra cosa su cui i due ex ministri, pur di opposti schieramenti, concordano: «I burocrati ministeriali scrivono le norme e gestiscono le informazioni in maniera iniziatica, in modo da risultare indispensabili». Un monopolio difficile da scalfire, chiosa Foa. «Capito chi governa davvero l’Italia?». Loro, gli yes-men che rispondono al signore della Bce, privatizzatore del sistema bancario italiano, uomo del Bilderberg e della Goldman Sachs nonché esponente del Gruppo dei Trenta, vera e propria cupola del super-potere finanziario mondiale attraverso cui l’élite planetaria domina il nostro destino.
Era solo questione di tempo, e come prevedibile arriva il cortocircuito.
1) A novembre 2013 Serracchiani inizia la campagna elettorale delle primarie per Renzi; 2) A dicembre 2013 Serracchiani entra nella segreteria di Renzi; 3) Le linee di politica economica di Renzi sono quelle esposte daDavide Serra : competitività e taglio salari; hanno un senso logico, in un sistema votato alla produzione per l'export. Serra non usa tanti giri di parole.
(in Friuli a Dicembre ne abbiamo discusso ampiamente qui , in presenza anche di un parlamentare del partito di Serracchiani e Renzi) 4) A gennaio 2013 Electrolux annuncia tagli ai salari del 40% e probabile chiusura dello stabilimento in Prov. di Pordenone. 5) Cortocircuito: il governatore del Friuli, Serracchiani, invoca l'intervento del ministro Zanonato contro le politiche industriali e del lavoro sostenute dal PD di Renzi, in cui Serracchiani è in segreteria. La flessibilità sì, ma in casa degli altri. Serracchiani contro Serracchiani, è il momento del cortocircuito, e non sarà l'ultimo.
Il Corriere della Sera vanta che la maggioranza degli italiani appoggi la riforma elettorale Renzi Berlusconi. Se poi si vanno a vedere i dati del sondaggio si scopre che quasi la metà non è d’accordo. Considerata la grancassa mediatica a senso unico bisogna ammettere che il regime informativo non funziona tanto bene.
E tuttavia proprio un regime si sta blindando con le nuove regole che stanno ridefinendo per la rappresentanza politica e sociale.
Profonda sintonia non c’è soltanto tra Renzi e Berlusconi, ma tra il progetto di riforma elettorale voluto dai due e l’accordo sulla rappresentanza sindacale sottoscritto il 10 gennaio da CGIL CISL UIL e Confindustria. Uno occupa la scena, l’altro sta sullo sfondo, ma sembrano scritti dallo stesso autore.
Intanto in comune hanno l’aggiramento delle recenti sentenze della Corte Costituzionale, ai limiti della presa in giro.
Nel luglio 2013 la Corte sanzionò il comportamento della Fiat, che aveva escluso dai diritti sindacali la FIOM, dichiarando incostituzionale quella parte dell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori che Marchionne usava a tutela delle proprie scelte.
Non si possono legare il diritto dei sindacati ad esercitare le loro funzioni e ancor di più quello dei lavoratori a scegliere liberamente la propria rappresentanza alla preventiva sottoscrizione di un accordo con la controparte. Perché così è ovvio che sarà quest’ultima, alla fine, a decidere chi ammettere e chi escludere nella rappresentanza del lavoro. Questo ha detto la Corte e ha giustamente inibito la Fiat dal continuare a discriminare la FIOM che non aveva firmato gli accordi di Pomigliano.
Ebbene CGIL CISL UIL e Confindustria il 10 di gennaio hanno sottoscritto un accordo che va nella direzione esattamente opposta rispetto a quanto affermato in quella sentenza, stabilendo che hanno diritto al riconoscimento e persino a presentarsi alle elezioni solo coloro che quell’intesa la sottoscrivono. E che intesa! Deroghe in peggio ai contratti, sanzioni anche pecuniarie ai delegati che le contrastano, commissione di controllo a dominio confindustriale per decidere dei comportamenti dei sindacati. Leggere il testo se si hanno dubbi.
Già il 31 maggio 2013 sindacati e aziende avevano sottoscritto questi principi, rinviandone l’attuazione ad un successivi regolamento. Ma appunto nel luglio successivo c’è stata la sentenza della Corte, si poteva provare a rispettarla. Invece il regolamento del 10 gennaio è brutale, persino meticoloso nel violarla. Così abbiamo il Marchionnum esteso a tutti.
La vicenda elettorale è ben più conosciuta. La Corte ha da poco dichiarato incostituzionale il porcellum in due principi di fondo, il premio di maggioranza spropositato e le liste bloccate senza preferenza.
I due leader in profonda sintonia hanno deciso di assegnare la maggioranza a chi prende il 35%, cioè basta un terzo per avere più della metà. La migliore minoranza vince tutto alla faccia della Costituzione. Quanto alle preferenze, i due la risolvono con qualche fatica in più per i capipartito: dovranno fare le nomine dei parlamentari a gruppi di 6 invece che di 50 alla volta.
Chi non vuol stare in alleanza con uno dei due deve prendere più del’8 % per entrare in parlamento. Cioè mentre al vincitore si regala più del 16% chi arriva al 7,99 è fuori. Nel linguaggio della repubblica democratica di una volta questa si chiamerebbe legge truffa.
Ecco, questa è la sostanza comune del Porcellumbis e del Marchionnum. Servono a conservare il sistema di potere, a normalizzare il dissenso e impedire l’alternativa. Sono la veste istituzionale delle politiche di austerità e dei vincoli della Troika, che esigono la loro governabilità. Sono la forma rappresentativa che ci concede il regime delle banche e della finanza, che infatti ha subito salutato con soddisfazione queste regole, mentre ha continuato la sua opera demolitrice dei poteri pubblici e dei diritti sociali.
Così mentre le armi di distrazione di massa fanno rivolgere tutta l’attenzione dell’opinione pubblica sulla riforma elettorale, la Banca d’Italia, sì proprio la più importante istituzione finanziaria pubblica, viene messa all’asta. Una vergogna anche per la più screditata repubblica delle banane.
Mentre CGIL CISL UIL e Confindustria si accordano su un sistema di rappresentanza che dovrà essere prima di tutto obbediente, sennò sanzioni, la sede Fiat va dove si pagano meno tasse, la Elettrolux di Porcia si prepara a chiudere e gli industriali del posto colgono la palla al balzo per chiedere un taglio del 20% dei salari.
Dilagano ingiustizia, disoccupazione e povertà, ci sarebbe bisogno di conflitto e soprattutto della ricerca di nuove vie sul terreno economico e sociale. Invece si definiscono sistemi di rappresentanza che servono prima di tutto a continuare a fare quello che si è sempre fatto. E che hanno il solo compito di escludere la partecipazione di chi non è d’accordo. E naturalmente lo si fa facendo credere che finalmente cambia tutto.
E poi chi difende la Costituzione ed i suoi principi di fondo, oggi stracciati, vien chiamato conservatore.
Via libera alla legge che taglia i tentacoli della piovra politico-mafiosa.
Il Movimento 5 Stelle ha ottenuto una grande vittoria politica con l'approvazione al Senato della legge sul 416/ter contro il voto di scambio politico-mafioso.
L'iter aveva visto i portavoce del Movimento 5 Stelle Senato presentare questa estate una serie di emendamenti migliorativi.
La scorsa settimana durante il dibattito in Senato, i senatori di Forza Italia eNuovo Centro Destra hanno tentato di depotenziare e distruggere l'impianto della legge con una serie di emendamenti a dir poco vergognosi.
Al momento del voto, anche grazie alla pressione politico-mediatica dei cittadini tutti gli emendamenti-vergogna berlusconiani sono stati respinti e la legge è stata approvata così come sostenuto dal Movimento 5 Stelle e soprattutto i 377mila cittadini che avevano firmato la petizione Riparte il Futuro promossa da Libera.
Ora avanti tutta con l'approvazione del provvedimento alla Camera!
P.S. ecco Nome e cognome dei parlamentari di Forza Italia, Nuovo Centro Destra e Gal che hanno votato contro la legge (in Senato l'astensione vale come voto contrario).
CONTRARI: Barani Lucio (GAL- Socialisti), Compagna Luigi (Nuovo Centro Destra), Davico Michelino (Gal), Di Giacomo Ulisse ( Nuovo Centro Destra).
CONTRARI-ASTENUTI: Alberti Maria Elisabetta (FI), Alicata Bruno (FI), Amoruso Francesco (FI), Aracri Francesco (FI), Augello Andrea (Ncd), Bernini Anna Maria (FI), Bianconi Laura (Ncd), Bilardi Giovanni (Ncd), Bonfrisco Anna (FI), Bruni Francesco (FI), Bruno Donato (FI), Caliendo Giacomo (FI), Caridi Antonio (Ncd), Cassano Massimo (Ncd), Ceroni Remigio (FI), Chiavaroli Federica (Ncd), Compagnone Giuseppe (Gal), Conte Franco (Ncd), D'Alì Antonio (Ncd), Dalla Tor Mario (Ncd), D'Ascola Vincenzo Mario (Ncd), De Siano Domenico (FI), Falanga Ciro (FI), Fasano Enzo (FI), Ferrara Mario ( Gal), Floris Emilio ( FI), Formigoni Roberto (Ncd), Galimberti Paolo (FI), Gentile Antonio (Ncd), Giovanardi Carlo (Ncd), Iurlaro Pietro (FI), Langella Pietro (Gal), Liuzzi Pietro (FI), Longo Eva (FI), Malan Lucio (FI), Mancuso Bruno (Nuovo Centro Destra), Marin Marco (FI), Matteoli Altero (FI), Mauro Giovanni (GAL), Mazzoni Riccardo (FI), Messina Alfredo (FI), Minzolini Augusto (FI), Mussolini Alessandra (FI), Pagano Giuseppe (NCD), Pagnoncelli Lionello (FI), Palma Nitto (FI), Pelino Paola (FI), Perrone Luigi (FI), Piccinelli Enrico (FI), Piccoli Giovanni (FI), Razzi Antonio (FI), Repetti Manuela (FI), Romani Paolo (FI), Rossi Luciano (Ncd), Sacconi Maurizio (Ncd), Sciascia Salvatore (FI), Scilipoti Domenico (FI),Scoma Francesco (FI), Sibilia Cosimo (FI), Tarquinio Lucio (FI), Viceconte Guido (Ncd), Villari Riccardo (FI), Zanettin Pierantonio (FI), Zizza Vittorio (FI), Zuffada Sante (FI).
di Eugenio Bonanata “A cambiare lo scenario energetico del Paese è un pozzo petrolifero sito in Basilicata”. Così il giornale di Confindustria magnifica il potere salvifico della piattaforma Alli 2, situata nel Comune di Marsicovetere. Silenzio assoluto, invece, sullo scempio subito dall'ecosistema Basilicata
I toni sono trionfalistici. Il foglio degli industriali sa bene che la Basilicata, solo con i pozzi della 'partecipata' Eni, "contribuisce ad oltre l'80 per cento delle produzioni di greggio in Italia". E solo il pozzo Alli 2 di Marsicovetere “contribuisce al 15 delle produzione di greggio in Val d'Agri”. La bilancia italiana dell'import export ci guadagna, quindi. Ecco perché ad essere bacchettati, dal Sole 24 ore, sono i tanti comitati del “no” che in questi anni si sarebbero messi di traverso al rilascio delle autorizzazioni necessarie all'entrata in funzione di numerose piattaforme in Val D'Agri. Ebbene, ciò che la giornalista sa ma non dice è che il pozzo Alli 2 è stato realizzato a pochi metri dall'ospedale di Villa D'Agri, non nel deserto della Nigeria. A pochi chilometri da quel pozzo, inoltre, l'Agenzia regionale all'Ambiente nel 2012 ha rilevato tracce di idrocarburi in un invaso, il Pertusillo, che approvvigiona di acqua potabile la vicina Puglia e di acqua irrigua i campi del Metapontino. Accanto a quell'invaso ci sono decine di pozzi e c'è il Centro Oli, dove si effettua la prima raffinazione del greggio. Ma queste sono 'macchie' che non interessano al grande pubblico nazionale. Nell'articolo, inoltre, viene anche citato l'accordo del '98 tra Eni, Ministero e Regione Basilicata. Accordo che prevedeva estrazioni fino a 104mila barili al giorno. Accordo “rallentato”, ovviamente, dai 'temibili comitati del “no”'. Quell'intesa, però, e anche questo non interessa agli stakeholder nazionali, prevedeva anche un Osservatorio ambientale della Val d'Agri. Osservatorio istituito solo 2 anni fa, nel 2012. Ci sono stati 14 anni di far west estrattivo in Basilicata. Il 99% dati ambientali prodotti in quella fase sono stati confezionati dalla stessa Eni, controllore e controllata di se stessa. In quegli anni si sono registrate fuoriuscite di idrogeno solforato al Centro Oli di Viggiano. Il danno causato a chi vive nei dintorni e a chi mangia prodotti agricoli locali non si saprà mai. E non si saprà mai quali danni ha provocato il pozzo di reiniezione Costa Molina 2 di Montemurro, accanto al quale sono emerse sorgenti d'acqua rese scure e maleodoranti dalla presenza di solfati. Il danno causato è latente. Deve rimanere nel corpo e nella testa dei lucani. L'Italia, invece, deve riscuotere il bottino. E lasciamo stare la contropartita delle royalties. Che in Basilicata hanno solo alimentato clientele e sceiccati politici. Ma questa, evidentemente, è un'altra storia.
«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».
Le fondamenta di questo trattato clamorosamente eversivo – il grande business che emana i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e i politici compiacenti, ma ormai alla luce del sole, e addirittura per legge – comparivano già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai 29 stati membri dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, come ricorda la Wallach in un intervento su “Le Monde Diplomatique”, il giornale che divulgò la notizia in extremis, sollevando un’ondata di proteste senza precedenti, fino a costringere i suoi promotori ad accantonare il progetto. Quindici anni più tardi, scrive oggi Lori Wallach sempre sul giornale francese, in un intervento ripreso da “Micromega”, la grande “trappola” fa il suo ritorno in pompa magna, sotto nuove sembianze.
L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip), negoziato a partire dal luglio 2013 tra Usa e Ue – accordo che dovrebbe concludersi entro due anni – non è che una versione aggiornata del Mai. Prevede infatti che «le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole del libero scambio» stabilite dalle corporations, «sotto pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti». Se dovesse entrare in vigore, aggiunge Lori Wallach, «i privilegi delle multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero completamente le mani dei governanti». Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, il trattato «si applicherebbe per amore o per forza, poiché le sue disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i paesi firmatari». Ciò riprodurrebbe in Europa «lo spirito e le modalità del suo modello asiatico», ovvero l’Accordo di Partenariato Transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in 12 paesi dopo essere stato fortemente promosso dagli ambienti d’affari.
«In virtù di numerosi accordi commerciali firmati da Washington, 400 milioni di dollari sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle normative sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname». Sotto l’egida di questi stessi trattati, le procedure attualmente in corso – nelle questioni di interesse generale come i brevetti medici, la lotta all’inquinamento e le leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno schizzare le richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata». Basta osservare gli attori sul terreno: negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali, ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”. Dal canto loro, i paesi dell’Unione Europea si vedrebbero esposti a un rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400 compagnie statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali. In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici.
Gli accordi-capestro per Atlantico e Pacifico «formerebbero un impero economico capace di dettare le proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione Europea si troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del loro mercato comune». E dato che i proponenti «mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile», i negoziati si svolgono a porte chiuse. Le delegazioni statunitensi contano più di 600 consulenti delegati dalle multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato ai documenti preparatori. «Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di lasciare giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà troppo tardi per reagire». Vana la protesta della senatrice Elizabeth Warren, secondo cui «un accordo negoziato senza alcun esame democratico non dovrebbe mai essere firmato».
L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato all’attenzione del pubblico si comprende facilmente, aggiunge la Lori Wallach: «Meglio prendere tempo prima di annunciare al paese gli effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal vertice dello Stato federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati e le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo le loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei settori che in parte gli sfuggono ancora». Nulla sfugge alle fauci dei super-privatizzatori: sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali, libertà della rete, protezione della privacy, energia, cultura, dirittid’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato». Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro».
È già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la «messa in conformità delle loro leggi, dei loro regolamenti e delle loro procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che essi vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso contrario, potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei tribunali appositamente creati per arbitrare i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di emettere sanzioni commerciali contro questi ultimi. «L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia dei trattati commerciali già in vigore». Lo scorso anno, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha condannato gli Stati Uniti per le loro scatole di tonno etichettate “senza pericolo per i delfini”, per l’indicazione del paese d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del tabacco aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di tutela sono state considerate degli ostacoli al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche all’Unione Europea delle penalità di diverse centinaia di milioni di euro per il suo rifiuto di importare Ogm come quelli della Monsanto, che finanziò l’elezione di Obama.
«La novità introdotta dal Ttip e dal Tpp – osserva Lori Wallach – consiste nel permettere alle multinazionali di denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica avrebbe un effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale». Sotto un tale regime, «le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di protezione dell’ambiente e di regolamentazione della finanza», reclamando danni e interessi davanti a tribunali extragiudiziari. «Composte da tre avvocati d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi della Banca Mondiale e dell’Onu «sarebbero abilitate a condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua legislazione riducesse i “futuri profitti sperati” di una società». Questo sistema, che oppone le industrie agli Stati, sembrava essere stato cancellato dopo l’abbandono del Mai nel 1998, ma è stato «restaurato di soppiatto» nel corso degli anni. Di fatto, l’adozione del super-trattato riduce in schiavitù le istituzioni pubbliche, per le quali i cittadini votano, affidando ad esse il compito di governare il proprio paese. Con le mostruose norme in via di approvazione semi-clandestina, i poteri pubblici dovranno mettere mano al portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la riduzione del valore di un investimento, anche quando questa stessa legislazione si applica alle aziende locali. In altre parole: la civiltà democratica finisce qui.
Il presidente dell'Inps Antonio Mastrapasqua è indagato dalla procura di Roma per falso ideologico, abuso d'ufficio e per truffa. Mastrapasqua non è solo presidente dell'INPS (un incarico pagato più di 200 mila euro all'anno), ma anche vice direttore di Equitalia e ricopre un'altra ventina di incarichi, che spaziano da membro del consiglio di amministrazione di Quadrifoglio, di Telenergia, di Loquendo, di Aquadrome, Mediterranean Nautilus Italy, ADR Engineering, Consel, Groma, EMSA Servizi, Telecontact Center, Idea Fimit SGR.
Antonio Mastrapasqua è anche vicepresidente di Equitalia Sud, Equitalia Nord, di Equitalia Centro, ed è dirigente di Italia Previdente, di Eur Congressi Roma, di Eur Tel, di Eur Spa, di Coni servizi Spa, di Autostrade per l'Italia, di Fandango, di Telecom Italia Media. È difficile sommare tutti gli stipendi e avere un quadro preciso dell'ammontare dei suoi stipendi, ma fa specie che il direttore di un ente pubblico come l'INPS, che ha come scopo quello di tutelare i lavoratori in difficoltà e garantire loro la previdenza, abbia circa 25 incarichi e guadagni oltre un milione di euro l'anno.
Tra i suoi tanti incarichi vi è anche quello di direttore generale dell'ospedale Israelitico di Roma. L'accusa che la procura di Roma ha mosso nei confronti dell'ospedale della capitale, è quella di aver manipolato circa 12000 schede di dismissione per ottenere "13,8 milioni di euro di rimborsi", a cui si sommano "71,3 milioni di euro" di presunto "vantaggio patrimoniale" (articolo cartelle cliniche truccate). Si parla, in parole povere, di una truffa di circa 85 milioni di euro.
Ora io non entro nei dettagli della vicenda e sarà la magistratura a farlo. Non ho difficoltà a credere, come lo stesso Mastrapasqua ha scritto in una nota ufficiale, che lui sia estraneo ai fatti e che anzi la sua immagine e quella dell'ospedale risultano danneggiate da questa notizia. Ricordo che è solo una indagine e sino all'ultimo grado di giudizio lui è innocente.
Cerco, però, di fare un ragionamento un po' più ampio. Da questa storia voglia trarre due spunti di riflessione. La prima riflessione riguarda la somma degli incarichi che Mastrapasqua, ma non solo lui in Italia, è riuscito ad accumulare nel corso degli anni: come è possibile che una persona possa ricoprire 25 incarichi? Non si era parlato di ridurre i doppi incarichi e i doppi stipendi? Il problema, badate bene, non è solo di ordine economico. Qui si parla anche di professionalità, competenze (che sono sicuro che Mastrapasqua ha), e di tempo per svolgere bene tutti questi incarichi.
25 incarichi sono difficili da gestire per chiunque. Perlomeno io parlo partendo dalle mie modeste capacità: non so dove troverei il tempo per dirigere, controllare, supervisionare e svolgere al meglio 25 lavori.E stiamo parlando di incarichi di altissimo livello, come presidente dell'INPS e vicepresidente di Equitalia. Due enti cruciali per il corretto funzionamento della macchina dello Stato. 25 incarichi significa poter dedicare ad ogni incarico al massimo un'intera giornata nell'arco di un mese. Non di più. Siamo sicuri che questo sia il modo migliore di gestire la cosa pubblica?
La seconda riflessione, non collegata a questo caso, è che la truffa, la corruzione e l'appropriazione indebita di soldi pubblici sia oramai una prassi consolidata. Truffe di ogni genere e grado: rimborsi elettorali, fatture false, biglietti dell'autobus falsi e ora anche cartelle di dismissioni false. Il furto ai danni dello Stato, ovvero di tutti noi, sta ahimè diventando una banale routine, una cosa normale come l'aria che respiriamo. E la cosa triste, e al contempo pericolosa, è che non riusciamo neanche più ad indignarci e incazzarci (passatemi il termine): oramai prevale la rassegnazione. Siamo rassegnati, delusi e incapaci di reagire. Non vediamo via d'uscita da questo incubo, da questa piovra che ci sta trascinando negli abissi. Qui stiamo parlando di una, per ora ipotetica, truffa da 85 milioni di euro (170 miliardi di vecchie lire). Soldi che ingiustamente sono stati chiesti allo Stato, soldi che sono stati rubati a tutti noi.
Perché forse non ce ne rendiamo conto, ma questi 85 milioni di euro sono i nostri soldi. Ogni volta che facciamo benzina, che compriamo le sigarette, che beviamo un caffè o facciamo la spesa, versiamo soldi nella cassa comune dello Stato. Ogni volta che paghiamo le tasse, il bollo o il ticket all'ospedale, una parte dei nostri soldi finisce nelle tasche di persone senza scrupoli che rubano dalla cassa comune. Ma oramai ci abbiamo fatto il callo.
Oramai queste storie di ordinaria corruzione, di ordinario assalto alla diligenza pubblica e di ordinaria criminalità non ci colpiscono o indignano più di tanto. È vero, manca la certezza della pena: anche qualora un delinquente venisse scoperto e dopo una decina di anni di indagini dovesse essere condannato, mettiamo a 4 anni, 3 gli sarebbero condonati per via dell'indulto voluto dal PD nel 2006. Dell'anno che rimarrebbe da scontare dobbiamo togliere 3 mesi (ogni anno di prigione vale infatti 9 mesi) e dunque rimarrebbero al massimo 9 mesi da scontare. Aggiungiamo che sia incensurato e abbia un buon avvocato (con i soldi estorti si può) e al massimo ci si fa un paio di mesi agli arresti domiciliari. Come se fosse una brutta influenza che ti inchioda a casa. Insomma, per molti vale la pena di rischiare.
Ma non è solo un problema di mancanza di certezza della pena.Quello che viene a mancare è la condanna sociale. Non abbiamo la percezione della pericolosità di questi atti. Abbiamo paura del borseggiatore che ci sfila 5 euro, ma non di un dirigente pubblico o di un politico che ci sfila milioni di euro. Una volta rimessi in libertà, torneranno al loro posto e nel caso di politici saranno ricandidati (alcuni diventano anche padri costituenti) e andranno tra la gente che ha derubato a chiedere la fiducia. E noi, come da copione, saremo pronti a ridargliela, come se niente fosse, perché in fondo ogni popolo ha il governo che si merita.
L'Italia affonda per colpa loro, certo, ma anche per colpa nostra che glielo consentiamo.