La deregolamentazione del mercato del lavoro è l'altra faccia di quell'austerità che altro non ha fatto se non aggravare lo stato di crisi economica. Dai salari alla contrattazione, così le ricette dell'Unione europea hanno contribuito a mantenere viva la depressione.
di Paolo Pini, da sbilanciamoci.info
La “Lettera dei 15” e gli interventi che sono seguiti anche su Sbilanciamoci.info hanno rilanciato un confronto tra chi sostiene che oggi la priorità sia la sostituzione della politica di austerità europea con una politica di domanda che avvii una uscita dalla depressione, e chi invece sottolinea che questa strada non condurrà ad alcuna crescita del reddito e dell’occupazione se non si affrontano le questioni irrisolte dal lato dell’offerta, soprattutto nei paesi, come il nostro, che sono in ritardo a causa di riforme (strutturali) mal fatte o non fatte.
Ho avuto modo di osservare nel mio intervento che non solo le politiche di austerità espansiva e di consolidamento fiscale contribuiscono ad aggravare lo stato di crisi economica, ma anche talune politiche di offerta, coerenti con quelle macro dal lato della domanda, hanno comportato e contribuiscono a mantenere viva la depressione, per gli effetti che esse hanno sia sulla distribuzione del reddito e sulle disuguaglianze e di conseguenza sulla domanda, sia nel favorire una competizione sui costi di produzione, lavoro anzitutto, più che sull’innovazione. Queste politiche sono quelle sostenute da decenni da coloro che propugnano la tesi secondo la quale con la deregolamentazione dei mercati, dei capitali e del lavoro, aumenterebbe la concorrenza negli stessi a tutto vantaggio della crescita, con benefici per imprese innovative, fasce di popolazione escluse dal lavoro, consumatori di beni e servizi finali. Quelle che vengono denominate “riforme strutturali” sono il complemento alle deregolamentazioni dei mercati.
Un esempio sono le riforme strutturali nel campo cruciale del lavoro, su cui torno per argomentare che se da un lato la politica italiana ha evidenti responsabilità nell’aver determinato ciò che è stato chiamato in modo felice dai giuslavoristi la “deriva del diritto del lavoro”, dall’altro a tale deriva non era facile opporsi in quanto le “raccomandazioni dell’Europa” hanno molto contribuito a ciò, se non nelle specifiche forme che essa ha assunto, ma certo nelle direttive fondamentali. Due idee particolarmente “perniciose” qui segnaliamo in tema di salari e contrattazione, strettamente intrecciate.
La questione salariale
La Banca Centrale Europea ha un desiderio, appena può non perde occasione perricordarcelo. Mario Draghi sostiene che i paesi periferici soffrono di una perdita strutturale di competitività rispetto ai paesi continentali virtuosi, attestata da una crescita relativa del loro costo nominale del lavoro per unità di prodotto. I salari nominali crescerebbero nel sud Europa più della produttività reale, e questo minerebbe la loro competitività nei confronti dei paesi che invece tengono allineate le crescite delle due variabili, Germania in primo luogo. Così facendo, stante un tasso di inflazione comune del 2%, pari al target della Bce, i primi sono paesi “viziosi” destinati a perdere competitività e realizzare per “loro colpa” deficit commerciali nei conti con l’estero, mentre i secondi trarrebbero vantaggio dalle “loro virtù” facendo segnare avanzi commerciali crescenti nelle bilance dei pagamenti. La regola per Draghi sarebbe quella di vincolare la crescita dei salari nominali a quella della produttività reale per tutti i paesi dell’eurozona.
La regola di Draghi si dimostra però una regola di piombo per i lavoratori.
Diversamente dalla nota regola d’oro che prevede una crescita del salario reale al tasso di crescita della produttività del lavoro, e mantiene immutate le quote distributive e la quota del lavoro sul reddito, la regola di piombo programma la diminuzione della quota del lavoro al tasso di variazione annuale dei prezzi, ovvero dell’inflazione. Con un’inflazione positiva pari al target della Bce, la quota del lavoro perderebbe 2 punti percentuali l’anno; con un’inflazione effettiva all’1% la perdita annuale sarebbe di 1 punto percentuale. In dieci anni nell’ipotesi meno sfavorevole la quota del lavoro sul reddito perderebbe 10 punti percentuali, nell’ipotesi meno favorevole la stessa perdita si realizzerebbe in cinque anni.
Come ha osservato Watt, ipotizzando una crescita della produttività reale all’1,5% annuo, un inflazione al tasso target del 2% circa, una crescita nominale del reddito del 3,5% circa, le quote distributive iniziali del reddito da lavoro sul reddito complessivo (2/3) e da capitale sul reddito complessivo (1/3) sarebbero ribaltate dopo 35 anni: al lavoro spetterebbe 1/3, al capitale 2/3.
Ovviamente uno scenario di questo tipo è inimmaginabile, non solo perché di un tale shift delle quote distributive non vi è un riscontro storico, anche se come attesta l’Ilo dal 1999 al 2011 il lavoro nei paesi sviluppati ha perso circa 10 punti di quota distributiva, ma anche perché la costanza del costo del lavoro per unità di prodotto sarebbe difficilmente compatibile con una inflazione del 2%.
Nonostante gli effetti della regola di piombo desiderata dalla Bce siano comunque perniciosi, sulle quote distributive, ma anche sulla domanda interna dei paesi dell’eurozona che la dovessero applicare come regola comune, ciò non impedisce ai suoi fautori di riproporla come soluzione dei problemi di competitività nazionale, trascurando la “fallacies of composition”: con la compressione della domanda interna ogni paese dovrebbe recuperare sui mercati esteri, ma siccome ogni paese segue la stessa regola di piombo, puntando ad avanzi commerciali, è la domanda complessiva che si contrae per un area in cui gli scambi con l’estero tra paesi dell’area coprono l’80% dei loro scambi commerciali. Un’altra versione della fallacia della «“beggar thy neighbour” policy» nell’eurozona.
Che queste siano le politiche salariali suggerite per l’eurozona al fine di recuperare competitività, ovvero la svalutazione salariale interna in presenza di moneta unica con l’allineamento dei salari nominali alla produttività reale, vi sono pochi dubbi, dato che la Commissione Europea nei documenti Country-specific recommendations 2013 e anni precedenti, le raccomanda per quasi tutti i paesi, Italia inclusa, lasciando a questi la scelta delle modalità con cui realizzarle: sterilizzazione dei contratti nazionali di lavoro, deroghe ai contratti nazionali, blocco dei meccanismi di recupero dell’inflazione, etc. Al contempo, che tali raccomandazioni siano state in parte seguite, lo testimonia la dinamica dei salari reali dopo la crisi in vari paesi europei, tra cui quelli periferici. E per affrontare quei casi nei quali le raccomandazioni non vengano seguite, la Commissione (in particolare la DG ECFIN) prospetta di accrescere i vincoli posti dalla governance economica, con opportune misure di penalizzazione, sanzioni anche automatiche, per i non virtuosi.
La contrattazione
Veniamo ora alla seconda idea perniciosa, in tema di contrattazione, che costituisce lo strumento cardine per regolare la dinamica salariale.
Per conseguire quella dinamica delle retribuzioni nominali in linea con la produttività, occorre ridimensionare grandemente il ruolo del contratto nazionale, che vincola per categoria le retribuzioni a parametri che rispondono troppo ai rapporti di forza e poco alle variabili economiche di produttività e profittabilità delle imprese. Occorre invece spostare a livello decentrato ogni forma di negoziazione sul salario, abbandonando anche ogni meccanismo di recupero automatico del potere d’acquisto del salario reale rispetto all’inflazione passata, soprattutto se importata. La contrattazione virtuosa è quella aziendale se non anche individuale, per lasciare spazio con essa a premi che riconoscano davvero i meriti dei lavoratori per le loro prestazioni lavorative.
Che queste siano raccomandazioni vincolanti, lo attesta il caso italiano. In occasione della abrogazione della procedura di infrazione per disavanzo di bilancio eccessivo nei confronti dell’Italia, la Commissione Europea ha prescritto per l’Italia le sue country specific recommendations, fra le quali compare la richiesta di superare i ritardi nell’attuazione delle riforme strutturali, declinate sempre sul lavoro, che deve essere reso ancora più flessibile nel mercato, e che deve essere “governato” quasi nulla dai contratti nazionali e molto invece dai contratti aziendali, per rendere i salari nominali in linea con la produttività e le prestazioni individuali del lavoro. La Commissione ribadisce la Raccomandazione 4 del 2012 e richiede di: “dare attuazione effettiva alle riforme del mercato del lavoro e del quadro per la determinazione dei salari per permettere un migliore allineamento dei salari alla produttività” (CE, COM362final, 29 maggio 2013, p.8). A tal fine si raccomanda di proseguire lungo il percorso avviato con l’accordo del 21 novembre 2012 tra le parti sociali eccetto la Cgil (governo Monti), al fine di istituire il “salario di produttività” (CE, SWD362final, 29 maggio 2013, p.38).
Poco conta che la stessa Commissione osservi che in Italia si abbia una “contrattazione decentrata limitata e non quantificata e non quantificabile” oppure che Banca d’Italia certifichi che la contrattazione aziendale copre al massimo il 20% delle imprese con almeno 20 addetti. Una domanda è quindi d’obbligo: se la contrattazione aziendale lascia scoperto almeno l’80% delle imprese, i salari dei lavoratori occupati in queste imprese, avranno retribuzioni nominali a crescita zero dato che il contratto nazionale di categoria deve essere sterilizzato?
Ben diverso è questo approccio da quello che la Commissione raccomandava nel 1997, Partnership for a new organization of work, il Green Paper con il quale si proponeva un percorso di adozione di best work organization practices per innovare l’organizzazione dell’impresa mediante il coinvolgimento dei lavoratori e loro rappresentanze. Qui - in relazione alle raccomandazioni del 1997 - non possiamo non segnalare come a differenza di vari paesi europei continentali e nordici, l’Italia non abbia svolto i suoi “compiti a casa”, come attesta l’ultima indagine Eurofound 2011 che ci posizione al 25° posto su 30 paesi quanto a pratiche innovative introdotte, meglio solo di Ungheria, Cipro, Malta, Turchia, Grecia. Dal 1997 è iniziata invece per noi la “via maestra” della flessibilità dei rapporti di lavoro, che ci ha portato al ragguardevole risultato di crescita prossima a zero della produttività del lavoro, e crescita negativa dei salari reali grazie al dimezzamento dagli anni ’90 dell’indice di protezione all’impiego misurato dall’Oecd, da 3,57 a 1,89, la maggior riduzione tra tutti i paesi sviluppati, con la Germania che meno “virtuosa” dell’Italia passava da 3,17 a 2,12.
Conclusioni
Se questo è il deprimente stato dell’arte in tema di salari e contrattazione che la Commissione ci raccomanda e che l’Italia si impegna ad attuare, con procedure sue proprie, non ci rimane che concludere con alcuni quesiti, rinviando il lettore ad ulteriori approfondimenti. Si poteva e si può fare altrimenti? Esistono politiche economiche alternative per uscire dalla “trappola della stagnazione della produttività e dei salari”? Oppure siamo costretti nell’eurozona alle svalutazioni competitive interne raccomandate dalla Commissione? Abbiamo cercato di fornire una risposta a questi quesiti, rigettando prima la logica TINA, e prospettando un patto tra le parti sociali ed il governo che introduca un “salario di partecipazione” del tutto diverso da quello di produttività, nell’ambito di una “regola retributiva europea” proposta qualche tempo addietro, ma sempre attuale, da Brancaccio e da Watt.
Non vi è bisogno di aggiungere ovviamente che queste proposte necessitano di una “inversione di rotta” nelle politiche economiche europee, e di conseguenza di quelle italiane, quell’inversione che i 15 firmatari della lettera hanno chiesto e che io sottoscrivo appieno.
(14 gennaio 2014)
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