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venerdì 3 gennaio 2014

La disuguaglianza presa sul serio



di Maurizio Franzini, da L’Unità

Di recente Obama ha, senza mezzi termini, affermato che la disuguaglianza economica costituisce la «questione decisiva del nostro tempo». In un lungo articolo, pubblicato a ottobre sull’inserto domenicale del Corriere della Sera, il presidente Letta ha scritto: «La disuguaglianza sgretola la società perché la fa marcire al proprio interno … minando alla base sia la democrazia sia il mercato».

Letta e Obama non sono i soli uomini politici con grandi responsabilità ad aver parlato negli ultimi mesi della disuguaglianza con toni accorati. Queste dichiarazioni autorizzano a pensare che nei piani più alti della politica, o almeno in alcuni di essi, si è fatta largo la consapevolezza che la disuguaglianza – non quella astratta e indefinita di cui spesso vanamente si discute, ma quella concreta di questi anni, con la sua altezza e con il suo carico di poveri e di ricchi, spesso tali per tutt’altro che i loro meriti o demeriti – sia non un problema marginale, ingigantito da qualche eccentrico che ha a cuore la giustizia sociale, ma un ostacolo strutturale in grado di impedire il buon funzionamento dell’economia e della società.

UN IMPORTANTE FATTO NUOVO

Se così fosse, saremmo di fronte a un importante fatto nuovo dell’anno che si chiude. In realtà, grazie a numerosi studi, oggi conosciamo molto meglio la disuguaglianza del nostro tempo e le sue probabili conseguenze; sappiamo, in particolare, quanto deboli siano due idee «forti» – in verità da molti già considerate deboli – che hanno a lungo alimentato la diffusa convinzione che né l’economia né la società avrebbero troppo sofferto della disuguaglianza dei redditi (che va distinta da quella della ricchezza). Per la prima idea, la disuguaglianza favorisce la crescita; per la seconda ciò che conta davvero per il buon funzionamento della società non è la disuguaglianza ma la mobilità sociale – cioè non quanto il ricco guadagna più del povero ma se il ricco è figlio di un ricco piuttosto che di un povero – e l’ipotesi era che disuguaglianza e mobilità fossero tra loro indipendenti.

La disuguaglianza dei nostri tempi è decisamente eversiva rispetto a queste idee: invece che favorire la crescita economica, l’ha intralciata frenando la dinamica della domanda e, quindi, la capacità di utilizzare appieno il potenziale produttivo. Essa ha contribuito al manifestarsi della crisi e al suo perdurare. Inoltre, è oramai documentato che tra alta disuguaglianza e bassa mobilità vi è un intreccio perverso invece della supposta indipendenza. In quell’intreccio sono chiaramente intrappolati molti Paesi e soprattutto il nostro e gli Stati Uniti, tanto disuguali e tanto immobili.

Per far seguire azioni concrete alla consapevolezza occorre porsi almeno due quesiti. Il primo è ovvio: quali sono le possibili soluzioni? Il secondo è un po’ meno ovvio ma di importanza cruciale: vi sono soluzioni efficaci che non richiedono una profonda revisione delle attuali «regole del gioco»? Si tratta di quesiti difficili e quelle che seguono non sono che considerazioni introduttive.

Semplificando (non poco) si può dire che la scala dei redditi, in molti Paesi, si presenta così: sui gradini più bassi ci sono i poveri, cioè coloro che hanno un reddito inferiore alla soglia della povertà, fissata in base a criteri diversi. Costoro costituiscono un gruppo consistente e in crescita e sono in prevalenza disoccupati, anche se «i poveri che lavorano» non sono pochi. Appena più in alto c’è chi «fatica ad arrivare alla fine del mese» e, salendo ancora, chi può concedersi un tenore di vita da benestante. Nel loro insieme, questi due gruppi costituiscono gran parte del cosiddetto ceto medio che, negli ultimi decenni, ha perso quote di reddito a vantaggio di una ristretta o ristrettissima élite di ricchi o super-ricchi.

TRAVASI DI REDDITO

Questi ultimi, di norma identificati con l’1% più ricco, concentrano nelle proprie mani una fetta di reddito nazionale che varia da Paese a Paese ma che è comunque molto elevata: all’inizio della crisi, negli Stati Uniti era oltre il 18% contro il 13% del 1990; in Italia era il 9,5% contro il 7,8% del 1990. Il minimo, in Europa, si verificava nei Paesi Bassi, con il 5,7%. Questi valori e queste evoluzioni permettono, sempre con un po’ di approssimazione, di affermare che negli ultimi decenni quote non irrilevanti di reddito si sono, quasi ovunque, spostate dal 99% all’1% più ricco della popolazione. Questi due segmenti hanno, dunque, conosciuto storie molto diverse e la crescita – finché si è vista – non è stata affatto uguale per tutti.

Poiché i super-ricchi destinano al risparmio una bella percentuale delle loro entrate, la concentrazione del reddito nelle loro mani può avere effetti molto forti di freno della domanda di consumo, senza compensazioni automatiche in altre componenti della domanda di beni e servizi, e in particolare in quella per investimento. Essa, inoltre, può rallentare la mobilità sociale attraverso vari meccanismi, individuati nella letteratura, non esclusi quelli che derivano dalla capacità di influenzare i processi di decisione politica che si rafforza quando si è tanto più ricchi del resto della popolazione.

Ipotizzare che la soluzione consista nella ripresa della crescita equivale a scommettere su un evento che il recente passato mostra essere altamente improbabile. La crescita, quando c’è stata, si è concentrata nella parte alta della distribuzione, aggravando e non alleviando le disuguaglianze. Ad esempio, in Italia tra la metà degli anni ‘80 e la metà del decennio scorso, il reddito medio del 10% più povero è cresciuto annualmente dello 0,2% e quello del 10% più ricco dell’1,1%, cioè una differenza di velocità di ben 5 volte.

Questo rende più urgente rispondere a una domanda preliminare: per ridurre la disuguaglianza si vuole agire sui gradini più bassi, su quelli più alti o su entrambi? Concentrarsi esclusivamente su chi sta peggio significherebbe identificare la lotta alla disuguaglianza con la lotta alla povertà e non sarebbe una grande novità: da tempo, i governi nazionali e l’Unione Europea si dicono impegnati in questa lotta, anche se all’enfasi nelle dichiarazioni non ha fatto seguito il successo nei risultati.

Al di là di questo, le idee sulle riforme da attuare che circolano con più frequenza in Europa sembrano tutte orientate a attenuare, nel migliore dei casi, la disuguaglianza nei gradini più bassi. Si pensi, ad esempio, alle misure per l’introduzione del salario minimo o, anche, quelle che dovrebbero ridurre la disoccupazione principalmente attraverso le riforme «strutturali» del mercato del lavoro. Aumentando l’occupazione dovrebbe aumentare il reddito dei più poveri (sempre che non si resti poveri anche dopo aver trovato un lavoro) e le distanze di reddito tra costoro e il resto della società dovrebbero accorciarsi con effetti positivi sulla disuguaglianza complessiva.

Questo esito sarà garantito, però, soltanto se nulla cambierà negli altri gradini. Ad esempio, se cadessero i salari dei penultimi, cioè di coloro che «faticano ad arrivare alla fine del mese», la disuguaglianza potrebbe crescere perché, se da un lato, si riducono le distanze tra gli ultimi e i penultimi, dall’altro si ampliano le distanze che separano i penultimi dai ricchi e dai super-ricchi. Le ricette invocate con forza dalla Commissione europea e dall’Ocse sembrano prevedere proprio questo e, al di là di altre considerazioni, il loro esito migliore sarebbe quello di ridurre le disuguaglianze nel gruppone del 99% al costo di una crescente distanza questo gruppone e l’élite dei super-ricchi.

Se si volesse agire anche sui gradini più alti della scala bisognerebbe decidersi a incidere ben più profondamente sulle odierne regole del gioco: si tratterebbe, ad esempio, di regolare meglio i mercati (e i circuiti) dove si formano questi super-redditi, spesso – non sempre – al riparo da un minimo di concorrenza e lontani da ogni accettabile idea di merito; si tratterebbe, altresì, di ripensare gli interventi redistributivi per colpire, anche con modalità innovative, non tutti i redditi elevatissimi ma, in modo selettivo, quelli – e sono di sicuro molti – che si formano nel modo protetto di cui si è detto. E, ancora, occorrerebbe un efficace coordinamento internazionale.

In breve, c’è un modo semplice (e poco incisivo) per combattere la disuguaglianza ed è quello che consiste nel rendere più uguale il 99% della popolazione; c’è, poi, un modo decisamente più difficile che richiede di guardare a tutta la scala non chiudendo gli occhi di fronte all’1% appollaiato in cima. La speranza, soprattutto di chi vorrebbe che la disuguaglianza fosse presa sul serio, è che il 2014 porti a chi occupa i piani alti della politica tutto il coraggio che occorre per svolgere il compito più difficile.



(2 gennaio 2014)

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