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martedì 29 ottobre 2013

Renzi, sotto il vestito niente



di Pierfranco Pellizzetti

Non date retta alle “anime belle” che, a fronte del venerabile confronto delle idee, invitano a “non  personalizzare”. In una politica dove idee non ce ne sono e l’abilità di intercettare le emozioni diventa primaria condizione di successo, il linguaggio del corpo fornisce le informazioni che davvero contano; la fisiognomica – come ironizzava Paolo Sylos Labini – rischia di assurgere al rango di “scienza esatta”.
Del resto nel set da reality, in cui si è trasformata l’arena pubblica, la mimica facciale degli interpreti vale almeno quanto gli script che recitano.

Dunque guardiamoli in faccia, i lorsignori che decidono per noi e sulla nostra pelle.
Tempo fa un ex sottosegretario (pentito) di Forza Italia mi confidava il suo sospetto che “l’amoroso” (in quanto leader del partito dell’amore) Silvio Berlusconi sarebbe cattivissimo d’animo, al di là dell’ostentata bonomia barzellettiera. Difatti la sua vera natura cannibalesca e primordiale appare per un istante a Montecitorio quando si allontana col sorriso sulle labbra dal solito capannello di yesmen (che hanno appena sghignazzato secondo copione alla sua battuta) e lui, reputandosi ormai fuori portata degli sguardi, cambia repentinamente espressione; si sfila la maschera: le labbra si stirano in una smorfia ostile e negli occhi dardeggiano i lampi feroci del predatore. Uno spettacolo da paura.

Ma forse potrebbe iniziare a farci paura anche il mutare di espressione di Matteo Renzi; quando viene contraddetto e sul volto paffuto con sventagliata di nei del sorridente giovanotto cala per un istante l’ombra di un odio allo stato puro. Poi il ragazzo meraviglia recupera il cliché modello “compagnone in gita”. Ma intanto il velo si è squarciato e si capisce il vero senso di quanto avviene; cui le parole forniscono un semplice supporto sonoro – tutto sommato privo di trasmissioni concettuali – al servizio di operazioni puramente emotive. 

Una tecnica messa a punto nelle parrocchie degli anni Sessanta, quando imperava la finta modernizzazione delle chitarre in chiesa e tutti a cantare il jingle di “Viva la Gente”, uniti in un abbraccio a simulare affratellamento. Quando – in effetti – era pura manipolazione subliminale al servizio di quell’istituzione ecclesiastica retrograda, incrollabilmente ostile ai diritti civili; alla faccia della gente e dei suoi problemi esistenziali. 

Ossia la tecnica della rassicurazione di animi smarriti mediante i rituali dell’appartenenza, che saranno portati a livelli di occupazione della società dalle organizzazioni promosse da don Giussani (Gioventù Studentesca, Comunione e Liberazione, Compagnia delle Opere). Dunque, strumentalizzazione dell’insicurezza diffusa a scopo di potere. Cui la mediatizzazione della politica ha fornito mezzi formidabili per espandersi nei grandi numeri e potenziarsi nell’efficacia.

L’unico modo per spezzare il cerchio stregato dell’incantesimo è tornare ad ancorarsi alla realtà come unico metro di giudizio: evidenziare gli effetti concreti dei comportamenti e ricercare il significato intrinseco delle parole. Testardamente.

Se si attua questa operazione sui punti programmatici promossi domenica scorsa dalla convention fiorentina alla stazione Leopolda, risulta subito evidente che l’intera proposta politica renziana ha la consistenza di una bolla di sapone; anche se può affascinare i bambini di tutte le età, come il gioco di creare con un soffio effimere sfere iridescenti. Sicché, anteponendo la testardaggine all’incantamento, l’analisi dei quattro punti della Visione (Italia, Europa, Lavoro, Educazione), accompagnata dallo slogan misterico (e con l’impronta digitale del solito spin-doctor) “diamo un nome al futuro”, rivela una banalità al limite della presa in giro. Pura cultura dei preliminari; che poi è l’antico “partiam partiamo” apoteosi dell’inconcludenza.

Per l’Italia si prospetta una svogliatura di ovvietà, ma senza dire come e perché; semplici enunciazioni da inventario: legge elettorale (il sindaco d’Italia, boh), revisione dell’articolo V, abolizione del Senato e delle Province, riforma della giustizia (incaprettare la magistratura impicciona o meglio strumentarla?). Per l’Europa la panacea sarebbe una maggiore proiezione verso il Mediterraneo (evviva!) e la revisione dei parametri. Per il Lavoro l’apertura ai capitali stranieri (svendendo i residui marchi di pregio, come farebbe pensare l’esempio di Gucci?) e la chiusura difensiva dell’italica bellezza (un mix Ferrari, Cavalli style burino rifatto, Billionaire alla Briatore?). Sull’educazione resta il dubbio di che cosa significhi il richiamo all’ennesima “rivoluzione culturale”, anche se comprendiamo trattarsi di una rassicurante messa in scena innocua, visto che – nientepopodimeno – nascerà da “una strategia di ascolto degli insegnanti”.

Insomma, un po’ di temi sparsi con finalità deliberatamente (e furbescamente) “non divisive”. Accompagnata da un mood molto “made in Tuscany”.
Un mio amico di Asciano, in quel di Siena, usava l’espressione “acchiappacitrulli”. Dunque, personaggi che tirano a prenderti per il naso. Stando al successo mediatico sembra proprio che l’acchiappacitrulli Renzi ci stia riuscendo.

(28 ottobre 2013)

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