Il rapporto debito pubblico/Pil in Italia, secondo le ultime rilevazioni EUROSTAT, ha raggiunto il 133%, proseguendo una dinamica di costante crescita, a fronte del fatto che la spesa pubblica, in Italia, è in linea con la media dei Paesi dell’eurozona (v. fig.1) e si è costantemente ridotta negli ultimi anni. L’impegno dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni è stato essenzialmente finalizzato a provare a ridurre il rapporto debito/Pil agendo contestualmente sul debito e sul Pil, ovvero – nel primo caso – riducendo la spesa pubblica (e aumentando la tassazione) e, per il secondo aspetto, attuando alcune “riforme” prevalentemente calibrate sul mercato del lavoro. La logica sottostante può essere ricondotta a questa ipotizzata sequenza di eventi. La riforma del lavoro genera maggiore occupazione; maggiore occupazione genera maggiore produzione, rendendo più facilmente sostenibile la dinamica del debito pubblico. Contestualmente, i tagli di spesa la “riqualificano” accrescendo l’efficienza del settore pubblico.
Figura 1: spesa pubblica in Italia e in Europa (fonte Eurostat)
E’ opportuno ricordare che il criterio convenzionalmente accettato per stabilire la sostenibilità del debito pubblico fa riferimento alla differenza fra tasso di interesse sui titoli e tasso di crescita: tanto maggiore è questa differenza, tanto più lo Stato si trova in una potenziale posizione di insolvenza[1].
Ed è opportuno ricordare che la principale critica a questa impostazione fa riferimento al fatto che per l’operare del tradizionale meccanismo keynesiano e degli effetti moltiplicativi connessi – la riduzione della spesa pubblica, riducendo la domanda interna, contribuisce ad accrescere il tasso di disoccupazione, a ridurre conseguentemente il tasso di crescita e ad accrescere il rapporto debito pubblico/Pil.
Esistono, tuttavia, altri meccanismi che contribuiscono a generare incrementi del debito pubblico a fronte di riduzioni della spesa pubblica. Si tratta di meccanismi che attengono alla relazione fra spesa pubblica e crescita, da un lato, e alle determinanti dei tassi di interesse sui titoli, dall’altro. Per quanto riguarda i primi, si possono porre queste considerazioni.
1) La riduzione della spesa pubblica, in quanto contribuisce a ridurre la domanda interna, contribuisce ad accentuare la deflazione già in atto. E la deflazione comporta unaumento dell’onere reale del servizio sul debito, così che contrazioni di spesa generano aumenti del debito attraverso aumenti dell’onere degli interessi.
2) La riduzione della spesa pubblica riduce la domanda interna, a ragione del fatto che l’indebitamento (pubblico e privato) è una componente della domanda aggregata[2]. Questa dinamica è accentuata dal fatto che i tagli di spesa si traducono in riduzione e peggioramento dei servizi di welfare, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, così che, anche per questa via, minore spesa può implicare più debito.
3) In una condizione di elevata disoccupazione giovanile, che riguarda in larga misura individui con elevato titolo di studio, i tagli di spesa (ci si riferisce, in particolare, al blocco del turnover negli Enti di Ricerca) producono due ulteriori effetti recessivi, che, anche in questo caso, non solo non riducono ma semmai aumentano il rapporto debito pubblico/Pil. In primo luogo, la disoccupazione giovanile resta elevata e ciò implica minore produzione e minore crescita. In secondo luogo, e soprattutto, l’esistenza di un’ampia platea di individui disoccupati con elevata scolarizzazione fa sì che il loro elevato potenziale produttivo resti inutilizzato, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro.
Per quanto attiene alla dinamica dei tassi di interesse sui titoli di Stato, occorre chiarire che essa non si arresta riducendo la spesa. Ciò per queste ragioni. In primo luogo, i tassi di interesse sui titoli di Stato sono stati (e vengono) mantenuti elevati per attrarre capitali speculativi con l’obiettivo di mantenere in pareggio la bilancia dei pagamenti, a fronte dei deficit di partite correnti imputati alla scarsa competitività internazionale delle nostre imprese[3].
In secondo luogo, gioca qui un ruolo cruciale l’elevata evasione fiscale, dal momento che impedisce recuperi di gettito di entità tale da consentire più agevolmente di ripagare il debito.
In terzo luogo, e soprattutto, si può rilevare che gli elevati tassi di interesse sui titoli di Stato italiani sono, in ultima analisi, l’esito di una dinamica di lungo periodo di costanteriduzione della domanda interna connessa a una costante riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro.
Con una struttura produttiva composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni, il finanziamento bancario della produzione e degli investimenti assume massima rilevanza, dal momento che poche imprese italiane riescono a reperire risorse sui mercati finanziari[4]. Come è stato rilevato, la restrizione del credito è, in ultima analisi, imputabile alla bassa domanda aggregata, dal momento che una bassa domanda aggregata si associa a bassi profitti e all’aumento dell’insolvenza delle imprese.
In tal senso, la riduzione del tasso di crescita generata dalla contrazione della domanda interna, dalla riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro e, a questa associata, dalla restrizione del credito, riducendo la solvibilità dello Stato italiano costringe lo stesso a collocare titoli del debito pubblico sui mercati azionari con tassi di interesse più alti. Si può, quindi, dedurre che la dinamica degli interessi sui titoli del debito pubblico è anche influenzata dalla dinamica dell’offerta di credito, dal momento che la sua riduzione comporta una riduzione del tasso di crescita e la conseguente necessità (per l’aumento della probabilità di insolvenza) di collocare titoli di Stato sui mercati finanziari con tassi di interesse crescenti. Il che dà luogo a un circolo vizioso di causazione cumulativa, che va dalla bassa spesa pubblica al basso tasso di crescita alla restrizione del credito alla contrazione degli investimenti e alla necessità di accrescere i tassi di interesse sul debito. E’ significativo osservare che questa dinamica non è affatto neutrale sul piano della distribuzione del reddito, per una duplice ragione.
In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica (in quanto si associa a un aumento degli interessi sui titoli del debito pubblico) costituisce un trasferimento netto di ricchezza alla rendita finanziaria.
In secondo luogo, nell’impossibilità di “monetizzare” il debito, l’accresciuto onere del debito richiede incrementi di tassazione. Occorre chiarire che la ripartizione dell’onere fiscale, così come la distribuzione dei tagli di spesa, risente del potere contrattuale dei lavoratori e delle imprese nella sfera politica e, in tal senso, non risponde a criteri di efficienza di sistema[5]. In una condizione di elevata disoccupazione, è dunque lecito aspettarsi che il maggior peso della tassazione (e dei minori trasferimenti pubblici)[6]venga fatto gravare sul lavoro, accreditando la tesi di Marx secondo la quale “la causa del fatto che il patrimonio dello stato cade nelle mani dell’alta finanza [è] l’indebitamento continuamente crescente dello stato” e secondo la quale “L’indebitamento dello stato è l’interesse diretto dell’aristocrazia finanziaria quando governa e legifera per mezzo delle Camere; il disavanzo dello stato è infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offre all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo stato che, mantenuto artificialmente sull’orlo della bancarotta, è costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli”[7].
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