Con la sua prima Legge di Stabilità il governo Letta si conferma in continuità piena con il governo Monti attraverso il contenimento della spesa pubblica, la regressività nella imposizione fiscale e azioni per la crescita scarse e poco efficaci. Analisi di una manovra che “stabilizza” l’austerità e con essa la depressione.
di Paolo Pini [1]
La legge delega approvata ieri dal governo Letta ed inviata alla Commissione Europea conferma la rotta lungo la quale si muove il premier, che abbiamo indicatopochi giorni or sono, ovvero il rispetto dei vincoli europei, previsti nel Patto di Stabilità e Crescita, e poco altro.
Secondo il governo l’obiettivo sarebbe quello di far crescere il reddito dell’1% nel 2014 e del 2% nei due anni successivi. Si intenderebbe con ciò “rafforzare la ripresa in atto e intervenire sui fattori che limitano la competitività dell’economia”.
Avrebbe quindi dovuto essere una Legge di Stabilità che molti chiedevano finalizzata a far uscire il paese dalla depressione, rilanciarlo verso la ripresa e la crescita. La riduzione del cuneo fiscale a carico dei lavoratori e delle imprese era atteso come lo strumento cardine per rilanciare da un lato la domanda interna e dall’altro ridare un poco di competitività di prezzo alle imprese riducendone i costi di produzione.
Si era osservato che una riduzione del cuneo fiscale consistente per il primo anno potrebbe esercitare qualche effetto positivo, mentre una diluizione della riduzione del cuneo nel tempo, tre anni, rischierebbe di avere effetti quasi nulli su domanda e competitività. Era stata anche richiamata l’esperienza negativa emersa dal provvedimento del governo Prodi nel 2007: riduzione modesta e diluita, effetti nulli sull’economia. Il governo Prodi prevedeva una riduzione di 5 punti percentuali del cuneo fiscale, con manovra triennale, e con un intervento di 2,5 miliardi nel primo anno [2]. Il finanziamento era stato finanziato soprattutto con tagli lineari della spesa degli enti locali, che poi ha quasi immediatamente prodotto un aumento delle addizionali ed imposte locali. La Banca d’Italia stimava nel maggio 2008 (Relazione annuale sul 2007, p.145) che il provvedimento avesse ridotto il cuneo fiscale per un lavoratore con un reddito medio tra lo 0,3 e lo 0,7 punti percentuali, a seconda del comune di residenza [3].
Ciò che il governo Letta ha prodotto è stato proprio questa diluizione. In tre anni una riduzione del cuneo fiscale di 10,6 miliardi, di cui 5 a vantaggio dei lavoratori e 5,6 a vantaggio delle imprese. Il timing è il seguente: solo 2,5 miliardi per il 2014, e gli altri per il 2015 e 2016. L’intervento complessivo della legge di stabilità è di 27,3 miliardi nel triennio e di 11,6 miliardi nel 2014. Quindi l’operazione sul cuneo pesa poco più di 1/3 nel triennio e meno di 1/4 nel 2014. Nel complesso la pressione fiscale su lavoratori ed imprese dovrebbe ridursi di 1 solo punto percentuale nel triennio, dal 44,3 al 43,3. Si va ad agire su Irpef, Irap, contributi sociali,
Al fine di rispettare i vincoli europei, le risorse reperite sono 24,6 miliardi di cui 8,6 nel 2014 [4]. Per il 2014 quindi il saldo netto delle azioni previste è pari a 3 miliardi di euro, che consentiranno di soddisfare l’Europa per il vincolo deficit/PIL sotto il 3%. Gran parte delle risorse derivano da tagli alla spesa pubblica, 16,1 miliardi nel triennio, 3,5 nel 2014, non considerando gli effetti previsti dalle dismissioni immobiliari (1,5 miliardi previsti nel triennio, 1,4 nel 2014 [5]). Solo 3,8 sono i miliardi previsti da interventi impositivi sulle attività finanziarie (aumento dell’imposta di bollo) Occorre inoltre considerare gli interventi (maggiori entrate) sulle imposizioni locali, rimodulando le imposte passate, quelle esistenti e quelle abolite quali l’IMU sulla abitazione principale, introducendo la Service Tax (Trise [6]), con spostamento di imposizione dai proprietari anche agli inquilini, lasciando alle amministrazioni decentrate maggiori flessibilità nella fissazione delle imposte al fine di recuperare maggior gettito per far fronte a tagli previsti ed erogare servizi essenziali.
Il modello di riduzione del cuneo fiscale non sembra quindi diverso da quello passato, preferendo un intervento molto soft piuttosto che uno hard.
Una stima dalla Cgia di Mestre circa gli effetti dell’intervento sul cuneo fiscale porta a valutarlo come risibile: nello scenario più favorevole, 172 euro su base annuale il vantaggio fiscale, pari a 14 euro mensili, per un lavoratore dipendente che percepisce 971 euro netti mensili. Per altri livelli di reddito, inferiori o superiori a tale cifra, si scende a vantaggi fiscali irrisori sino a divenire nulli per fasce estreme di reddito.
Questo intervento eserciterà quindi effetti piuttosto contenuti sul reddito disponibile delle famiglie con lavoratori dipendenti, e quindi sulla domanda interna. A ciò si aggiunge che l’effetto deve essere valutato tenendo anche presente gli altri effetti della manovra sul reddito da lavoro disponibile, che potrebbe ridursi per gli esiti fiscali delle novità sull’imposizione locale che intervengono a seguito delle rimodulazioni delle tasse locali e degli interventi affatto da escludere sulle addizionali regionali e comunali.
La domanda interna rischia quindi di venire assai poco stimolata dalla operazione sul cuneo. Inoltre, dobbiamo considerare gli effetti recessivi prodotti dagli interventi sul contenimento delle spese della pubblica amministrazione. Benché siano previsti interventi a sostegno degli investimenti in capitale (tra cui completamento o manutenzione rete ferroviaria, autostradale [7]), od il rinnovo dell’ecobonus fiscale, l’alleggerimento dei vincoli di spesa per gli enti locali virtuosi, il complesso della spesa si riduce con effetti evidentemente deflazionistici sulla componente pubblica della domanda interna. I dipendenti della pubblica amministrazione continueranno inoltre ad essere penalizzati dall’ennesimo rinnovo del blocco della contrattazione nel settore, e quindi qui le loro retribuzioni rimarranno ferme per un ulteriore anno, ed inoltre viene cancellata l'indennità di vacanza contrattuale per il biennio 2013-2014. Ricordiamo inoltre che devono essere ancora trovati i 2,4 miliardi necessari per l’abolizione della seconda rata dell’IMU 2013.
L’obbiettivo vero della legge di stabilità non è la crescita, ma il rispetto dei vincoli previsti nel Patto di Stabilità e Crescita, come afferma il documento di sintesi: “La manovra consente di raggiungere l’obiettivo di indebitamento netto indicato nella Nota di aggiornamento del DEF. Il disavanzo nel 2014 risulterà pari al 2,5 per cento del PIL, per effetto di misure di sostegno all’economia pari allo 0,2 per cento del prodotto. La Legge di Stabilità include inoltre una norma che definisce interventi strutturali dell’ordine di 3 miliardi l’anno nel triennio 2015-17 al fine di raggiungere il saldo programmato per il 2015, 2016 e 2017 (rispettivamente 1,6%, 0,8% e 0,1% del PIL)” (Legge di Stabilità: sintesi, www.governo.it).
Anche a seguito di questi vincoli di austerità, con la depressione ed il double etriple dip in ambito europeo, il nostro paese ha perso 7 punti percentuali di reddito prodotto dal 2008, ed altri 2 circa ne perderà quest’anno, per un totale di 9. Ciononostante il governo Letta, in continuità piena con il governo Monti, rimane “fedele alla linea”: contenimento della spesa pubblica, regressività nella imposizione fiscale, azioni per la crescita scarse e poco efficaci. D’altra parte, gli obiettivi di crescita prima della Legge di Stabilità venivano fissati per il 2015 e 2016 poco sotto il 2%, con la Legge di Stabilità si arriverebbe al 2%[8], quindi si attesta che gli effetti della Legge sono risibili sulla crescita. Come volevasi dimostrare, lo afferma lo stesso governo: la Legge di Stabilità stabilizza l’austerità e con essa la depressione.
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