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venerdì 18 ottobre 2013
Quell’indissolubile legame fra industria e democrazia
Nelle economie avanzate la deindustrializzazione è un fenomeno diffuso che precede la recente ondata di globalizzazione economica. Oggi i paesi in via di sviluppo - che già mostrano una fase di deindustrializzazione nella loro traiettoria di crescita - si stanno trasformando in economie di servizi con livelli di reddito notevolmente più bassi. Con quali conseguenze per i loro sistemi politici e sociali?
di Dani Rodrik, Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2013
Le economie avanzate di oggi, in quasi tutti i casi, sono diventate quello che sono seguendo l'ormai logora via dell'industrializzazione. Una profusione di industrie manifatturiere o di trasformazione – tessile, dell'acciaio, automobilistica – è sorta dalle ceneri dei tradizionali sistemi artigianali e corporativi, trasformando le società da agricole in urbane. I contadini sono diventati operai, un processo che ha favorito non solo un incredibile aumento della produttività economica, ma anche una rivoluzione globale in termini di organizzazione socio-politica. Il movimento dei lavoratori ha portato a una politica di massa e, alla fine, alla democrazia.
Nel corso del tempo, il settore manifatturiero è stato soppiantato da quello dei servizi. In Gran Bretagna, culla della Rivoluzione industriale, l'occupazione manifatturiera era al 45% prima della prima guerra mondiale, poi è scesa a poco più del 30%, attestandosi su quei livelli fino ai primi anni '70, quando ha cominciato a precipitare. Oggi il settore industriale impiega poco meno del 10% della forza lavoro del paese.
Tutte le altre economie ricche sono passate anch'esse per un'analoga fase di industrializzazione, poi seguita da una deindustrializzazione. Negli Stati Uniti, all'inizio del XIX secolo, il settore manifatturiero impiegava meno del 3% della forza lavoro. Dopo aver toccato il 25-27% nel secondo terzo del ventesimo secolo, è iniziata la deindustrializzazione che ha portato, negli ultimi anni, a una quota occupazionale inferiore al 10%.
In Svezia, l'occupazione nel settore manifatturiero ha raggiunto un picco del 33% verso la metà degli anni '60, per poi precipitare a valori appena superiori al 10%. Anche in Germania, spesso considerata la più forte economia industriale nel mondo sviluppato, l'occupazione manifatturiera ha raggiunto un apice del 40% intorno al 1970, da allora diminuendo a ritmo costante. Come Robert Lawrence, dell'Università di Harvard, la deindustrializzazione è un fenomeno diffuso che precede la recente ondata di globalizzazione economica.
Solo pochi paesi in via di sviluppo, perlopiù nell'Asia orientale, sono stati capaci di emulare questo modello. Grazie ai mercati dell'export, la Corea del Sud ha avuto un'industrializzazione straordinariamente rapida. Con un'occupazione manifatturiera passata da valori a una sola cifra negli anni '50 a un massimo del 28% nel 1989 (da allora è scesa di dieci punti percentuali), in un arco di circa trent'anni la Corea del Sud ha subito una trasformazione che nei primi paesi industrializzati ha impiegato un secolo, o anche di più.
Tuttavia, nel caso del mondo in via di sviluppo, si è trattato di un modello di industrializzazione diverso: non solo il processo è stato lento, ma la deindustrializzazione ha cominciato a prendere piede molto prima.
Prendiamo il Brasile e l'India, ad esempio, due paesi emergenti che hanno avuto una performance abbastanza buona nell'ultimo decennio. In Brasile, la quota occupazionale nel settore manifatturiero non ha registrato grossi cambiamenti tra il 1950 al 1980, passando dal 12 al 15%. Dalla fine degli anni '80, però, il Brasile ha iniziato a deindustrializzarsi, un processo che la recente crescita ha fatto ben poco per fermare o invertire. D'altro canto, l'India offre un esempio ancora più eclatante: l'occupazione manifatturiera del paese è cresciuta fino a un misero 13% nel 2002, e da allora non ha fatto che scendere.
Non è chiaro perché i paesi in via di sviluppo mostrino già una fase di deindustrializzazione nella loro traiettoria di crescita. Tra le cause più ovvie vi sono la globalizzazione e l'apertura economica, che hanno reso difficile per paesi come il Brasile e l'India competere con i giganti industriali dell'Asia orientale. La concorrenza globale, però, non può essere l'unica imputata. È significativo, infatti, che anche i paesi dell'Asia orientale siano soggetti a una deindustrializzazione precoce.
Esaminiamo, ora, il caso della Cina. Considerato il suo status di potenza manifatturiera mondiale, sorprende scoprire che l'occupazione in questo settore non solo è bassa, ma sembra essere in declino da tempo. Anche se le statistiche cinesi sono controverse, si evince che l'occupazione manifatturiera ha raggiunto quota 15% intorno alla metà degli anni '90, attestandosi poi al di sotto di tale livello.
La Cina è un paese molto grande, naturalmente, con la maggior parte della forza lavoro ancora ubicata nelle zone rurali. Oggi, tuttavia, i lavoratori migranti tendono a trovare lavoro nei servizi più che nelle fabbriche. Allo stesso modo, è assai improbabile che il nuovo gruppo di paesi esportatori, tra cui il Vietnam e la Cambogia, potrà mai raggiungere i livelli di industrializzazione dei primi paesi industrializzati, come la Gran Bretagna e la Germania.
Una conseguenza immediata è che i paesi in via di sviluppo si stanno trasformando in economie di servizi con livelli di reddito notevolmente più bassi. Quando gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Germania e la Svezia hanno cominciato il processo di deindustrializzazione, il loro reddito pro capite si aggirava sui 9.000-11.000 dollari (in base ai prezzi del 1990). Nei paesi in via di sviluppo, invece, la produzione manifatturiera ha cominciato a decrescere, mentre il reddito pro capite è rimasto ben lontano da tale quota – in Brasile a 5.000 dollari, in Cina a 3.000 e in India a 2.000.
Le conseguenze economiche, sociali e politiche di una deindustrializzazione prematura devono essere ancora valutate a fondo. Sul fronte economico, è chiaro che essa ostacola la crescita e ritarda la convergenza con le economie avanzate. Le industrie manifatturiere sono ciò che "industrie scala-mobile": la produttività della manodopera nel settore manifatturiero tende a convergere alla frontiera, anche nelle economie in cui politiche, istituzioni e geografia cospirano per ritardare il progresso in altri settori dell'economia.
È per questo che, storicamente, crescita rapida e industrializzazione sono sempre state collegate (tranne che per una manciata di paesi di piccole dimensioni con un vasto patrimonio di risorse naturali). Meno spazio per l'industrializzazione implicherà quasi certamente meno miracoli di crescita in futuro.
Le conseguenze sociali e politiche sono meno misurabili, ma possono essere altrettanto gravi. Alcuni degli elementi costitutivi di una democrazia solida sono il sottoprodotto di una prolungata industrializzazione: un movimento operaio organizzato, partiti politici disciplinati e una concorrenza politica costruita sull'asse destra-sinistra.
L'abitudine al compromesso e alla moderazione nasce da una tradizione di lotte tra manodopera e capitale, nella quale si sono ampiamente identificati anche i lavoratori industriali. A causa di questo prematuro processo di deindustrializzazione, i paesi oggi in via di sviluppo dovranno intraprendere percorsi alternativi, ancora sconosciuti e forse più accidentati, verso la democrazia e il buon governo.
(17 ottobre 2013)
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