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venerdì 25 ottobre 2013

Il finto Termidoro di Berlusconi

di Barbara Spinelli, da Repubblica, 23 ottobre 2013



Si fa presto a dire basta, non se ne può più di frugare nelle pieghe di Berlusconi e del suo harem. Oppure ad annunciare, volendo forse crederci: «Il ventennio è chiuso, in modo politico. Alfano ha vinto. Non si ricomincia con la tarantella» (Enrico Letta, 6 ottobre). Si fa presto a dire che altro oggi incombe: c’è la crisi, e non abbiamo più tempo né voglia di camminare con la testa voltata indietro, l’occhio fisso su Sodoma e Gomorra in fiamme alle nostre spalle.

Non raccontateci quel che già sappiamo. Il corpo di Berlusconi che mi mostrate: non voglio vederlo!
Non sappiamo nulla invece, né del passato né di Gomorra. E serve la trasparenza sul corpo di Berlusconi, perché il corpo sta lì, dispositivo che ancora muove le cose. Perché ancor più crudamente rivela quel che resta opaco, impreciso: la politica che deperisce, il giudizio sulle menzogne di ieri che ingiudicate proseguono. Dietro le grida dell’harem, ecco i sussurri di chi senza dirlo lo sa: Berlusconi magari finisce ma non il suo sistema di potere, non le televisioni che controlla e usa, non il suo progetto di scardinare Costituzione e giustizia. La tarantella delle menzogne ricomincia, e sempre è condotta da oligarchie impenetrabili.

La menzogna della politica innanzitutto. Non è vero che il ventennio è stato chiuso «in modo politico »: al momento, sono i giudici ad aver deciso l’interdizione per frode fiscale, non il Parlamento. La politica italiana è tuttora priva di anticorpi. Vive nel torbido, se è vero che in Parlamento si trama per salvare il frodatore: ecco perché ogni paragone fra Larghe Intese e Grande Coalizione tedesca è frode aggiuntiva. Alfano «ha vinto»? Non si sa che vittoria sia. Se non continuasse la tarantella, Monti non avrebbe denunciato l’assoggettamento del governo ai capricci d’un leader dato per vinto.

O la menzogna su quel che è stato il ventennio. Non la provincia che gonfia il petto in Europa, non l’Italietta di Fellini-Amarcord (memorabile l’uomo accusato d’aver detto: «Se Mussolini va avanti così … io non lo so …») ma stando a quel che dice Ernesto Galli della Loggia, «la favola bella della fine degli Stati nazionali e l’alibi europeista, che negli ultimi vent’anni (ha riempito) il vuoto ideale e l’inettitudine politica di tanti» (Corriere, 20 ottobre). Solo chi falsifica la storia può credere che questo sia stato il berlusconismo, e non uno Stato-marionetta che ripete, all’infinito, l’incompiuta liberazione del dopo-Mussolini.

Non c’è bisogno della permanenza in Senato del leader, per la messinscena che secondo Gustavo Zagrebelsky sfascia la politica. Alfano e Quagliariello recitano un finto Termidoro post-rivoluzionario, ma Robespierre è sempre lì. E tra i Grandi Intenditori proseguono le trattative per cambiare la Costituzione, come il capo ha sempre voluto. Non riusciranno magari, ma l’obiettivo non muta anche se oggi lo chiamano governance.

A parole il progetto pare ridursi a 2-3 cose semplici: minor numero di parlamentari; fine del bicameralismo perfetto (le due Camere che fanno la stessa cosa). Ben diverso il proposito, opaco ma palese. In realtà si tratta di riscrivere la Carta, troppo parlamentare per i governi forti di cui c’è bisogno. Se così non fosse non sarebbe nata una solenne Commissione di saggi, voluta dal Quirinale, e i tempi della riforma sarebbero più brevi dei 12-16 mesi previsti. Inoltre avremmo già una nuova legge elettorale, e cesseremmo di considerarla parte della Costituzione da rifare.

Qualcuno si sarà imbattuto forse, tra l’8 luglio e l’8 ottobre, nel questionario online di Palazzo Chigi attorno alla riforma istituzionale. Un questionario che non nascondeva i propri convincimenti: la Carta così com’è blocca l’esecutivo, dà troppi poteri a deputati e senatori. La democrazia parlamentare non garantisce efficienza, né il prezioso bene che è la stabilità. Il costituzionalista Mauro Volpi ha definito «truffaldino» il formulario: «Tutto è giocato sui poteri del Capo del Governo (o di un Presidente potenziato, ndr), necessari a evitare “l’instabilità politica derivante” da un assetto parlamentare. Le parole pesano come pietre». Chi aveva idee contrarie non poteva esprimerle, tanto orientato era il quiz.

Se i saggi guardassero oltre le frontiere, vedrebbero la vera favola del ventennio: non il superamento degli Stati-nazione, ma la panacea di governi che fingono sovranità inesistenti, e l’esaltazione di sacre unioniche fanno blocco contro populisti o dissenzienti (le maggioranze parlamentari del 70-80% auspicate da Letta nell’intervista al New York Times del 15 ottobre). 

Vedrebbero il fondale furioso della crisi europea: l’impossibilità dei cittadini di influenzare i piani di austerità, l’assenza di una comune discussione pubblica, che rafforzi le Costituzioni nazionali estendendo il perimetro di regole e diritti. È il pericolo che ha spinto la Corte costituzionale tedesca a mettere paletti all’Europa federale: nella prima sentenza sul trattato di Maastricht nel ‘93, in quella sul Trattato di Lisbona nel 2009, in quella del 2011 sul Fondo salva-Stati. Lo ha fatto in un’ottica nazionalista, ma sapendo che il rischio oggi è la diminutio dei Parlamenti, non degli esecutivi. Il cosiddetto fiscal compact (Trattato di stabilità fiscale) ha messo in luce questi pericoli. Lo spiega bene uno dei principali costituzionalisti europei, Ingolf Pernice, che assieme ad altri giuristi ha elaborato un piano di democratizzazione delle istituzioni comunitarie (A Democratic Solution to the Crisis, Nomos 2012; del gruppo fa parte Giuliano Amato). Il Trattato di stabilità,
nella fase di elaborazione, s’è fatto senza i Parlamenti. Solo a cose fatte si chiede la partecipazione cittadina. Il Patto introduce inoltre una serie di sanzioni «automatiche », al posto di procedure concertate tra i responsabili davanti ai loro elettori.

Nella nota introduttiva al testo di Pernice, Amato lo riconosce: ovunque, nell’Unione, i cittadini temono una «perdita, un furto della sovranità ». In effetti nelle costituzioni democratiche è scritto che il cittadino è sovrano, non lo Stato-nazione né l’esecutivo. Al primo va restituita la sovranità perduta, ampliandola in casa e nell’Unione. Defraudati di poteri, i cittadini rigetteranno altrimenti l’Europa e le sue unions sacrées.
La tendenza dei governi italiani (da Berlusconi in poi) è stata di camminare in senso inverso. La scelta di riarmare l’esecutivo più che i cittadini e i Parlamenti è miope oltre che autoritaria. Ignora che la fedele osservanza delle Costituzioni è condizione d’efficienza e non intralcio.

Non è vero che i difensori della Costituzione aspirano allo status quo. Ben venga la loro battaglia, soprattutto se guarderà oltre le democrazie nazionali. Se farà nascere uno spazio pubblico europeo.
Virgilio Dastoli, presidente del Movimento europeo in Italia, ricorda che non è sufficiente reclamare, alle prossime elezioni europee, il diritto a scegliere il presidente della Commissione. L’elettore dovrà poter scegliere anche «un vero programma di governo per un’altra Europa: per uno spazio politico dove abbiano diritto di cittadinanza visioni radicalmente alternative di politiche economiche e sociali, e posizioni conflittuali sul significato della democrazia europea».

Probabilmente in Italia non avremo la Costituzione rifatta dai saggi. Manca lo spirito costituente. Già all’alba del berlusconismo, Bobbio ammoniva contro i ritocchi della Carta: nel dopoguerra fu possibile, «tra partiti radicalmente diversi, un patto di non aggressione reciproca di fronte al nemico comune. Oggi vedo una grande rissosità, che rende estremamente difficile mettere insieme una nuova assemblea costituente». Oggi sarebbe il cittadino a rimetterci. Non gli resterebbe che l’inerte, mesta protesta di Amarcord: «Se il governo va avanti così … io non lo so …».

(23 ottobre 2013)

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