di Renato Fioretti
Ancora oggi, dopo anni di discussioni, c’è chi sostiene che il sostanziale avvio della flessibilità nel nostro Paese e la successiva, diffusa, “precarizzazione” dei rapporti di lavoro – affatto inevitabile – sia da imputare alla legge 24 giugno 1997, numero 196; comunemente nota quale legge Treu, dal nome dell’allora Ministro del Lavoro che la controfirmò insieme a Prodi, Premier in carica.
Personalmente, ho sempre ritenuto questa posizione profondamente sbagliata. Frutto di superficialità e/o ignoranza; quando non dettata da forte strumentalità politica.
Dettata dall’ignoranza, quando ci si riferisce alla novità del “Contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo”, ossia, al c. d. “lavoro interinale” (di cui all’art. 1 della 196/97), facendola coincidere con l’inizio della “precarietà” che caratterizza la stragrande maggioranza degli attuali rapporti di lavoro.
Quella legge, in sostanza, anche se da un lato realizzava la grande novità di scindere – esclusivamente per periodi temporanei – il vincolo “diretto” esistente tra la figura del datore di lavoro e quella del lavoratore ad esso subordinato, inserendo tra gli stessi la figura della c. d. “Impresa fornitrice, ossia Agenzia”, lo faceva attraverso una serie di limiti e condizioni che garantivano ai lavoratori coinvolti di continuare a godere di tutele e diritti. Dalla precisa indicazione dei ristretti e specifici casi in cui era possibile ricorrere a tale strumento, ai motivi che ne impedivano l’utilizzo; fino a vietarne, espressamente, il ricorso per le lavorazioni che richiedessero sorveglianza medica speciale e per lavori particolarmente pericolosi!
Di carattere esclusivamente strumentale, invece, l’intento di coloro i quali rivolgono tale addebito alla 196/97 al solo scopo di distogliere l’attenzione dalla famigerata legge-quadro 14 febbraio 2003, numero 30 e dal suo decreto applicativo 10 settembre 2003, numero 276 (indicata anche con il nome di legge Maroni poiché, quest'ultimo in qualità di Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali ne fu il primo firmatario. Esponente di quella Lega che oggi vuol far credere di essere accanto ai Lavoratori).
Infatti, come ormai dovrebbe essere a tutti noto - anche se ancora troppi sono coloro che fingono di non averlo capito o, peggio ancora, continuano a negarlo - fu il decreto legislativo 276/03, fedele espressione dei principi contenuti nella 30/03, a produrre le condizioni di massima flessibilità dei rapporti di lavoro cui far discendere lo stato di precarietà quale condizione comune alla totalità delle tipologie contrattuali attualmente previste dal nostro ordinamento.
Naturalmente, come ampiamente prevedibile, in un confronto/scontro di questo livello, tutto fa parte del gioco; per cui le “mezze notizie” e quelle “addomesticate”, se non vere e proprie menzogne, si alternano e spesso si sommano alla lettura “di parte” di qualunque dato statistico disponibile.
Secondo questa logica, in un recente articolo su di un quotidiano minore (“Il Foglio”, 8 gennaio 2018), Pietro Ichino, nel sostenere che: “Bisogna resistere alla tentazione di usare i dati forniti dall’Istat sull’aumento dell’occupazione come dimostrazione della bontà della legge di riforma del lavoro” (operata da Renzi, nel 2015), dimentica altre sue precedenti (roboanti) dichiarazioni secondo le quali, senza alcun dubbio, l’aumento del numero degli occupati andava riconosciuto al Job act e ai più recenti provvedimenti di legge in materia di lavoro.
Contemporaneamente, però – tanto per smentirsi, subito dopo aver sostenuto l’esigenza di resistere alla tentazione di affrettare le valutazioni di merito – rileva che ben due dati statistici confermano, tanto singolarmente, quanto congiuntamente considerati, che, a dimostrazione della bontà delle stesse leggi, negli ultimi anni, si è verificata una sostanziale invarianza del numero dei licenziamenti; inoltre, c’è stata una drastica riduzione del contenzioso giudiziale.
Interessante, quindi, ricercare quanto di “non detto”, errato, parzialmente inesatto e/o semplicemente menzognero trapeli dalle affermazioni di un così esperto giuslavorista che, personalmente, continuo a considerare funzionalmente “organico” alle esigenze dei datori di lavoro e ossessivamente teso alla ricerca di soluzioni legislative che ridimensionino il livello di tutele e garanzie dei diritti del quale godevano i lavoratori italiani solo fino a pochi anni fa!
Di carattere esclusivamente strumentale, invece, l’intento di coloro i quali rivolgono tale addebito alla 196/97 al solo scopo di distogliere l’attenzione dalla famigerata legge-quadro 14 febbraio 2003, numero 30 e dal suo decreto applicativo 10 settembre 2003, numero 276 (indicata anche con il nome di legge Maroni poiché, quest'ultimo in qualità di Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali ne fu il primo firmatario. Esponente di quella Lega che oggi vuol far credere di essere accanto ai Lavoratori).
Infatti, come ormai dovrebbe essere a tutti noto - anche se ancora troppi sono coloro che fingono di non averlo capito o, peggio ancora, continuano a negarlo - fu il decreto legislativo 276/03, fedele espressione dei principi contenuti nella 30/03, a produrre le condizioni di massima flessibilità dei rapporti di lavoro cui far discendere lo stato di precarietà quale condizione comune alla totalità delle tipologie contrattuali attualmente previste dal nostro ordinamento.
Naturalmente, come ampiamente prevedibile, in un confronto/scontro di questo livello, tutto fa parte del gioco; per cui le “mezze notizie” e quelle “addomesticate”, se non vere e proprie menzogne, si alternano e spesso si sommano alla lettura “di parte” di qualunque dato statistico disponibile.
Secondo questa logica, in un recente articolo su di un quotidiano minore (“Il Foglio”, 8 gennaio 2018), Pietro Ichino, nel sostenere che: “Bisogna resistere alla tentazione di usare i dati forniti dall’Istat sull’aumento dell’occupazione come dimostrazione della bontà della legge di riforma del lavoro” (operata da Renzi, nel 2015), dimentica altre sue precedenti (roboanti) dichiarazioni secondo le quali, senza alcun dubbio, l’aumento del numero degli occupati andava riconosciuto al Job act e ai più recenti provvedimenti di legge in materia di lavoro.
Contemporaneamente, però – tanto per smentirsi, subito dopo aver sostenuto l’esigenza di resistere alla tentazione di affrettare le valutazioni di merito – rileva che ben due dati statistici confermano, tanto singolarmente, quanto congiuntamente considerati, che, a dimostrazione della bontà delle stesse leggi, negli ultimi anni, si è verificata una sostanziale invarianza del numero dei licenziamenti; inoltre, c’è stata una drastica riduzione del contenzioso giudiziale.
Interessante, quindi, ricercare quanto di “non detto”, errato, parzialmente inesatto e/o semplicemente menzognero trapeli dalle affermazioni di un così esperto giuslavorista che, personalmente, continuo a considerare funzionalmente “organico” alle esigenze dei datori di lavoro e ossessivamente teso alla ricerca di soluzioni legislative che ridimensionino il livello di tutele e garanzie dei diritti del quale godevano i lavoratori italiani solo fino a pochi anni fa!
Rispetto all’aumento dell’occupazione, in particolare, ci sono alcune precisazioni da fare in aggiunta alle certezze - sempre deleterie - di fonte governativa.
Innanzi tutto, pur (doverosamente) apprezzando la positiva “inversione di marcia”, appare un po' fuori luogo mostrare tante entusiasmo rispetto a un dato occupazionale che torna ad essere più o meno pari a quello di ben dieci anni fa; del periodo pre/crisi, per intenderci.
Tra l’altro, come già (personalmente) evidenziato in altro sede, ma totalmente sottaciuto da Ichino, non è insignificante – ai fini di una corretta ed esauriente informazione – riportare il dato relativo al numero di ore lavorate, singolarmente e complessivamente, nel nostro paese. In questo senso, nei paesi economicamente più avanzati, negli ultimi anni, si è registrata una generalizzata ma moderata riduzione delle ore di lavoro pro/capite; in Italia, in dieci anni, si è registrata una riduzione pari a oltre trenta milioni di ore lavorate: dai 460 milioni di ore del 2006, ai 428 del 2016!
In pratica, anche se non è oggettivamente falso sostenere che negli ultimi anni l’occupazione in Italia è aumentata, non risponde a verità, come, invece, si tenta di far credere, che sia aumentato, in termini complessivi, il numero di coloro i quali lavorano; infatti, siamo agli stessi valori del 2008.
Inoltre, considerato il minor numero di ore di lavoro pro/capite, si va realizzando una condizione in cui: seppure aumenta il numero di coloro che lavorano, essi lo fanno per un numero di ore considerevolmente più basso rispetto al passato.
La conseguenza è rappresentata dalla nascita e dallo sviluppo di quel fenomeno, ben noto e diffuso già da alcuni anni in Usa, che produce i c.d. “working poor”; cioè lavoratori poveri, con bassi o bassissimo livelli di reddito, divisi tra salari da fame e contratti a intermittenza e/o di breve o brevissima durata.
Di questo, naturalmente, nell’articolo de “Il Foglio”, si evita di parlare.
A dimostrazione del fatto che non bisogna lasciarsi raggirare dalla relativa positività del singolo dato statistico – spesso strumentalmente “estrapolato” dalla realtà complessiva – e a sostegno di quanto appena sostenuto, evidenzio che, nel dicembre 2017, l’Ufficio statistico dell’Unione Europea (Eurostat, corrispondente al nostro Istat), ha comunicato i dati sulla povertà in Europa e rilevato che il nostro Paese detiene il triste primato del numero delle persone povere rispetto al resto della popolazione.
Le nostre rilevazioni Istat, relative all’anno 2016, confermano l’infelice classifica.
In Italia è pari a 1 milione e 619 mila il numero delle famiglie, corrispondente a 4 milioni e 742 mila individui, che vivono nella condizione di non raggiungere quella soglia rappresentata dal pieno godimento dell’insieme dei beni e servizi che, nel contesto italiano, vengono considerati essenziali per una determinata famiglia per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile; la c. s. povertà “assoluta”.
Sono, invece, ben 2 milioni e 734 mila le famiglie, pari a 8 milioni e 465 mila individui, che vivono una condizione di povertà c. d. “relativa”.
Considerato il numero complessivo dei residenti nel nostro Paese pari a 60 milioni e 656 mila unità (al 1 gennaio 2016, sono 55 milioni e 600 mila unità quelli con cittadinanza italiana), gli oltre 13 milioni di cittadini (13,176 mila) che, complessivamente, vivono in condizioni di povertà assoluta o relativa, ne rappresentano una cospicua e preoccupante quota; il cui numero mal si coniuga con gli “inni alla vittoria” sulla disoccupazione.
Non sfugga, inoltre, un’altra “falsa verità”. Il senatore Pd afferma, infatti, con l’usuale certezza:” Negli ultimi anni, c’è stata una sostanziale invarianza del numero dei licenziamenti”. Il che dimostrerebbe, a suo parere, l’infondatezza della tesi secondo la quale, in un non lontano futuro, le più recenti norme in materia di legislazione del lavoro avrebbero ulteriormente precarizzato i rapporti di lavoro; agevolando la “licenziabilità” dei lavoratori.
A questo riguardo, la mezza/verità è rappresentata del fatto che non c’è stato alcun boom; nel senso di uno spropositato aumento del numero dei licenziamenti.
È vero, il numero è rimasto pressoché stabile.
Quello che appare molto grave è che un così valente “addetto ai lavori” ritenga, però, di poter sorvolare sui reali motivi che hanno determinato la sostanziale invarianza dei licenziamenti.
Essa, infatti, in verità, contrariamente a quanto sostenuto, nulla smentisce circa la precarizzazione dei rapporti di lavoro.
Il numero dei licenziamenti è rimasto sostanzialmente invariato per due, intuibili, motivi.
Il primo dei quali rappresentato dal fatto che esso, in passato, non è mai stato molto consistente e, infatti, il suo numero contenuto – a parere di tanti – non motivava la vera e propria crociata avverso l’art. 18 e, in particolare, contro la “giusta causa” che, invece sostenevano, con inusitata perfidia, i maligni: “Ingolfa i tribunali, rallenta le decisioni dei giudici del lavoro e penalizza i datori di lavoro a causa dell’indeterminatezza degli indennizzi!”.
Il secondo motivo, inopinatamente non menzionato, è (molto semplicemente) rappresentato dal fatto che le più recenti assunzioni con contratto a tempo indeterminato – che non ha nulla a che vedere con quello di vecchio tipo, che offriva veramente, salvo l’eventuale licenziamento “per giusta causa”, la serena continuità del rapporto di lavoro – sono state realizzate ai sensi del comma 118 della legge di stabilità del 2015. Quella norma prevedeva – a favore dei datori di lavoro che procedevano ad assunzioni con rapporto di lavoro a tempo indeterminato – uno sgravio contributivo, pari al 100 per cento, per la durata di 36 mesi; quindi, a conti fatti, fino al 31 dicembre 2018.
Ecco svelato il motivo per il quale negli anni 2016/2017 – non essendo ancora scaduti i tre anni di sgravi fiscali – vi è stata sostanziale invarianza del numero dei licenziamenti.
Evidentemente, Ichino sarà tra coloro i quali saranno costretti a ricredersi, quando, nel corso del corrente anno – come in molti paventiamo – si realizzerà un’impennata nel numero dei licenziamenti, causa l’esaurirsi degli sgravi.
L’altro elemento, che non dovrebbe sorprendere un esperto giuslavorista, né essere considerato contraddittorio con l’invariato numero dei licenziamenti – per i motivi innanzi evidenziati dallo scrivente – è rappresentato dalla considerevole riduzione del “contenzioso giudiziale”.
È strano che, a questo riguardo, si finga di dimenticare o, addirittura, di non sapere che, già da alcuni anni, è in vigore una legge grazie alla quale ai lavoratori fu trasmesso un vile avvertimento; più o meno di questa natura: “Se, in futuro, volete continuare a lavorare, evitate di impugnare i provvedimenti relativi a nostre risoluzioni unilaterali del rapporto di lavoro”.
Questo vale per i licenziamenti individuali e collettivi e, in assoluto, per i rapporti di lavoro a termine, quelli a progetto etc, etc.
Ciò è stato realizzato in modo estremamente semplice e subdolo; ricorrendo alla norma secondo la quale la c.d. “impugnazione” stragiudiziale dell’atto di recesso, adottato da un datore di lavoro, va avviata entro il termine massimo e improrogabile di 60 giorni.
Così facendo – con buona pace degli ipocriti sostenitore della norma, secondo i quali la stessa aveva il solo scopo di sveltire le vertenze in atto ed accelerare la soluzione dei futuri ricorsi – si consegnò ai datori di lavoro un fenomenale strumento; che li poneva in una condizione di straordinario vantaggio psicologico e strategico, rispetto ai lavoratori. Infatti, a partire da quel momento, chiunque, ricorrendo alla sin troppo facile promessa di offrire, in futuro, una nuova proposta di lavoro – quanto prima e/o appena possibile, al massimo entro un paio di mesi – avrebbe potuto dissuadere un lavoratore dall’intraprendere, entro i fatidici sessanta giorni, qualsiasi azione oppositiva a un atto unilaterale. Trascorsi i sessanta giorni, gabbato lo santo!
C’è, inoltre, un secondo ma altrettanto grave motivo – anch’esso sottaciuto dai sostenitori delle “ragioni” dei datori di lavoro – che ha prodotto la situazione che, apparentemente, ha sorpreso perfino il senatore Pd: la drastica riduzione del contenzioso giudiziale.
La motivazione è di una semplicità sconvolgente: la costante, instancabile e certosina opera di “depotenziamento” dei poteri e delle prerogative dei giudici del lavoro, portato avanti, senza soluzione di continuità, dai governi Berlusconi, dal falso “governo tecnico” Monti e, soprattutto per quanto attiene ai licenziamenti individuali, da quello Renzi, ha, indirettamente, determinato una drastica riduzione del numero dei ricorsi al giudice, da parte dei lavoratori. Il meccanismo è molto semplice perché riflette le considerazioni cui è, oggi, tenuto qualunque lavoratore dovesse apprestarsi a ricorrere al giudice del lavoro: “Considerato il giudice nell’impossibilità di assumere l’una o l’altra decisione, a sua discrezione e insindacabile giudizio – come sempre avveniva, in passato – ma, piuttosto, obbligato ad applicare quanto espressamente già (perentoriamente) previsto dalla legge, sono nella condizione di affrontare il (più che concreto) rischio di ingenti e inutili spese processuali?”
In questo quadro, sostenere – attraverso le pagine de “Il Foglio” – che “L’occupazione è in crescita e la riforma, sostanzialmente, funziona; si tratta solo di implementare il progetto di riforma del mercato del lavoro a più adeguate modifiche organizzative degli uffici pubblici preposti”, equivale a rivalutare la bufala dei “sette milioni di baionette” che Mussolini cercava di somministrare agli italiani. In realtà, ai sette milioni di baionette ci si sarebbe pure arrivati; quelle che mancavano erano le corrispondenti armi da fuoco!
fonte: MicroMega
Innanzi tutto, pur (doverosamente) apprezzando la positiva “inversione di marcia”, appare un po' fuori luogo mostrare tante entusiasmo rispetto a un dato occupazionale che torna ad essere più o meno pari a quello di ben dieci anni fa; del periodo pre/crisi, per intenderci.
Tra l’altro, come già (personalmente) evidenziato in altro sede, ma totalmente sottaciuto da Ichino, non è insignificante – ai fini di una corretta ed esauriente informazione – riportare il dato relativo al numero di ore lavorate, singolarmente e complessivamente, nel nostro paese. In questo senso, nei paesi economicamente più avanzati, negli ultimi anni, si è registrata una generalizzata ma moderata riduzione delle ore di lavoro pro/capite; in Italia, in dieci anni, si è registrata una riduzione pari a oltre trenta milioni di ore lavorate: dai 460 milioni di ore del 2006, ai 428 del 2016!
In pratica, anche se non è oggettivamente falso sostenere che negli ultimi anni l’occupazione in Italia è aumentata, non risponde a verità, come, invece, si tenta di far credere, che sia aumentato, in termini complessivi, il numero di coloro i quali lavorano; infatti, siamo agli stessi valori del 2008.
Inoltre, considerato il minor numero di ore di lavoro pro/capite, si va realizzando una condizione in cui: seppure aumenta il numero di coloro che lavorano, essi lo fanno per un numero di ore considerevolmente più basso rispetto al passato.
La conseguenza è rappresentata dalla nascita e dallo sviluppo di quel fenomeno, ben noto e diffuso già da alcuni anni in Usa, che produce i c.d. “working poor”; cioè lavoratori poveri, con bassi o bassissimo livelli di reddito, divisi tra salari da fame e contratti a intermittenza e/o di breve o brevissima durata.
Di questo, naturalmente, nell’articolo de “Il Foglio”, si evita di parlare.
A dimostrazione del fatto che non bisogna lasciarsi raggirare dalla relativa positività del singolo dato statistico – spesso strumentalmente “estrapolato” dalla realtà complessiva – e a sostegno di quanto appena sostenuto, evidenzio che, nel dicembre 2017, l’Ufficio statistico dell’Unione Europea (Eurostat, corrispondente al nostro Istat), ha comunicato i dati sulla povertà in Europa e rilevato che il nostro Paese detiene il triste primato del numero delle persone povere rispetto al resto della popolazione.
Le nostre rilevazioni Istat, relative all’anno 2016, confermano l’infelice classifica.
In Italia è pari a 1 milione e 619 mila il numero delle famiglie, corrispondente a 4 milioni e 742 mila individui, che vivono nella condizione di non raggiungere quella soglia rappresentata dal pieno godimento dell’insieme dei beni e servizi che, nel contesto italiano, vengono considerati essenziali per una determinata famiglia per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile; la c. s. povertà “assoluta”.
Sono, invece, ben 2 milioni e 734 mila le famiglie, pari a 8 milioni e 465 mila individui, che vivono una condizione di povertà c. d. “relativa”.
Considerato il numero complessivo dei residenti nel nostro Paese pari a 60 milioni e 656 mila unità (al 1 gennaio 2016, sono 55 milioni e 600 mila unità quelli con cittadinanza italiana), gli oltre 13 milioni di cittadini (13,176 mila) che, complessivamente, vivono in condizioni di povertà assoluta o relativa, ne rappresentano una cospicua e preoccupante quota; il cui numero mal si coniuga con gli “inni alla vittoria” sulla disoccupazione.
Non sfugga, inoltre, un’altra “falsa verità”. Il senatore Pd afferma, infatti, con l’usuale certezza:” Negli ultimi anni, c’è stata una sostanziale invarianza del numero dei licenziamenti”. Il che dimostrerebbe, a suo parere, l’infondatezza della tesi secondo la quale, in un non lontano futuro, le più recenti norme in materia di legislazione del lavoro avrebbero ulteriormente precarizzato i rapporti di lavoro; agevolando la “licenziabilità” dei lavoratori.
A questo riguardo, la mezza/verità è rappresentata del fatto che non c’è stato alcun boom; nel senso di uno spropositato aumento del numero dei licenziamenti.
È vero, il numero è rimasto pressoché stabile.
Quello che appare molto grave è che un così valente “addetto ai lavori” ritenga, però, di poter sorvolare sui reali motivi che hanno determinato la sostanziale invarianza dei licenziamenti.
Essa, infatti, in verità, contrariamente a quanto sostenuto, nulla smentisce circa la precarizzazione dei rapporti di lavoro.
Il numero dei licenziamenti è rimasto sostanzialmente invariato per due, intuibili, motivi.
Il primo dei quali rappresentato dal fatto che esso, in passato, non è mai stato molto consistente e, infatti, il suo numero contenuto – a parere di tanti – non motivava la vera e propria crociata avverso l’art. 18 e, in particolare, contro la “giusta causa” che, invece sostenevano, con inusitata perfidia, i maligni: “Ingolfa i tribunali, rallenta le decisioni dei giudici del lavoro e penalizza i datori di lavoro a causa dell’indeterminatezza degli indennizzi!”.
Il secondo motivo, inopinatamente non menzionato, è (molto semplicemente) rappresentato dal fatto che le più recenti assunzioni con contratto a tempo indeterminato – che non ha nulla a che vedere con quello di vecchio tipo, che offriva veramente, salvo l’eventuale licenziamento “per giusta causa”, la serena continuità del rapporto di lavoro – sono state realizzate ai sensi del comma 118 della legge di stabilità del 2015. Quella norma prevedeva – a favore dei datori di lavoro che procedevano ad assunzioni con rapporto di lavoro a tempo indeterminato – uno sgravio contributivo, pari al 100 per cento, per la durata di 36 mesi; quindi, a conti fatti, fino al 31 dicembre 2018.
Ecco svelato il motivo per il quale negli anni 2016/2017 – non essendo ancora scaduti i tre anni di sgravi fiscali – vi è stata sostanziale invarianza del numero dei licenziamenti.
Evidentemente, Ichino sarà tra coloro i quali saranno costretti a ricredersi, quando, nel corso del corrente anno – come in molti paventiamo – si realizzerà un’impennata nel numero dei licenziamenti, causa l’esaurirsi degli sgravi.
L’altro elemento, che non dovrebbe sorprendere un esperto giuslavorista, né essere considerato contraddittorio con l’invariato numero dei licenziamenti – per i motivi innanzi evidenziati dallo scrivente – è rappresentato dalla considerevole riduzione del “contenzioso giudiziale”.
È strano che, a questo riguardo, si finga di dimenticare o, addirittura, di non sapere che, già da alcuni anni, è in vigore una legge grazie alla quale ai lavoratori fu trasmesso un vile avvertimento; più o meno di questa natura: “Se, in futuro, volete continuare a lavorare, evitate di impugnare i provvedimenti relativi a nostre risoluzioni unilaterali del rapporto di lavoro”.
Questo vale per i licenziamenti individuali e collettivi e, in assoluto, per i rapporti di lavoro a termine, quelli a progetto etc, etc.
Ciò è stato realizzato in modo estremamente semplice e subdolo; ricorrendo alla norma secondo la quale la c.d. “impugnazione” stragiudiziale dell’atto di recesso, adottato da un datore di lavoro, va avviata entro il termine massimo e improrogabile di 60 giorni.
Così facendo – con buona pace degli ipocriti sostenitore della norma, secondo i quali la stessa aveva il solo scopo di sveltire le vertenze in atto ed accelerare la soluzione dei futuri ricorsi – si consegnò ai datori di lavoro un fenomenale strumento; che li poneva in una condizione di straordinario vantaggio psicologico e strategico, rispetto ai lavoratori. Infatti, a partire da quel momento, chiunque, ricorrendo alla sin troppo facile promessa di offrire, in futuro, una nuova proposta di lavoro – quanto prima e/o appena possibile, al massimo entro un paio di mesi – avrebbe potuto dissuadere un lavoratore dall’intraprendere, entro i fatidici sessanta giorni, qualsiasi azione oppositiva a un atto unilaterale. Trascorsi i sessanta giorni, gabbato lo santo!
C’è, inoltre, un secondo ma altrettanto grave motivo – anch’esso sottaciuto dai sostenitori delle “ragioni” dei datori di lavoro – che ha prodotto la situazione che, apparentemente, ha sorpreso perfino il senatore Pd: la drastica riduzione del contenzioso giudiziale.
La motivazione è di una semplicità sconvolgente: la costante, instancabile e certosina opera di “depotenziamento” dei poteri e delle prerogative dei giudici del lavoro, portato avanti, senza soluzione di continuità, dai governi Berlusconi, dal falso “governo tecnico” Monti e, soprattutto per quanto attiene ai licenziamenti individuali, da quello Renzi, ha, indirettamente, determinato una drastica riduzione del numero dei ricorsi al giudice, da parte dei lavoratori. Il meccanismo è molto semplice perché riflette le considerazioni cui è, oggi, tenuto qualunque lavoratore dovesse apprestarsi a ricorrere al giudice del lavoro: “Considerato il giudice nell’impossibilità di assumere l’una o l’altra decisione, a sua discrezione e insindacabile giudizio – come sempre avveniva, in passato – ma, piuttosto, obbligato ad applicare quanto espressamente già (perentoriamente) previsto dalla legge, sono nella condizione di affrontare il (più che concreto) rischio di ingenti e inutili spese processuali?”
In questo quadro, sostenere – attraverso le pagine de “Il Foglio” – che “L’occupazione è in crescita e la riforma, sostanzialmente, funziona; si tratta solo di implementare il progetto di riforma del mercato del lavoro a più adeguate modifiche organizzative degli uffici pubblici preposti”, equivale a rivalutare la bufala dei “sette milioni di baionette” che Mussolini cercava di somministrare agli italiani. In realtà, ai sette milioni di baionette ci si sarebbe pure arrivati; quelle che mancavano erano le corrispondenti armi da fuoco!
fonte: MicroMega
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