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mercoledì 3 gennaio 2018

Lavoro, quello gratis, o quasi, già esiste

L'analisi del segretario della Nidil Cgil, Antonio Capezzuto: il sindacato non può far nulla, i lavoratori non denunciano i soprusi: troppa paura di perdere anche quel poco che hanno.

di Luciano Trapanese

Lavoro nero? Peggio: lavoro sotto ricatto. Un esempio? Eccolo, è quello di una ragazza diplomata della provincia di Salerno: «Da mesi lavoro come cucitrice. E' dura, non abbiamo pause. Nessuna tutela. La paga? Tre euro l'ora, quando va bene. Se qualcuna dice che è poco, il giorno dopo è licenziata. C'è chi si è rivolto al sindacato, ma poi non è stato fatto nulla. Chi si ribella non solo perde quel poco che ha, ma rischia di rimanere esclusa anche da questo misero mercato del lavoro».




E' una storia emblematica, non l'unica. Anzi. Sono tante, troppe. E non solo al Sud. In una bellissima inchiesta de Il Tirreno, si è scoperto che nella ricca Toscana la situazione è identica. A pagarne le conseguenze sono sempre loro, i giovani. Ma anche l'altra categoria debole, i cinquantenni che hanno perso il lavoro. Troppo vecchi per sperare in una nuova vera assunzione. Troppo giovani per ambire alla pensione.
Antonio Capezzuto è segretario provinciale della Nidil Cgil di Salerno, e si occupa proprio dei lavoratori con contratti atipici, quelli più esposti allo sfruttamento selvaggio. I nuovi schiavi.

«E' una situazione diffusa – racconta – nella nostra realtà. Si è in bilico tra il lavoro nero, completamente sommerso, e questo tipo di contratti. E' la brutale rappresentazione del ricatto subito da centinaia di migliaia di lavoratori. Non possono dire niente. O accetti o te ne vai. E se decidi di lasciare c'è un esercito di disoccupati pronto a prendere il tuo posto».

Non c'è un solo settore che sfugge a queste “regole”.

«Dalle cooperative sociali, al turismo, ai call center, che ancora funzionano in tanti scantinati, senza dimenticare il commercio, i bar, e tante, tante aziende».

Ma non solo. «Beh, il resto – continua Capezzuto – l'ha fatto Garanzia Giovani, con quei sei mesi di tirocinio.Certo, con qualcuno ha funzionato, ma in tanti sono stati spremuti e basta. Altri sono stati pagati molto meno di quanto avrebbero dovuto, solo perché l'imprenditore conservava per sé parte dei soldi...».

Tutta colpa della crisi? In parte, buona parte, ma non solo.

«Una volta nelle fabbriche gli operai conoscevano i loro doveri e i loro diritti. Era anche facile fare corpo unico per ottenere il rispetto dei contratti. Oggi s'è tutto frammentato, e molto spesso i diritti si conoscono dopo, quando quel lavoro, anche sottopagato, non c'è più. Ma è soprattutto una cosa che impedisce al sindacato di fare qualcosa, e cioè il ricatto, forte e costante al quale i lavoratori sono sottoposti».

Il ricatto. Una parola che torna, e fa rima sempre più spesso con sfruttamento.

«Nessuno li denuncia – continua Capezzuto –. Ho anche difficoltà a considerarli datori di lavoro. La paura di rimanere esclusi, in questo periodo, è troppo grande. Come per la vicenda della ragazza che operava come cucitrice. In quel caso siamo riusciti ad avere almeno qualche agevolazione in più».

Ma il problema non è solo la paga da “terzo mondo”. «Vero – insiste Capezzuto -, vengono negati tanti diritti, la maternità, la malattia, il congedo parentale, le ferie. Questi lavoratori non vanno in ferie. Lavorano e basta, e per paghe da fame».

Due sono le tipologie di lavoro diffuse, soprattutto al sud, in particolare in Campania. «Il lavoro nero, completamente sommerso. E sul quale c'è poco da fare se non viene scoperto. E il part time. C'è gente che ha contratti per un'ora al giorno, e invece ne lavora sette, otto».

Soluzioni? Mica semplice, soprattutto in un momento economico così difficile. Che ha svalutato il valore del lavoro. Lo ha ridotto quasi a nulla.

«Sicuramente dovrebbero esserci più controlli da parte dell'ispettorato. Ma gli impiegati sono pochi. Ne servirebbero tanti di più per ridurre i casi di sfruttamento. E poi, norme restrittive sul mercato del lavoro. E una drastica riduzione della miriade di forme contrattuali: non tutelano, anzi consentono a tanti di aggirare la legge, naturalmente a danno dei dipendenti. E infine una migliore cultura imprenditoriale».

«In questi anni – continua Capezzuto – sono stati regalati soldi alle aziende per incentivare le assunzioni. Ammettendo implicitamente che il dipendente è un costo e non una risorsa, contribuendo a svalutare ulteriormente il lavoro. Sarebbe stato più utile investire in nuove aziende, più al passo con i tempi, più competitive e con una genuina capacità imprenditoriale. In questo territorio ci sono molte realtà che funzionano, ma tante altre sono gestite davvero male. Si parla tanto di industria 4.0e invece mi sembra si stia ancora al medioevo. Altrove è esplosa la gig economy(l'economia del lavoretto), come quella dei fattorini in bicicletta, che utilizza anche moderne tecnologie ed è al limite tra il lavoro free lance e quello da dipendente. Qui non sappiamo ancora cos'è. Come molto poco si pensa all'innovazione, siamo fermi, in attesa di chissà cosa». E nel frattempo a crescere è solo lo sfruttamento selvaggio.

fonte: Ottopagine

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