Mollare tutto e partire, è il coraggio per cambiare vita, realizzare un sogno o semplicemente iniziare a vivere veramente. I numeri di chi lascia il Belpaese in cerca di lavoro altrove sono in costante crescita. Fuga all’estero, disperazione di un’Italia che non c’è più.
Continua e aumenta la “fuga” degli italiani all’estero, nel 2016 sarebbero stati 124 mila gli espatriati, a partire non sono soltanto i giovani laureati, ma anche i più adulti e addirittura i pensionati. È questa la fotografia di un “esodo”, se vogliamo, che mostra un’emigrazione italiana diversa rispetto al passato.
“Mollotutto” è un progetto fondato nel 1998 dal giornalista Massimo Dallaglio, che ha come obiettivo quello di raccontare la storia di chi ha seguito i propri sogni.
Mollare tutto non significa per forza di cose andare all’estero, ma se nel nido natio non vi sono le condizioni per realizzare la propria vita, la soluzione è partire. Il magazine on-line mollotutto.inforaccoglie le testimonianze di chi ha trovato il coraggio di cambiare vita per rimanere fedele ai propri obiettivi, il sito offre inoltre utili spunti pratici per chi decidesse di trasferirsi all’estero.Chi parte oggi dall’Italia? Com’è cambiata negli anni l’emigrazione italiana? Sputnik Italia ne ha parlato con Massimo Dallaglio, giornalista, fondatore del network “mollotutto”.
— Massimo, chi oggi lascia l’Italia in cerca di una vita migliore?
— La partenza dall’Italia è assolutamente trasversale: partono studenti, persone giovani in cerca di lavoro all’estero, poi abbiamo piccoli imprenditori, i quali partono o da soli o addirittura con la famiglia. Alla fine abbiamo anche i pensionati. Partono tutti, tutti quelli che se lo possono permettere. Partire con delle difficoltà in famiglia o con un parente malato è molto complesso.
— Quali sono le motivazioni principali per cui gli italiani decidono di mollare tutto e partire?
— Nel 1998 ho fondato il vecchio sito “mollotutto”, volevo indagare le ricorrenze delle persone che riuscivano a realizzare i loro sogni, non per forza all’estero. Quando sei bambino dici che da grande vuoi fare l’astronauta, il pilota o la ballerina. Alcune persone ce la fanno, altre no. Indagavo intervistando le persone che riuscivano a realizzare i propri sogni. All’inizio non pensavo al fattore “estero”. Ho notato che chi era in grado di mollare tutto, i condizionamenti della famiglia, degli amici e della società spesso raggiungeva l’obiettivo.
“Mollotutto” è un progetto fondato nel 1998 dal giornalista Massimo Dallaglio, che ha come obiettivo quello di raccontare la storia di chi ha seguito i propri sogni.
Mollare tutto non significa per forza di cose andare all’estero, ma se nel nido natio non vi sono le condizioni per realizzare la propria vita, la soluzione è partire. Il magazine on-line mollotutto.inforaccoglie le testimonianze di chi ha trovato il coraggio di cambiare vita per rimanere fedele ai propri obiettivi, il sito offre inoltre utili spunti pratici per chi decidesse di trasferirsi all’estero.Chi parte oggi dall’Italia? Com’è cambiata negli anni l’emigrazione italiana? Sputnik Italia ne ha parlato con Massimo Dallaglio, giornalista, fondatore del network “mollotutto”.
— Massimo, chi oggi lascia l’Italia in cerca di una vita migliore?
— La partenza dall’Italia è assolutamente trasversale: partono studenti, persone giovani in cerca di lavoro all’estero, poi abbiamo piccoli imprenditori, i quali partono o da soli o addirittura con la famiglia. Alla fine abbiamo anche i pensionati. Partono tutti, tutti quelli che se lo possono permettere. Partire con delle difficoltà in famiglia o con un parente malato è molto complesso.
— Quali sono le motivazioni principali per cui gli italiani decidono di mollare tutto e partire?
— Nel 1998 ho fondato il vecchio sito “mollotutto”, volevo indagare le ricorrenze delle persone che riuscivano a realizzare i loro sogni, non per forza all’estero. Quando sei bambino dici che da grande vuoi fare l’astronauta, il pilota o la ballerina. Alcune persone ce la fanno, altre no. Indagavo intervistando le persone che riuscivano a realizzare i propri sogni. All’inizio non pensavo al fattore “estero”. Ho notato che chi era in grado di mollare tutto, i condizionamenti della famiglia, degli amici e della società spesso raggiungeva l’obiettivo.
© FOTO: PIXABAY
L’anno prossimo “mollotutto” compie 20 anni. Il sito di riferimento oggi è mollottutto.info.
— Com’è strutturato il sito e qual è il suo obiettivo?
— Abbiamo una redazione con tante persone e viaggiatori che ci scrivono da tutto il mondo. Il nostro obiettivo è fare informazione, pubblicare articoli e interviste. Proponiamo testimonianze di cambiamento e di ottenimento dei propri obiettivi. C’è chi grazie a lavoro riesce a comprarsi una casa a Bali, chi fa il musicista e gira il mondo vivendo in camper. È sempre successo se la persona è felice.
Abbiamo inoltre dei partner che hanno una scuola per diventare bartender internazionali, una scuola per diventare crupier. Sono mestieri che in Italia vengono visti in un certo modo, ma all’estero sono lavori con buon stipendio e mancia.
— Focalizziamoci sulle persone che lasciano l’Italia. Qual è il tuo punto di vista personale sull’esodo che vediamo oggi?
— Nel 1998 appena ho iniziato il progetto mi sono accorto che parlare di questo fenomeno significava parlare dell’estero, per me è stata una scoperta. All’epoca si parlava di fuga di cervelli, ragazzi laureati che mandavano i propri curriculum e si trovavano a lavorare a Tokio, a New York, Boston, Londra o Parigi. Nelle interviste mi spiegavano che volevano fare i ricercatori e che in Italia non si trovava lavoro.
“Mollotutto” si è declinato quindi sul profilo dell’estero, non è una spinta che ho dato io al magazine on-line, è stata un’osservazione. Verso il 2005 abbiamo visto invece un’ondata non più solo di ragazzi altamente formati, ma di tutti. Le persone partivano per cercare lavoro. Non erano più le persone a scegliere un posto, ma era il lavoro a scegliere loro.
Alla fine abbiamo iniziato a vedere un terzo macro profilo che sono i pensionati, quelli che ricevono pensioni basse e all’estero le possono ricevere lorde. L’esempio classico è di chi parte per la Bulgaria: le tasse sono più basse, il costo della vita è minore, il cambio della moneta è favorevole. Gli 800 euro italiani lì valgono come 2 mila euro. Parliamo di una scelta a malincuore di pensionati che partono per riuscire a stare nei conti, per pagare le bollette, l’affitto e il cibo. È una cosa triste.
— Quindi l’emigrazione è cambiata negli anni?
— Prima partiva chi poteva scegliere, era una scelta voluta verso un miglioramento. Poi vediamo una massa enorme che si muove per motivi di crisi, io lo chiamo “il terzo flusso migratorio italiano”. Il primo l’abbiamo visto ai primi del ‘900, il grande esodo di chi andava negli Stati Uniti. Poi il secondo flusso italiano risale al dopoguerra, molti italiani sono andati in Belgio, in Germania, era un flusso di italiani che partivano in altri Paesi europei per guadagnare denaro e per poi tornare col guadagno in tasca. Adesso assistiamo ad un terzo flusso che è molto più grave e pericoloso dal punto di vista sociale.
— Perché?
— Nei primi del ‘900 le aziende non andavano a fare la loro sede in Romania o Bulgaria, non andavano a produrre in Bangladesh, le aziende rimanevano in Italia. Nel secondo dopoguerra si andava fuori per fare denaro, per tornare e investire soldi. Questo terzo flusso migratorio è il segnale della disperazione di un’Italia che non c’è più. Le aziende scappano per le tasse, i pensionati vanno via per sopravvivere, i laureati per avere delle prospettive. In molte interviste leggo la frase: siamo andati via per dare un futuro ai nostri figli. Un futuro che in Italia non si vede. Le tasse aumentano, l’IVA aumenta, le aziende italiane vengono scorporate. Non possiamo parlare di uno stesso flusso uguale ai precedenti. Mi baso su circa 2 mila interviste fatte nell’ambito del progetto, un buon numero per fare delle analisi. Poi parliamo anche dei viaggiatori per scelta, ma questa è un’altra storia.
— Partire per farsi una vita non deve essere visto come un tradimento, ma come uno stimolo per sopravvivere e ciò non impedisce di amare il proprio Paese. Realizzarsi, anche se altrove, è un aspetto positivo, no?
— Chi vuole realizzare qualcosa, ma non trova il terreno fertile o le condizioni favorevoli qui, trova le condizioni giuste altrove e va. Se però queste condizioni ci fossero anche qui le persone resterebbero a casa. È una scelta che la maggior parte delle persone avrebbe preferito non fare, però è necessario.
via Sputnik
— Abbiamo una redazione con tante persone e viaggiatori che ci scrivono da tutto il mondo. Il nostro obiettivo è fare informazione, pubblicare articoli e interviste. Proponiamo testimonianze di cambiamento e di ottenimento dei propri obiettivi. C’è chi grazie a lavoro riesce a comprarsi una casa a Bali, chi fa il musicista e gira il mondo vivendo in camper. È sempre successo se la persona è felice.
Abbiamo inoltre dei partner che hanno una scuola per diventare bartender internazionali, una scuola per diventare crupier. Sono mestieri che in Italia vengono visti in un certo modo, ma all’estero sono lavori con buon stipendio e mancia.
— Focalizziamoci sulle persone che lasciano l’Italia. Qual è il tuo punto di vista personale sull’esodo che vediamo oggi?
— Nel 1998 appena ho iniziato il progetto mi sono accorto che parlare di questo fenomeno significava parlare dell’estero, per me è stata una scoperta. All’epoca si parlava di fuga di cervelli, ragazzi laureati che mandavano i propri curriculum e si trovavano a lavorare a Tokio, a New York, Boston, Londra o Parigi. Nelle interviste mi spiegavano che volevano fare i ricercatori e che in Italia non si trovava lavoro.
“Mollotutto” si è declinato quindi sul profilo dell’estero, non è una spinta che ho dato io al magazine on-line, è stata un’osservazione. Verso il 2005 abbiamo visto invece un’ondata non più solo di ragazzi altamente formati, ma di tutti. Le persone partivano per cercare lavoro. Non erano più le persone a scegliere un posto, ma era il lavoro a scegliere loro.
Alla fine abbiamo iniziato a vedere un terzo macro profilo che sono i pensionati, quelli che ricevono pensioni basse e all’estero le possono ricevere lorde. L’esempio classico è di chi parte per la Bulgaria: le tasse sono più basse, il costo della vita è minore, il cambio della moneta è favorevole. Gli 800 euro italiani lì valgono come 2 mila euro. Parliamo di una scelta a malincuore di pensionati che partono per riuscire a stare nei conti, per pagare le bollette, l’affitto e il cibo. È una cosa triste.
— Quindi l’emigrazione è cambiata negli anni?
— Prima partiva chi poteva scegliere, era una scelta voluta verso un miglioramento. Poi vediamo una massa enorme che si muove per motivi di crisi, io lo chiamo “il terzo flusso migratorio italiano”. Il primo l’abbiamo visto ai primi del ‘900, il grande esodo di chi andava negli Stati Uniti. Poi il secondo flusso italiano risale al dopoguerra, molti italiani sono andati in Belgio, in Germania, era un flusso di italiani che partivano in altri Paesi europei per guadagnare denaro e per poi tornare col guadagno in tasca. Adesso assistiamo ad un terzo flusso che è molto più grave e pericoloso dal punto di vista sociale.
— Perché?
— Nei primi del ‘900 le aziende non andavano a fare la loro sede in Romania o Bulgaria, non andavano a produrre in Bangladesh, le aziende rimanevano in Italia. Nel secondo dopoguerra si andava fuori per fare denaro, per tornare e investire soldi. Questo terzo flusso migratorio è il segnale della disperazione di un’Italia che non c’è più. Le aziende scappano per le tasse, i pensionati vanno via per sopravvivere, i laureati per avere delle prospettive. In molte interviste leggo la frase: siamo andati via per dare un futuro ai nostri figli. Un futuro che in Italia non si vede. Le tasse aumentano, l’IVA aumenta, le aziende italiane vengono scorporate. Non possiamo parlare di uno stesso flusso uguale ai precedenti. Mi baso su circa 2 mila interviste fatte nell’ambito del progetto, un buon numero per fare delle analisi. Poi parliamo anche dei viaggiatori per scelta, ma questa è un’altra storia.
— Partire per farsi una vita non deve essere visto come un tradimento, ma come uno stimolo per sopravvivere e ciò non impedisce di amare il proprio Paese. Realizzarsi, anche se altrove, è un aspetto positivo, no?
— Chi vuole realizzare qualcosa, ma non trova il terreno fertile o le condizioni favorevoli qui, trova le condizioni giuste altrove e va. Se però queste condizioni ci fossero anche qui le persone resterebbero a casa. È una scelta che la maggior parte delle persone avrebbe preferito non fare, però è necessario.
via Sputnik
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