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domenica 3 dicembre 2017

Storyballing etrusco

di Marco Travaglio

"Da quando Renzi ha dichiarato guerra alle bufale, non si riesce più a tenere il conto delle sue. Ieri, per dire, ha proposto “una commissione parlamentare d’inchiesta con i poteri della magistratura per scoprire chi c’è dietro le fake news” che, per sua fortuna, non si farà mai perché la legislatura è finita: sennò l’ergastolo non glielo leverebbe nessuno. È vero però che una commissione parlamentare d’inchiesta sulle fake news esiste già: quella sui crac bancari.





Solo che, anziché combattere le fake news, le produce. L’altro giorno è stato sentito – si suppone in veste di testimone – il procuratore capo di Arezzo Roberto Rossi sul crac Etruria.
Ora i testimoni – e nessuno lo sa meglio di un pm – dovrebbero dire la verità e astenersi da congetture, pareri, impressioni e opinioni personali. Invece è probabile che Rossi non abbia detto la verità ed è certo che ha infilato una serie di congetture, pareri, impressioni e opinioni personali. “Ci è sembrato strano e singolare – ha esordito, parlando col plurale maiestatico, manco fosse il Papa, a nome non si sa bene di chi – che la Banca d’Italia avesse inoltrato a Banca Etruria un invito di integrazione con la Popolare di Vicenza che era in condizioni simili”.
A parte il fatto che un testimone deve dire ciò che sa per conoscenza diretta, e non ciò che gli pare strano per sentito dire, non è vero neppure che Bankitalia volesse sposare per forza Etruria con Vicenza: nel dicembre 2013, dopo l’ennesima ispezione, Bankitalia scrisse al presidente di Etruria che la banca era decotta e non poteva più stare in piedi da sola, ma doveva trovarsi un partner. Etruria nominò advisor Rothschild e Lazard che contattò 27 possibili acquirenti. L’unico che rispose fu la PopVicenza.

Poi l’affare sfumò perché Etruria bocciò la proposta vicentina di Opa. Dove ha appreso Rossi che Bankitalia voleva costringere Etruria a sposare PopVicenza? Sulla stampa, dice lui: allora tanto valeva convocare un direttore di giornale, ma anche un lettore a caso, che senz’altro ne sa molto più di lui. Anche perché lui i giornali li legge a intermittenza: non, per esempio, quando scrivono degli incontri di papà Boschi con Flavio Carboni, o dei suoi vertici segreti con i capi di Veneto Banca, o delle telefonate della Boschi a Ghizzoni per far salvare Etruria da Unicredit. Però il pm Rossi aggiunge che sta ancora conducendo “approfondimenti sul ruolo di Bankitalia e Consob”: peccato che di Consob non dica una parola, e che sulle responsabilità delle due autorità di vigilanza abbia già trasmesso gli atti per competenza alla Procura di Roma.
Meravigliosa, poi, la sua appassionata difesa di Pier Luigi Boschi, già membro del Cda (dal 2011) e vicepresidente (dal 2014) di Etruria, multato due volte da Bankitalia e uno da Consob per la malagestione dell’istituto aretino, indagato da Rossi ben cinque volte e sempre archiviato: con la bancarotta di Etruria – sostiene – il sant’uomo non c’entra perché i consiglieri post-2010 “non hanno partecipato alle riunioni che hanno deliberato (negli anni precedenti, ndr) finanziamenti finiti poi in sofferenza” e “non avevano informazioni sufficienti sulle operazioni”. 

Dunque il vicepresidente Pier Luigi riceveva i banchieri veneti con o senza la figlia ministra e incontrava il bancarottiere Carboni con i massoni Ferramonti e Mureddu per salvare Etruria, ma era poco più di un passante. Peccato che, per un amministratore di banca, non basti non partecipare alle riunioni in cui viene deliberato un finanziamento per esservi estraneo: ogni linea di credito deve essere rinnovata, di solito ogni 18 mesi, dunque quelle decise senza garanzie prima dell’arrivo di Boschi sr. furono rinnovati dal Cda in cui sedeva anche lui dal 2011. Ma che il procuratore abbia un concetto piuttosto elastico della verità era già cosa nota. Due anni fa il Fatto scoprì che Rossi, mentre indagava su Etruria e anche su papà Boschi, era consulente giuridico del governo Renzi, che l’aveva ereditato e riconfermato dal governo Letta. Anzi, non del governo: proprio della Presidenza del Consiglio, cioè del Dipartimento affari legislativi capitanato dalla leggendaria vigilessa Antonella Manzione. Il pm che indagava sul papà di una ministra lavorava per il governo della ministra stessa: imbarazzo? Conflitto d’interessi? Macché. Il Csm ascoltò Rossi, il quale spiegò di essere serenissimo e di non aver mai ravvisato interferenze fra le sue indagini e la sua consulenza, anche perché fra i suoi indagati “non ci sono componenti della famiglia Boschi”.
L’autoassoluzione estasiò e convinse ipso facto il Consiglio Superiore, sotto lo sguardo vigile del consigliere Giuseppe Fanfani, penalista aretino e storico difensore di Etruria. Poi si scoprì che fra gli indagati di Rossi un Boschi c’era eccome: Pier Luigi, e da anni. Allora si disse che però era inquisito per altre vicende, ergo nessun conflitto. Poi si scoprì che Rossi parlava di consulenza gratuita e invece era retribuito (2.500 euro per il 2014 e 5 mila per il 2015), ma anche quella minuscola discrepanza fra parole e fatti venne derubricata a semplice equivoco. 

Poi si scoprì che il Csm gli aveva dato l’ok alla consulenza “condizionato alla non interferenza dell’incarico con l’attività giudiziaria e alla garanzia del regolare svolgimento delle funzioni assegnate al magistrato”, e lui ne aveva chiesto due volte il rinnovo scordandosi di precisare che, fra il governo Letta e il governo Renzi, lui aveva aperto due fascicoli sulla banca vicepresieduta dal padre della Boschi, dove lavoravano pure il di lei fratello e la di lei cognata, tutti azionisti come lei di Etruria. Ma che problema c’era. Poi si scoprì che la famiglia Boschi, che Rossi sosteneva di non conoscere, la conosceva eccome: non solo per i vari fascicoli aperti su Pier Luigi (senza mai interrogarlo, ci mancherebbe), ma anche per il convegno del 31.10.2015 cui il pm aveva partecipato al tavolo dei relatori con la Boschi, Fanfani e il sottosegretario Domenico Manzione (fratello della vigilessa) sull’appassionante tema “Arezzo capitale della legalità” . Ma anche quella piccola distonia lasciò indifferente il Csm, che archiviò la pratica di incompatibilità ambientale, pur chiedendo al Pg della Cassazione Pasquale Ciccolo se non fosse roba da procedimento disciplinare.
Ciccolo però non fece sapere più nulla: l’altro giorno, in compenso, ha avviato l’azione disciplinare contro Henry John Woodcock. Quello sì che è un putribondo pm, visto che non piace a Renzi. Invece il molto indipendente Rossi piace molto. Renzi&his friends non aspettano neppure che finisca di sproloquiare in Commissione per sommergerlo di tweet riconoscenti: evviva, ha detto lui, Boschi non c’entra col crac di Etruria, è tutta colpa di Bankitalia! 

Resta da capire: perché papà Boschi non ha mai fatto ricorso contro le due multe inflittegli da Bankitalia (274 mila euro) per carenze nell’organizzazione, nei controlli interni e nella gestione del controllo del credito; perché, se Etruria era così ben gestita, Renzi si vanti da due anni di averla commissariata; che diavolo c’entrano gli errori di Bankitalia e Consob con il crac della banca, precedente e indipendente dal loro intervento. Se Etruria è fallita è perché i suoi amministratori erano dei farabutti e/o degli incapaci: infatti accettarono dai creditori fideiussioni che in 9 casi su 10 si sono rivelate “prive di efficacia ai fini del recupero”; e 13 ex amministratori e 5 ex sindaci ottennero illegalmente 198 prestiti dalla loro stessa banca mandandola a picco. Quando Bankitalia tentò (giuste o sbagliate che fossero le soluzioni) di salvare il salvabile con una fusione, la banca era già fallita: se gli amministratori, Boschi & C., non avessero colpe, Etruria sarebbe stata un gioiello e Bankitalia non avrebbe dovuto cercarle affannosamente un partner. Però lo storytelling renziano “Boschi innocente, Visco colpevole” può prestarsi a sviluppi interessanti. Se, puta caso, qualcuno gli svaligia la casa, d’ora in poi Renzi non può più lamentarsi. Il vero colpevole è sempre la polizia che non ha vigilato. Il ladro invece è innocente per definizione. Anzi, se gli va di culo, al prossimo giro lo fanno ministro. […]

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