DI PAUL KRUGMAN
C’è molto di più in gioco, nel referendum di Domenica, di quanto la maggior parte degli osservatori si stia rendendo conto. E’ ragionevole temere le conseguenze di un "no", perché nessuno sa cosa verrà dopo. Ma si dovrebbe aver ancor più paura delle conseguenze di un "sì", perché in questo caso sappiamo benissimo cosa verrà, dopo. Se la Grecia dovesse lasciare l'euro avrebbe la possibilità di una vera guarigione, e sarebbe anche uno shock salutare per le élites europee.
In questi giorni è un po’ deprimente pensare alla Grecia … e allora cerchiamo di parlare di qualcos'altro, va bene? Parliamo, tanto per cominciare, della Finlandia, che non potrebbe essere niente di più diverso da quel corrotto ed irresponsabile paese del sud.
La Finlandia è un paese-modello dell’Unione Europea: ha un governo onesto, delle finanze sane e un solido rating creditizio, che le permette di prendere denaro in prestito a tassi d’interesse incredibilmente bassi.
Questo è anche l'ottavo anno di una crisi che ha tagliato il suo PIL/pro capite del 10% e che non mostra alcun segno che stia per finire. Se non fosse per l'incubo costituito dall'Europa meridionale, le difficoltà che l'economia finlandese sta affrontando potrebbero benissimo essere considerate al livello di un disastro epico.
Ma la Finlandia non è da sola. Fa parte di un arco di declino economico [http://krugman.blogs.nytimes.com/2015/05/29/northern-discomfort/?_r=0] che si estende in tutta l'Europa settentrionale, dalla Danimarca – che non fa parte dell'euro, ma che gestisce i suoi soldi come se lo fosse – all’Olanda.
Fra l’altro, tutti questi paesi stanno facendo molto peggio della Francia – la cui economia è oggetto di una terribile campagna di stampa, condotta da quei giornalisti che odiano la sua forte rete di sicurezza sociale – ma che in realtà ha “tenuto” un po’ meglio di quasi ogni altra nazione europea, ad eccezione della Germania.
E per quanto riguarda l'Europa meridionale, esclusa la Grecia? I funzionari europei hanno fatto un notevole battage pubblicitario sulla ripresa in Spagna, che ha fatto tutto quello che doveva fare e la cui economia è finalmente tornata a crescere e a creare posti di lavoro.
Ma il successo in stile europeo significa che il tasso di disoccupazione [di quel paese] è ancora a quasi il 23%, mentre il reddito-reale-pro-capite è ancora in calo del 7% rispetto ai livello pre-crisi. Anche il Portogallo ha ubbidientemente implementato una dura austerità – ed è del 6% più povero di quanto lo fosse in passato.
Perché ci sono così tanti disastri economici in Europa? Ciò che colpisce, a questo punto, è quanto le storie sull’origine delle crisi europee siano diverse fra loro.
Sì, il governo greco ha preso troppi soldi in prestito. Ma il governo spagnolo non lo ha fatto. La storia della sua crisi è tutta nell’eccesso dei prestiti privati e nella bolla immobiliare.
La storia della Finlandia, invece, non riguarda alcun tipo di debito. Ha a che fare con la debolezza della domanda per i suoi prodotti forestali – che sono ancora gran parte delle esportazioni nazionali – e con l’inciampo della produzione manifatturiera, in particolare del suo ex campione nazionale, la Nokia.
Quello che tutte queste economie hanno in comune, tuttavia, è che unendosi all’Eurozona si son messe in una “camicia di forza” economica.
La Finlandia era preda di una grave crisi economica, alla fine degli anni ’80, molto peggiore, nella sua fase iniziale, di quella che sta passando ora. Ma è stata in grado di progettare una ripresa abbastanza veloce grazie in gran parte alla forte svalutazione della sua moneta, che ha reso le sue esportazioni più competitive.
Questa volta, purtroppo, non aveva una moneta da svalutare. E la stessa cosa vale per tutti gli altri focolai di crisi in Europa. Questo significa che la creazione dell'euro è stata un terribile errore? Beh, decisamente sì. Ma questo non significa che dovrebbe essere eliminato, ora che esiste.
La cosa più urgente, in questo momento, è di allentare quella camicia di forza. Ciò comporta un'azione condotta su più fronti, da un sistema unificato di garanzie bancarie alla volontà di offrire sollievo a quei paesi dove il debito è un problema.
Tutto ciò comporterebbe la creazione di un ambiente globale più favorevole ai paesi che cercano di adattarsi alla sfortuna [palese il riferimento all’ingresso nell’Eurozona], rinunciando all’eccessiva austerità e facendo tutto il possibile per aumentare il tasso d’inflazione europeo – attualmente sotto l'1% – facendolo aumentare almeno fino all'obiettivo ufficiale del 2%.
Ma ci sono molti funzionari e molti politici che si oppongono a qualsiasi cosa potrebbe rendere l'euro praticabile. Quelli che ancora credono che le cose sarebbero andate bene se tutti avessero avuto una sufficiente disciplina [di bilancio]. Ed è per questo che c'è molto di più in gioco, nel referendum greco di Domenica, di quanto la maggior parte degli osservatori si stia rendendo conto.
Uno dei grandi rischi, se i greci votassero “sì” – ovvero se decidessero di accettare le richieste dei creditori e quindi di ripudiare la posizione del governo greco, il che comporterebbe, probabilmente, la sua caduta – è che questo risultato comporterebbe il potenziamento e l’incoraggiamento degli artefici del fallimento europeo. I creditori dimostrerebbero la loro forza e la loro capacità di umiliare chiunque osi sfidare le richieste per un’austerità senza fine – e continuerebbero a sostenere che la disoccupazione di massa sia l'unica azione responsabile.
Cosa succederebbe, invece, se la Grecia dovesse votare “no”? Questa decisione, che porterebbe i greci su un territorio sconosciuto, causerebbe senz’altro paura. La Grecia potrebbe anche lasciare l'euro, la qual cosa sarebbe dirompente nel breve periodo. Ma finalmente sarebbe offerta, a questo paese, la possibilità di una vera guarigione. E sarebbe anche uno shock salutare per le élites europee.
O, per dirla in modo un po' diverso, è senz’altro ragionevole temere le conseguenze di un "no", perché nessuno sa che cosa verrà dopo. Ma si dovrebbe avere ancora più paura delle conseguenze di un "sì", perché in questo caso sappiamo benissimo cosa verrà, dopo – più austerità, più disastri ed una crisi molto peggiore di quella che abbiamo visto fino ad ora.
Paul Krugman
Fonte: www.nytimes.com
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