di Aldo Giannuli.
Volendo riassumere il senso di queste elezioni europee in poche sinteticissime battute, le riassumeremmo così:
a- la linea dell'austerità è battuta senza possibilità di equivoco
b- la Germania è sola
c- il resto dei sistemi politici dell'ex Europa occidentale subisce la più grave crisi di legittimazione dal 1945 in poi. Il che, a sua volta, si traduce in una frase ancora più semplice: qui non è europeo nessuno e l'Europa non esiste. O, se preferite: l'Europa è solo una espressione geografica. Con licenza di riproduzione del principe di Metternich.
Ovviamente, cerco di motivare queste affermazioni che a molti lettori sembreranno un po' forti (e già vedo alcuni amici cui va di traverso il caffè che stanno bevendo mentre scorrono questi righe). Vengo ad argomentare.
Sulla carta, lo sappiamo, il blocco "europeista" (popolari, socialisti, liberali, verdi, conservatori) dispone ancora della maggioranza non solo a Strasburgo, ma anche nei rispettivi paesi. I partiti che genericamente definiamo "antisistema" (populismi euroscettici vari e sinistre antagoniste o quasi, oltre che separatisti di vario genere) non sono in maggioranza da nessuna parte, ma raccolgono percentuali da capogiro in alcuni paesi chiave:
Inghilterra (Ukip e separatisti vari) = 31,1%Francia (Fn, Fg, varie minori) = 31,3%Italia (M5s, Lega, Fdi, lista Tsipras) = 34,9%
Assumiamo come minimo comun denominatore di questi blocchi elettorali l'opposizione alle politiche di austerità, che si traduce in una richiesta di riforma più o meno radicale della Ue o in un suo scioglimento.
Ovviamente, si tratta di una sommatoria assolutamente non omogenea, e caratterizzata solo in negativo, ma si tenga presente che, sin qui, il voto di protesta, nelle fasi di "acqua alta", si aggirava fra il 10 ed il 15% e non ha mai raggiunto il 20% in nessun paese dell'Europa occidentale (salvo il voto a Le Pen padre nelle presidenziali del 1999). Ora siamo oltre il 30% nei tre paesi maggiori della Ue, dopo la Germania. Inoltre, si tratta di un voto largamente polarizzato intorno alle tre principali formazioni (Ukip, Fn, M5s) che costituiscono veri e propri partiti di massa, quantomeno dal punto di vista elettorale e, a tutto questo, si aggiunge ad un picco inedito dell'astensionismo. Questi partiti, pur se con accentuazioni diverse e differenti indirizzi di marcia, si configurano come diretti antagonisti (più o meno radicali) del sistema politico europeo, che è una delle colonne portanti dei rispettivi sistemi politici nazionali.
Neppure l'ondata del 1968 mise in crisi la legittimazione dei sistemi politici europei come, sta accadendo in questo momento, anche a causa della perdurante crisi.
E' del tutto evidente che i partiti "europeisti" di governo non possono non tenere conto di una tendenza che minaccia molto seriamente di travolgerli e non è affatto detto che una alleanza di ampie convergenze, di tipo italiano, riesca a salvarli.
In Germania, il totale dei voti antisistema eurocritici (Linke, Afd, Npd e vari) raggiunge il 17,5%, cioè ben 14 punti sotto la mediana che abbiamo calcolato per Italia, Francia ed Inghilterra. Avevamo detto che se il differenziale dei risultati "antisistema", fra Germania ed altri paesi Ue, avesse superato il 10% il sistema sarebbe entrato in fibrillazione. La media del differenziale su tutti i paesi europei si aggira appunto intorno al 10% per di più esso si concentra nei tre paesi maggiori dell'Unione, dove i ceti di governo devono tener conto dell'urto subito. In Italia il governo può giovarsi del successo del Pd che "assorbe" la presenza del M5s che, simmetricamente, vede la sua azione indebolita dal risultato elettorale. Però, l'Italia non può che schierarsi contro la politica di austerità perché sta soffocando (e, per la verità, sinora Renzi lo ha detto, anche se, per ora non siamo andati al di là di petizioni di principio sulla crescita).
L'Inghilterra è meno toccata dalla questione, non facendo parte dell'Eurozona, ma il governo conservatore ha l'urgenza di prendere il largo dalla Ue e, soprattutto, dalla Germania, se vuole avere qualche speranza: la reazione un tantinello isterica di Cameron contro Junker, il candidato della Merkel, la dice molto lunga in proposito.
Ma il risultato più critico è sicuramente quello francese, dove la vittoria della Le Pen si somma alla dèbacle socialista. Hollande è un "dead man walking": può sperare in una ripresa, nelle elezioni politiche, ma può farlo solo prendendo di corsa le distanze dalla Merkel e dalla sua politica rigorista. Né stanno molto meglio i governi di alcuni alleati storici della Germania, come l'Olanda dove, se pure il Pvv di Geert Wilders non è andato bene, resta il problema di una economia stagnante. In Finlandia e Norvegia ci sono formazioni politiche nazionaliste che vedrebbero di buon occhio una uscita dall'Euro "dall'alto", cioè per separazione dei paesi "ricchi". In ogni caso, la Merkel ha perso il suo principale alleato -la Francia- ed anche l'appoggio di qualche alleato minore non risolverebbe il problema. Come la si rigiri, la Germania è sola. E deve fare i conti con una formazione piccola, ma influente, come Afd che tira per una uscita "dall'alto".
Dunque, la linea dell'"austerità espansiva" (uno dei più divertenti ossimori che abbia mai sentito) è virtualmente liquidata, a meno di azioni di forza della Germania, che, però, potrebbero andare incontro a reazioni imprevedibili da parte di altri. Vedremo cosa farà domani la Bce, sollecitata dagli americani a fare una sostanziosa iniezione di liquidità ed a tenere bassi i tassi, il che, però, non può che indebolire l'Euro, prospettiva vista con orrore dai tedeschi che vedremo come reagiranno ad un corso troppo "lassista" dal loro punto di vista. Un minimo di ragionevolezza economica farebbe pensare che, in presenza di un dollaro "basso" sui mercati, occorre abbassare anche la soglia dell'Euro, per far salva la bilancia commerciale.
Ma l'opposizione dei tedeschi non è determinata da chissà quale teutonica irragionevolezza. Ci sono motivi contingenti e più di lungo periodo che li spingono su questa strada.
In primo luogo, la Germania è creditore netto in Euro ed, ovviamente, considera con sfavore la svalutazione del suo credito, soprattutto perché lo stato di salute delle sue banche è tutt'altro che florido e una svalutazione dei titoli in Euro, che hanno in pancia, potrebbe seriamente compromettere il loro asset. Poi, la Germania, è paese importatore di materie prime, che acquista con una moneta "forte", mentre, come paese manifatturiero, sarebbe interessata a tenere bassa la moneta, ma preferisce affidarsi al vantaggio competitivo tecnologico delle sue merci, per cui può fare a meno della manovra monetaria. Infine, i tedeschi hanno una paura patologica dell'inflazione, che gli viene dalla loro storia. E questi sono i motivi più o meno contingenti. Poi c'è un motivo strategico di fondo: la moneta "forte" per la Germania è molto più che uno strumento di politica economica. E' il mezzo politico, attraverso il quale essa ripropone il sua assalto al potere europeo. Nel 1871-78, nel 1914 e poi nel 1939, la Germania ha tentato il suo assalto all'Europa attraverso le armi. Duramente sconfitta nel 1918 ed ancor peggio nel 1945, la Germania divisa ha dovuto adattarsi ad un ruolo di "nano politico" per mezzo secolo, durante il quale il discorso militare non poteva neppure essere evocato, ma gli schemi geopolitici di Karl Hausofer è rimasto dormiente, ma non eliminato, nella cultura politica tedesca. La riunificazione del 1989 ha ridestato quella concezione e la prima aperta manifestazione di ciò fu il documento elaborato, nel 1994, da Wolfang Schauble per conto della Cdu-Csu, che teorizzava apertamente il ruolo centrale della Germania -in asse con la Francia- nella costruzione europea, che vedeva tutti gli altri paesi come semplici satelliti. Una sorta di Nuovo-Nuovo Ordine Europeo (se ci si passa l'espressione) fondato non più sulla supremazia militare ma su quella finanziaria: l'unità europea diventava così la carta argentata nella quale Berlino avvolgeva il suo disegno egemonico.
Poi, la crisi e l'evolvere della politica internazionale hanno messo a dura prova l'asse franco tedesco finendo per dissolverlo. E la Germania è rimasta, puramente e semplicemente, la Germania di sempre.
E qui veniamo al punto che dicevamo all'inizio: qui nessuno è europeo e, pertanto, l'Europa non esiste. Una nazione non è solo un apparato statale componibile e scomponibile a piacimento e non è neppure solo una cultura ed una lingua, è, prima di ogni altra cosa, un campo magnetico di interessi sociali organizzati. E non si tratta solo delle classi dominanti, che, ovviamente, sono le più interessate alla conservazione dell'ordine esistente. Si tratta anche delle classi medie e subalterne che vengono consociate attraverso mille strumenti (dalla struttura del salario alla particolare politica fiscale, dalla distribuzione territoriale delle risorse all'organizzazione della pubblica amministrazione, ai meccanismi di mobilità sociale ed al tipo di stato sociale). In questo quadro ogni gruppo sociale occupa uno spazio e trova una sua convenienza. Su questa composizione di interessi riposa la stabilità della singola formazione economico-sociale di ogni paese. Proprio la storia tedesca dimostra abbondantemente questa idea: nel 1918 gli operai tedeschi, in grande maggioranza, non si schierarono dalla parte degli spartachisti che predicavano la rivoluzione internazionale, ma dalla parte dei socialdemocratici che garantivano la sopravvivenza dello stato nazionale.
Fare l'Europa avrebbe dovuto significare, in primo luogo, sostituire gli equilibri sociali nazionali con nuovi equilibri continentali, dunque, realizzare convergenze dei diversi meccanismi di distribuzione delle risorse, dar luogo a contratti di lavoro europei, avvicinare i modelli amministrativi, unificare gradualmente la politica fiscale, ridurre i differenziali di trattamento pensionistico o sanitario, garantire le stesse condizioni di mobilità sociale per tutti, superando le barriere nazionali, omogeneizzare realmente i sistemi scolastici ed universitari. Ma questo avrebbe richiesto (oltre che superare lo scoglio linguistico) anche una centralizzazione delle risorse da redistribuire, senza della quale non si sarebbe potuta realizzare quella unificazione di standard di stato sociale, realizzare contratti europei ecc. E, sulla base di queste premesse, si sarebbe potuto parlare di unificazione politica che, ovviamente, avrebbe sottratto quote di potere ai ceti politici nazionali, che, invece, hanno avuto buon gioco ad opporsi a questa espropriazione, proprio sfruttando la diversa polarizzazione degli interessi sociali di ciascun paese.
La risultante è stato questo coacervo istituzionale incoerente che è la Ue: un sostanziale compromesso fra le burocrazie politiche nazionali (che mantengono il predominio nel Consiglio e nel Parlamento) e la tecnocrazia europea (che ha le sue roccaforti nella Bce ed, in parte, nella Commissione, dove però, i vertici sono nominati per accordo fra i ceti politici nazionali).
E nessuno è diventato europeo, perché tutti siamo restati francesi, tedeschi, polacchi, italiani, spagnoli, boemi.
E dunque, l'Europa è restata solo una espressione geografica.
E dunque, l'Europa è restata solo una espressione geografica.
L'unificazione politica europea in queste condizioni? Retorica, pura retorica che queste elezioni hanno dissolto.
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