Io credo nel popolo italiano. E' un popolo generoso, laborioso.
Non chiede che lavoro, una casa e di poter curare la salute dei suoi cari. Non chiede quindi il Paradiso in terra.
Chiede quello che dovrebbe avere ogni popolo.
Non chiede che lavoro, una casa e di poter curare la salute dei suoi cari. Non chiede quindi il Paradiso in terra.
Chiede quello che dovrebbe avere ogni popolo.
Sandro Pertini,
messaggio di fine anno agli italiani del 1981
L'ho pensato. Sì, proprio io che amo disperatamente questo Paese, ho pensato che fosse arrivato il momento di farlo: prendere armi e bagagli, sbattere la porta e andarmene via. Come i 285mila italiani che nel 2016 sono emigrati all'estero, lasciandosi dietro un buco grande e triste come l'intera città di Venezia improvvisamente svuotata di ciascuno dei suoi abitanti. Invece no, non lo farò e ancora una volta griderò la mia protesta contro questa politica capovolta che offende chi dovrebbe difendere.
Nell'ansia di contrastare il “ribellismo populista del Movimento5Stelle”, e non potendo rimproverare nulla al ribellismo populista del suo alleato leghista, Silvio Berlusconi ha detto una cosa che mi ha davvero ferito, umiliandomi come lavoratore, come uomo e come cittadino.
Ha rimproverato ai grillini di aver riempito le liste elettorali di disoccupati. Non di ladri, malfattori, congiunti o amichetti. No, di disoccupati. Persone come me e come altri 3 milioni di italiani.
Sulle prime ho sperato in un malinteso. Non riuscivo a credere che un imprenditore come Berlusconi, che si è sempre vantato di non aver mai licenziato nessuno, potesse scambiare questa disoccupazione di massa per un castigo individuale che, sotto sotto, fa giustizia di pigri, incompetenti ed impreparati. Poi però è stato il quotidiano di famiglia a rendere inequivocabile il senso dell'accusa. “Dossier choc” - recitava, ostentando scandalo, il Giornale del 15 gennaio scorso - “8 candidati grillini su 10 non lavorano. La carica dei disoccupati per accaparrarsi un seggio. Il Movimento5Stelle offre una speranza di impiego a disoccupati, studenti e fannulloni...”.
Vede, presidente Berlusconi, so che faticherà a capire perché mi sono sentito tanto umiliato dalle sue esternazioni e da quelle, ancor più esplicite, dei suoi giornalisti e miei colleghi. Perché lei è un milionario e, per la fatica che ha fatto nella vita, penserà certamente di aver meritato la sua fortuna. Tuttavia anch'io penserei di meritarmi un lavoro e lei ha usato la categoria dei disoccupati per screditare la competenza dei suoi avversari, mostrando di ignorare, o evitando di ammettere, che la disoccupazione, oggi in Italia, non è un rifugio per dandy e perdigiorno, ma la cella di sicurezza che imprigiona il talento e le aspirazioni dell'11 per cento del Paese e del 33 per cento dei suoi giovani.
Ma c'è anche un'altra cosa, presidente, che nella sua visione apocalittica del “ribellismo populista” mi ha molto deluso: l'idea che un disoccupato sia un candidato impresentabile, poco fotogenico, di serie B. Si sbaglia di grosso. Il vero senso della nostra democrazia sta infatti nel garantire rappresentanza politica a ciascun segmento della società ed in particolare ovviamente ai più deboli e dunque più bisognosi di reclamare e far valere i propri diritti negati. Perché l'accesso al lavoro è un diritto che percorre, da cima a fondo, tutta la Costituzione. E' perciò giusto e sacrosanto che ai disoccupati venga consentito di entrare in Parlamento. E le dirò di più. La vera anomalia non è che i disoccupati si candidino alle elezioni, ma semmai che magnati e grandi industriali, già sufficientemente protetti dalle loro ricchezze e delle loro relazioni, si diano tutto questo daffare per organizzare partiti, sponsorizzarli, finanziarli o diventare essi stessi deputati o senatori. Perché la Politica dovrebbe essere la camera di compensazione delle disuguaglianze sociali prodotte dall'economia, non il luogo in cui garantirle, consolidarle e tantomeno accentuarle.
Quello che io vedo, invece, è che la politica sta diventando il club privé di una élite trasversale di privilegiati che ora pretenderebbero persino di ingannare la loro stessa coscienza - ma soprattutto la nostra - con la divulgazione di filosofie auto-legittimanti, intrise di darwinismo sociale ed etica protestante, che giustificano ricchezza e potere come indizio della benevolenza divina o di una manifesta supremazia intellettuale. Da qui la tendenza, direi ormai consolidata, a rapportarsi in modo tanto insofferente coi sospiri del popolo.
Io lo ricordo bene, cari politici, che cosa ha nutrito questo “ribellismo populista” che ora, alla vigilia del voto, vi allarma. Ad innaffiarlo è stata la sorda incomprensione che ripetutamente abbiamo colto nelle vostre parole. E siccome ho deciso di rimanere qui, a gridare la mia protesta, ora, quelle parole, ve le ricorderò tutte, come in un'antologia degli orrori.
Mi dispiace, presidente Berlusconi, ma devo cominciare proprio da lei. Rammenta? Era il 2008 e, nel corso di una tribuna elettorale, una ragazza le chiese come avrebbe potuto fare a metter su famiglia e pagare un mutuo con un lavoro precario. Lei volle fare il simpatico. “Da padre – disse – il consiglio che le do è quello di ricercarsi il figlio di Berlusconi o di qualcun altro che non avesse di questi problemi”. “Con il sorriso che ha – aggiunse - potrebbe anche permetterselo...”.
Quell'invito a sposare un milionario non ci piacque per niente. E ancor meno ci piacque l'attitudine, che da lì in poi si sviluppò, a liquidare i nostri problemi di cittadini non-lavoratori alla stregua di capricci da bambini viziati, lamentosi e indolenti. Mentre le fabbriche licenziavano, mentre la disoccupazione dilagava, mentre le retribuzioni colavano a picco e venivano cancellati i diritti, Tommaso Padoa Schioppa chiamò “bamboccioni” i trentenni che ancora vivevano coi genitori, Elsa Fornero definì “choosy” (schizzinoso) chi si permetteva di rifiutare lavoretti che nulla avevano a che fare coi propri studi e Michel Martone qualificò come “sfigati” gli studenti che avanzavano pretese occupazionali dopo aver preso la laurea a 28 anni. Poi fu la volta di Giuliano Poletti. Messo di fronte all'esodo dei giovani che comprensibilmente avevano cominciato a fuggire in massa dal Paese, il padre del Jobs Act replicò in modo infastidito e brutale, affermando che molti di quelli che se n'erano andati, in fondo, era meglio “non averli più tra i piedi”.
Personalmente, però, fu un altro l'episodio che più mi colpì o perlomeno quello che ricordo come la raffigurazione perfetta, nonché involontaria, della spettacolare frattura che stava aprendosi tra élite di governo e governati. Fu quando Mario Monti se ne uscì con la famosa esclamazione sulla “monotonia del posto fisso”. Quando lo disse, nel 2012, Monti infatti non era solo presidente del Consiglio; era anche senatore a vita. Dunque mentre noi contribuenti gli garantivamo il più fisso dei “posti fissi”, lui ci esortava a guardare al precariato come ad una grande ed eccitante avventura...
Tante volte mi sono domandato perché, in questi penosi anni di sacrifici, ci abbiano trattato così. Perché, al prezzo delle loro disastrose politiche, abbiano voluto aggiungere il carico ulteriore dell'offesa, dell'indifferenza e del dileggio. Oggi, illuminato dalla polemica del magnate Berlusconi contro i candidati disoccupati, mi sono dato una risposta. Perché questo sistema ingiusto – che, come ancora una volta dimostra Oxfam, arricchisce i pochi sulla pelle dei molti - può reggersi solo ad una condizione: che precari e disoccupati riconoscano la propria situazione come il castigo di una colpa individuale e non abbiano mai a confonderla per un inganno di classe. Altrimenti smetterebbero di farsi guidare da arrivisti, tecnocrati e milionari. Toglierebbero ogni delega a tutti questi estranei e comincerebbero a pretendere di rappresentarsi da sé. Elettori precari e disoccupati che votano candidati precari e disoccupati. Perché il lavoro torni ad essere un diritto. Niente di più ribelle. Niente di più popolare. E, ne convengo, niente di più allarmante.
Fonte: Interesse Nazionale
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