Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia in deficit permanente; Germania in attivo perpetuo e crescente. I lavoratori italiani sono “meno produttivi” dei tedeschi? Lo sono nella misura in cui il sistema burocratico, fiscale e giudiziario pubblico non solo inefficiente, ma ostile alla cittadinanza – ossia i parassiti pubblici inadempienti – aggiunge una grossa palla al piede a quella che si impone la UE . Ma lo stesso discorso non vale per i francesi o gli spagnoli, che hanno una burocrazia migliore e patriottica.
Il “caso Embraco”, l’emigrazione dei posti di lavoro in Slovacchia, mette in luce il fattore determinante che contribuisce da tre decenni a spiegare il vantaggio competitivo tedesco: l’Est post-comunista.
Disoccupazione UE: è bassa nel “Lebensraum” che l’Europa ha regalato a Merkel
Senza l’integrazione a basso prezzo dei lavoratori dell’Est nella UE, lavoratori di basso salario e spesso di alta qualificazione tecnica e istruzione, l’attivo commerciale tedesco non sarebbe così elevato. E’ delocalizzando le sub-forniture delle sue industrie in quei paesi – ossia a un’ora di treno o Tir, mica in Cina o nel sud Est asiatico, da cui i containers arrivano dopo 3 settimane di navigazione – che la Confindustria germanica fa i grossi margini.
L’ossessione del socialismo sovietico era “l’industrializzazione forzata”: da qui fabbriche di industria pesante, vecchie e anti-economiche, ma operate da personale che il comunismo ha ben istruito e di ottimo livello tecnico e scientifico – un indubbio successo del sistema sovietico, quello dell’alta istruzione. All’apertura delle loro economie al “libero mercato” , anni ‘90, polacchi e ungheresi, cechi e slovacchi hanno visto radere al suolo le rispettive economie statali; il crollo della moneta nazionale, l’aumento mostruoso della disoccupazione, l’umiliazione delle competenze, le vetuste industrie abbandonate svilite, svendute per il solo valore dei terreni su cui sorgevano, e a pezzi e bocconi, come dettavano le ricette del liberismo USA marcate Jeffrey Sachs e Friedman.
Gli industriali tedeschi si sono trovati davanti a questo panorama, e ne hanno ovviamente approfittato. Macchine utensili tedesche (non ad esempio le italiane, di cui eravamo produttori concorrenziali) sono arrivate nei capannoni in disarmo delle vecchie officine di stato abbandonate; ovviamente creando una prima dipendenza essenziale e legami tecnici al know how specifico. I sindacati tedeschi non si sono opposti non solo perché sono patriottici e confindustriali, ma perché la demografia tedesca in declino pronunciato, non ha fatto corrispondere, alla “delocalizzazione di prossimità”, un aumento dei disoccupati nazionali.
Sofia, sfilata in onore del generale Lukov, 17 febbraio
Ma tutti questi fattori non sarebbero bastati, se la cosiddetta “Europa” non avesse emanato le normative opportune. Ovviamente su suggerimento germanico. Nel 1986, la Comunità vara e codifica a livello europeo la norma che “autorizza l’esportazione temporanea di un bene intermedio (o ricambi e componenti) in un paese non-membro dove questo bene sarà perfezionato, per poi essere re-importato beneficiando di esenzione parziale o totale delle tasse doganali”. Come ha scritto su Le Monde Diplomatique il giornalista economico Pierre Rimbert: “Dopo il collasso del blocco dell’Est, le quota d’importazione esenti sono state addirittura allargate. Ciò ha aperto ai padroni tedeschi prospettive euforizzanti: subappaltare la cromatura delle rubinetterie e la politura delle vasche da bagno a operai cecoslovacchi sovra-qualificati ma sub-rivendicativi; affidare tessuto a casalinghe polacche pagate in zloty ed ottenere giacche e pantaloni che saranno vendute con il logo di una marca berlinese. Far decorticare i crostacei là per venderli qua. Tutto questo diventa possibile dagli anni 90”. Ancor prima che il comunismo cada, per la Germania i confini ad Est non esistono più, una Unione Europea è già stata formata e senza dazi.
Così il Gruppo di Visegrad, che in politica è così dignitosamente autonomo dal pensiero unico bruxellese, sul piano economico è germano-dipendente. In regime di disoccupazione di massa, i governanti non hanno guardato per il sottile a chi il lavoro lo dava.
https://www.egaliteetreconciliation.fr/Comment-l-Allemagne-50-ans-apres-a-remis-l-Europe-de-l-Est-au-travail-force-49838.html
“E così – scrive Rimbert – la Germania diventa al giro del millennio il primo partner commerciale di Polonia, repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria. Per Berlino, rappresentano un retro-paese di 64 milioni di abitanti, trasformato in piattaforma di produzione de-localizzata. Certo anche italiani, francesi e britannici profittano di questo commercio asimmetrico, ma in misura minore. Audi e Mercedes affollerebbero meno le strade di New York e Pechino se il loro pezzo con comprendesse anche i bassi salari polacchi e ungheresi”. Un vantaggio enormemente aumentato dall’introduzione dell’euro: che per la Germania significa esportare in moneta svalutata del 20% (rispetto all’ipotetico marco) mentre per l’Italia e la Francia significa dover esportare con moneta sopravvalutata del 15-18%.
Le industrie esportatrici italiane ce la fanno ancora egregiamente (meglio di quelle francesi…), ma ovviamente a margini tremendamente assottigliati. Il che non permette di creare più posti di lavoro qui.
Ricordiamo che in Europa ci sono 24 milioni di europei in età di lavoro, che lavoro non trovano: e 18 milioni sono nella zona euro.
Ma tutti questi fattori non sarebbero bastati, se la cosiddetta “Europa” non avesse emanato le normative opportune. Ovviamente su suggerimento germanico. Nel 1986, la Comunità vara e codifica a livello europeo la norma che “autorizza l’esportazione temporanea di un bene intermedio (o ricambi e componenti) in un paese non-membro dove questo bene sarà perfezionato, per poi essere re-importato beneficiando di esenzione parziale o totale delle tasse doganali”. Come ha scritto su Le Monde Diplomatique il giornalista economico Pierre Rimbert: “Dopo il collasso del blocco dell’Est, le quota d’importazione esenti sono state addirittura allargate. Ciò ha aperto ai padroni tedeschi prospettive euforizzanti: subappaltare la cromatura delle rubinetterie e la politura delle vasche da bagno a operai cecoslovacchi sovra-qualificati ma sub-rivendicativi; affidare tessuto a casalinghe polacche pagate in zloty ed ottenere giacche e pantaloni che saranno vendute con il logo di una marca berlinese. Far decorticare i crostacei là per venderli qua. Tutto questo diventa possibile dagli anni 90”. Ancor prima che il comunismo cada, per la Germania i confini ad Est non esistono più, una Unione Europea è già stata formata e senza dazi.
Così il Gruppo di Visegrad, che in politica è così dignitosamente autonomo dal pensiero unico bruxellese, sul piano economico è germano-dipendente. In regime di disoccupazione di massa, i governanti non hanno guardato per il sottile a chi il lavoro lo dava.
https://www.egaliteetreconciliation.fr/Comment-l-Allemagne-50-ans-apres-a-remis-l-Europe-de-l-Est-au-travail-force-49838.html
“E così – scrive Rimbert – la Germania diventa al giro del millennio il primo partner commerciale di Polonia, repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria. Per Berlino, rappresentano un retro-paese di 64 milioni di abitanti, trasformato in piattaforma di produzione de-localizzata. Certo anche italiani, francesi e britannici profittano di questo commercio asimmetrico, ma in misura minore. Audi e Mercedes affollerebbero meno le strade di New York e Pechino se il loro pezzo con comprendesse anche i bassi salari polacchi e ungheresi”. Un vantaggio enormemente aumentato dall’introduzione dell’euro: che per la Germania significa esportare in moneta svalutata del 20% (rispetto all’ipotetico marco) mentre per l’Italia e la Francia significa dover esportare con moneta sopravvalutata del 15-18%.
Le industrie esportatrici italiane ce la fanno ancora egregiamente (meglio di quelle francesi…), ma ovviamente a margini tremendamente assottigliati. Il che non permette di creare più posti di lavoro qui.
Ricordiamo che in Europa ci sono 24 milioni di europei in età di lavoro, che lavoro non trovano: e 18 milioni sono nella zona euro.
Anche potenza agricola nel grande spazio slavo (il sogno di Hitler)
Non basta ancora. Non solo l’industria tedesca, ma anche l’agricoltura germanica, storicamente deficitaria, è stata favorita in modo incredibile dall’integrazione dell’Est: la grandi fattorie (ex kolchoz), braccia abbondanti e qualificate, e soprattutto spazio agricolo per allevamento estensivo. Così Ungheria e Romania hanno creato un export di “carne di manzo tedesca” che mai prima era esistito (perché credete che i tedeschi abbiano inventato il wurstel di cascami di maiale affumicati?): la vulnerabilità alimentare in caso di guerra era stato l’assillo di Federico il Grande, di Bismarck come del Terzo Reich, e il motivo della storica paura-invidia verso la Francia imperiale e potenza agricola. Ed ecco che l’agricoltura “tedesca”, supera quella francese, ed esporta in Europa filetti e quarti di mandrie allevate in Romania, dove non si è guardato troppo per il sottile alle norme igieniche eurocratiche. “E’ come se l’intera produzione agricola spagnola fosse passata sotto bandiera francese”.
In breve: è stato a causa di questa riserva di manodopera di lavoratori e consumatori potenziali che i sindacati tedeschi hanno accettato le famose leggi Hartz coi loro minijob e fluidificazione del mercato del lavoro (flex-security); anche perché il costo degli alimentari è oggi basso in Germania e i sottopagati da minijob, comunque, mangiano.
Guardiamo la mappa della UE reale, cui non abbiamo prestato abbastanza attenzione, illusi da una UE ideale che non esiste. A nord-est, i Paesi Bassi, principale piattaforma logistica dell’industria renana, Belgio e Danimarca hanno nel grande vicino il primo sbocco commerciale (e senza dazi, siamo in Europa!); a sud l’Austria, anch’essa integrata alle catene produttive tedesche. Ma si tratta comunque di paesi sviluppati moderni, con loro eccellenze a forte valore aggiunto, servizi avanzati come assicurazioni e finanza. Quanto all’Est, Polonia, Ungheria, Slovacchia, Romania e Bulgaria sono legate in posizione subalterna, semi-coloniale, a Berlino.
Vi ricorda qualcosa questa mappa? Si tratta del Lebensraum, il “grande spazio vitale” (vitale in senso biologico) di cui la potenza tedesca aveva assolutamente bisogno per non soffocare: Hitler lo perseguì con la conquista militare e il lavoro forzato slavo, fallendo. Adesso la “democratica” federale Germania, battendosi il petto per le sue colpe belliche, lo ha realizzato di nuovo con la collaborazione della cosiddetta “Europa Unita”. Senza nemmeno rendersene conto, impolitica com’è – e continuando a governare il suo “nuovo Reich” e il suo Lebensraum con la mentalità da bottegaio provinciale, corto ed egoista, che è la sua falla psico-politica apparentemente inevitabile.
E pensare che l’europeismo nacque per “frenare” la Germania
Ma non do affatto colpa ai tedeschi, che non hanno fatto che esercitare le loro tipiche virtù. Se la loro è “impoliticità”, come giudicare quella dei “grandi europeisti” precedenti, dei Jean Monnet, dei Delors, dei Mitterrand , e prima ancora dei celebri idioti estensori del Manifesto di Ventotene? Tutti costoro – uniti a Washington – vollero l’Europa burocratica e depoliticizzata, senza democrazia né patrie, proprio con l’idea che avrebbe moderato la Germania, ingabbiato la sua volontà di potenza, e l’avrebbe, castrandola, resa “democratica e pacifica”. Mitterrand forzò la mano a Kohl perché accettasse l’euro, con la certezza che sarebbe stato un antidoto limitante della riunificazione delle due Germanie: i francesi dovrebbero esumarne il cadavere e bruciarlo, come si faceva nell’epoca cristiana per i vescovi eretici.
Idiozia politica insuperabile e eterogenesi dei fini, oggi Macron si siede ai piedi della Merkel come un cagnolino servizievole; impone alla Francia le politiche suggerite dalla Germania, e radicalmente sbagliate; qui da noi, vincerà il blocco “Più Europa”, con Gentiloni e Berlusconi, il che significa: più servi e camerieri del Lebensraum tedesco.
Un bel successo storico dell’”antifascismo”, convinto di aver neutralizzato la Germania. Almeno, è demilitarizzata.
Guardate meglio.
Ucraina.
Nei giorni scorsi s’è tenuto a Monaco la Conferenza sulla Sicurezza, evento da ormai mezzo secolo dell’atlantismo germanico. Quest’anno, davanti a una quarantina di capi di stato e di governo, la Germania ha reso nota la sua volontà di prepararsi a “un’Europa senza Stati Uniti” ed ha annunciato il proprio riarmo; la volontà di “investire massicciamente nelle sue forse armate e controllare l’insieme delle forze armate europee, francesi comprese” (Meyssan).
Nei giorni scorsi s’è tenuto a Monaco la Conferenza sulla Sicurezza, evento da ormai mezzo secolo dell’atlantismo germanico. Quest’anno, davanti a una quarantina di capi di stato e di governo, la Germania ha reso nota la sua volontà di prepararsi a “un’Europa senza Stati Uniti” ed ha annunciato il proprio riarmo; la volontà di “investire massicciamente nelle sue forse armate e controllare l’insieme delle forze armate europee, francesi comprese” (Meyssan).
Ad Est, quel certo fascino delle divise brune
Riga, sfilano patriottiche le vecchie SS.
In questa prospettiva, assumono nuovi significati le manifestazioni nazionali che si manifestano all’Est, proprio lì nel Lebensraum. Dalla Lettonia all’Ucraina , dalla Polonia alla Bulgaria , popolazioni senza complessi di politicamente corretto rialzano i simboli e le insegne della collaborazione anni ’40 col Terzo Reich: ultima, il 17 febbraio, la sfilata in onore del generale Hristo Lukov, l’uomo di Hitler a Sofia assassinato nel’43 da partigiani comunisti. In Lettonia l’adesione al Nazismo è stata eroicizzata, come in Estonia: coloro che servirono nelle SS sono tenuti, a ragione, patrioti anticomunisti. In Ucraina i battaglioni Azov e Donbass e Settore Destro inalberano le insegne uncinate con cui i nonni e bisnonni militarono a fianco del Reich. In Ungheria, e persino in Polonia, quei simboli non sono memoria morta di quattro nostalgici, e ancor meno memoria di vergogna; ma sangue e carne. Politici bulgari scattano nel saluto romano. E’ segno che là all’Est, sotto il gelo sovietico, s’è tramandata dai padri ai figli una “narrativa” in cui il Terzo Reich non è affatto il Male Assoluto, ma è circonfuso di un alone di grandezza e un carisma vivo potente. Poiché i nazisti ucraini fanno il gioco degli Usa e dell’atlantismo antirusso, la Merkel non ha mai preso le distanze, e nemmeno i progressisti europeisti. Ma adesso Alternative fur Deutschland è diventato il secondo partito tedesco. Potrebbe anche diventare il primo. Le cose cambiano presto.
In questa prospettiva, assumono nuovi significati le manifestazioni nazionali che si manifestano all’Est, proprio lì nel Lebensraum. Dalla Lettonia all’Ucraina , dalla Polonia alla Bulgaria , popolazioni senza complessi di politicamente corretto rialzano i simboli e le insegne della collaborazione anni ’40 col Terzo Reich: ultima, il 17 febbraio, la sfilata in onore del generale Hristo Lukov, l’uomo di Hitler a Sofia assassinato nel’43 da partigiani comunisti. In Lettonia l’adesione al Nazismo è stata eroicizzata, come in Estonia: coloro che servirono nelle SS sono tenuti, a ragione, patrioti anticomunisti. In Ucraina i battaglioni Azov e Donbass e Settore Destro inalberano le insegne uncinate con cui i nonni e bisnonni militarono a fianco del Reich. In Ungheria, e persino in Polonia, quei simboli non sono memoria morta di quattro nostalgici, e ancor meno memoria di vergogna; ma sangue e carne. Politici bulgari scattano nel saluto romano. E’ segno che là all’Est, sotto il gelo sovietico, s’è tramandata dai padri ai figli una “narrativa” in cui il Terzo Reich non è affatto il Male Assoluto, ma è circonfuso di un alone di grandezza e un carisma vivo potente. Poiché i nazisti ucraini fanno il gioco degli Usa e dell’atlantismo antirusso, la Merkel non ha mai preso le distanze, e nemmeno i progressisti europeisti. Ma adesso Alternative fur Deutschland è diventato il secondo partito tedesco. Potrebbe anche diventare il primo. Le cose cambiano presto.
fonte: Blog Maurizio Blondet
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