Con paterna comprensione e benevola indulgenza autorevoli esponenti del governo impegnati nella campagna elettorale – la prima che ha individuato nel populismo il nemico pubblico n.1 – hanno deciso di usare le stesse armi dei diversamente antagonisti coi quali sono pronti a stringere i patti più scellerato, prestando la loro voce a quelli che pensano essere i moti dell’anima o meglio della pancia degli italiani, e dunque alla paura, il male di un secolo già troppo lungo. Mostrando così di dismettere insieme ad ogni legame ideale con la “sinistra” anche i suoi caratteri, a cominciare da quella spocchia dettata da un’antica pretesa di superiorità che derubricava a ignava e irrazionale inciviltà le reazioni di fronte a rom e immigrato dei marginali delle periferie, gli unici peraltro che i profughi li vedono e frequentano a differenza di chi sta ai Parioli o a Via del Vivaio, diventati bacini elettorali del Pd, che richiamava a dovere cristiano e imperativo morale un’accoglienza ridotta a dovere e monopolio esclusivo dei poveracci come di Ostia e non certo di Capalbio, che irride la preoccupazione per la concorrenza sleale, che non riguarda, è vero, chi aspirerebbe a raccogliere pomodori e frutta a Rosarno, ma invece costi e spese occidentali a fronte di salari orientali, come è naturale che pensino quelli che ritengono Clinton meglio di Trump in quanto donna e più moderna e composta anche nelle malefatte, o che sono convinti che la Brexit sia un gesto di irragionevole e insana perversione sciovinista.
E infine che lo scontento sia una colpa da castigare quando affligge – meritatamente – ceti inferiori che hanno ricevuto troppo e dunque condannati geneticamente al sacrificio e alla privazione, mentre sarebbe una elegante patologia da sanare con sedute psicoanalitiche se colpisce i toccati dal privilegio e dal blasone, come certe malattie dinastiche di monarchi troppo sensibili.
E così leggiamo che ministri in armi attrezzati anche con sondaggi e rilevazioni che la collocano al primo poste nelle preoccupazioni dei cittadini, raccomandano di dar retta alla paura, a non deplorarla, anzi a guardare ad essa con la bonaria e paziente condiscendenza che gli adulti devono dedicare a fanciulli che temono il buio o – peggio- l’uomo nero.
E promettono rimedi e soluzioni: muri, rifiuto, repressione, censura, riduzione di diritti espressione e circolazione, che a differenza del costume governativo in uso, non si riducono a semplici annunci elettorali. Perché quelle ricette sono pensate proprio per incoraggiarla la paura, legittimarla, autorizzarla e dirigerla verso obiettivi noti: gli “altri” siano essi immigrati, ribelli, “diversi” con preferenza per chi alle differenze di etnia esplicitamente assimilate a “razza”, ne uniscono altre, inclinazioni e gusti, religione e colore della pelle, genere e tradizioni e costumi incompatibili con la nostra civiltà rivendicata come superiore, e poveri, malati, vecchi che costituirebbero comunque una minaccia per decoro e equilibrio di coscienze impigrite e accidiose.
Sono prescritte per farla provare solida la paura, altro che liquida, concreta altro che immateriale, così come, a dispetto di Bauman, si è sempre voluto che fosse, un veleno che intride la terra più che un gas, per far sì che si preferisse un ora e qui brutto e miserabile a un domani altrove forse migliore ma ignoto, condannando popoli del passato e il nostro al rango d società fredde, come le definì Levy Strauss, quelle che attorcigliate intorno al rifiuto del cambiamento, si riproducono uguali a se stesse preoccupate solo di conservare il minimo – ormai non più garantito – di benessere conquistato o ereditato.
Però anche su certe paure solide, perfino quelle arcaiche o ancestrali, vogliono dire la loro: quella dei senza tetto del sisma è colpevolizzata: lascino le macerie e si sradichino consegnando la loro terra a interessi superiori, quella del buio, ben rappresentata dalla verso la quale si avvia un pianeta che dissipa le risorse di tutti in favore dei profitti di pochissimi: sono ubbie di rovinologi e millenaristi di professione che vogliono bloccare lo sviluppo.
Invece c’è una paura sventolata come un vessillo per tenere insieme un esercito obbediente e assoggettato, quella del disordine, del caos, che richiede l’audacia di mantenere tutto immutato, di tenere gli stessi padroni e gli stessi servitori che si occupano dei loro interessi, che impone la sostituzione per necessità del voto con un timbro preconfezionato, in modo che il timore e l’esitazione e il sospetto siano virtù dei cittadini come del politico, autorizzato a abiurare a mandato e responsabilità, che l’inazione e la viltà siano ragionevoli e mature prerogative civili, che l’utopia e l’aspettativa di altro da quello che ci somministrano come un’amara e tassativa medicina, altro non siano che capricci e depravazioni di una minoranza viziata e degenerata.
Eppure ci sono stati tempi nei quali si trovava la forza di avere coraggio malgrado la paura, di reagire malgrado le minacce, di conservare la propria dignità malgrado le intimidazioni, di andare avanti malgrado la strada sia accidentata e si stia facendo notte. Forse perché allora ci si teneva per mano?
E promettono rimedi e soluzioni: muri, rifiuto, repressione, censura, riduzione di diritti espressione e circolazione, che a differenza del costume governativo in uso, non si riducono a semplici annunci elettorali. Perché quelle ricette sono pensate proprio per incoraggiarla la paura, legittimarla, autorizzarla e dirigerla verso obiettivi noti: gli “altri” siano essi immigrati, ribelli, “diversi” con preferenza per chi alle differenze di etnia esplicitamente assimilate a “razza”, ne uniscono altre, inclinazioni e gusti, religione e colore della pelle, genere e tradizioni e costumi incompatibili con la nostra civiltà rivendicata come superiore, e poveri, malati, vecchi che costituirebbero comunque una minaccia per decoro e equilibrio di coscienze impigrite e accidiose.
Sono prescritte per farla provare solida la paura, altro che liquida, concreta altro che immateriale, così come, a dispetto di Bauman, si è sempre voluto che fosse, un veleno che intride la terra più che un gas, per far sì che si preferisse un ora e qui brutto e miserabile a un domani altrove forse migliore ma ignoto, condannando popoli del passato e il nostro al rango d società fredde, come le definì Levy Strauss, quelle che attorcigliate intorno al rifiuto del cambiamento, si riproducono uguali a se stesse preoccupate solo di conservare il minimo – ormai non più garantito – di benessere conquistato o ereditato.
Però anche su certe paure solide, perfino quelle arcaiche o ancestrali, vogliono dire la loro: quella dei senza tetto del sisma è colpevolizzata: lascino le macerie e si sradichino consegnando la loro terra a interessi superiori, quella del buio, ben rappresentata dalla verso la quale si avvia un pianeta che dissipa le risorse di tutti in favore dei profitti di pochissimi: sono ubbie di rovinologi e millenaristi di professione che vogliono bloccare lo sviluppo.
Invece c’è una paura sventolata come un vessillo per tenere insieme un esercito obbediente e assoggettato, quella del disordine, del caos, che richiede l’audacia di mantenere tutto immutato, di tenere gli stessi padroni e gli stessi servitori che si occupano dei loro interessi, che impone la sostituzione per necessità del voto con un timbro preconfezionato, in modo che il timore e l’esitazione e il sospetto siano virtù dei cittadini come del politico, autorizzato a abiurare a mandato e responsabilità, che l’inazione e la viltà siano ragionevoli e mature prerogative civili, che l’utopia e l’aspettativa di altro da quello che ci somministrano come un’amara e tassativa medicina, altro non siano che capricci e depravazioni di una minoranza viziata e degenerata.
Eppure ci sono stati tempi nei quali si trovava la forza di avere coraggio malgrado la paura, di reagire malgrado le minacce, di conservare la propria dignità malgrado le intimidazioni, di andare avanti malgrado la strada sia accidentata e si stia facendo notte. Forse perché allora ci si teneva per mano?
fonte: Simplicissimus
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