Campeggia nei corridoi della sezione lavoro del Tribunale di Milano, da alcuni giorni, un singolare manifesto di promozione di un corso dal titolo “Licenziamento collettivo e diritto dell’unione europea”, che attira l’attenzione per il contenuto del testo di presentazione dell’incontro.
Per l’ignota mano che ha vergato la locandina “le riforme del lavoro varate negli ultimi tre anni incidono profondamente sulla regolamentazione del mercato del lavoro italiano. Alla base delle riforme sembra di intravedere un vero e proprio cambio di paradigma.
La cultura del novecento concepiva il diritto del lavoro come un ordinamento giuridico volto a soddisfare il bisogno di tutela del lavoratore ed a riequilibrare i rapporti di forza tra “capitale e lavoro”.
A questa considerazione preliminare, fa seguito un giudizio tranciante: “Quest’impianto ha mostrato, nel tempo, di non essere in grado di rappresentare la complessità del mondo del lavoro ed offrire strumenti di inclusione per quelle fasce, sempre piu’ ampie, di lavoratori privi di diritti.
In particolare, l’esigenza di attrarre investimenti stranieri e, al contempo, convincere le aziende a non delocalizzare verso mercati del lavoro piu’ convenienti richiede, certamente, forti dosi di flessibilità.
Ecco dunque la soluzione del problema: “Le riforme del lavoro in Italia (dalla legge Fornero al c.d. Jobs Act), in questo contesto, hanno introdotto un sistema, complesso, introducendo numerosi elementi di flessibilità (sia in entrata che in uscita dal rapporto di lavoro) ed un mix di politiche attive a sostegno di chi ha perso il lavoro. Il contraltare a questo massiccio sistema di flessibilità è (almeno nelle intenzioni del legislatore) l’incentivo al contratto di lavoro a tempo indeterminato accompagnato dall’estensione delle forme di sostegno al reddito”.
Non manca, infine, il riferimento al “ruolo del sindacato (nel mutato contesto normativo)” e “alle nuove frontiere della contrattazione collettiva (soprattutto aziendale)”.
Sono elencati, nel breve spazio di poche righe, tutti i “luoghi comuni” dell’unica “ideologia rimasta dopo la fine delle ideologie”[1] asetticamente applicati al mondo del lavoro (ora diventato “mercato”) in questo vero e proprio manifesto neoliberista: la tutela del lavoro come ferrovecchio novecentesco, “l’esigenza di attrarre investimenti stranieri” come valore primario, la flessicurezza quale obbiettivo della legislazione del lavoro, la Legge Fornero ed il Jobs Act come attuazione di questo nuovo fine legislativo, l’opportunità di un “nuovo ruolo” del sindacato, la centralità della contrattazione aziendale a scapito della contrattazione collettiva.
Nessuna sorpresa se si trattasse del manifesto di presentazione di un incontro organizzato dall’Associazione degli Industriali o dalla Mont Pelerin Society; ciò che sconcerta, in questo caso, è che si tratta di un incontro di formazione dei magistrati, organizzato direttamente dalla “Scuola Superiore della Magistratura”[2].
Ecco servita l’ultima esemplificazione del modo in cui la dottrina neoliberista, negli ultimi trent’anni ed alla “fine della storia”, ha conquistato la completa, gramsciana “egemonia culturale”: la produzione di migliaia di saggi, articoli, convegni che hanno permesso ai rinnovati dogmi del libero mercato e del laissez faire di insinuarsi silenziosamente nelle accademie, nei governi[3] e, da ultimo, in ampi strati della magistratura del lavoro.
E’ l’abile creazione, per riprendere le splendide parole del compianto Luciano Gallino, dell’ “intellettuale collettivo” sortito dalle fondamenta della Mont Pelerin Society; è il ribaltamento dei pilastri repubblicani con la sostituzione, quale fondamento della democrazia, dei mercati in luogo del lavoro, così come auspicato alcuni anni orsono nel noto report della banca d’affari Morgan in cui si censurava, tra i diversi vizi di una costituzione definita “socialista”, proprio la tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori.
Non pare un caso, dunque, se in sempre piu’ numerose pronunce della giurisprudenza viene spesso richiamata la “libertà di iniziativa economica privata” tutelata dall’art. 41 della Costituzione per giustificare l’insindacabilità giudiziaria nel merito perfino delle operazioni imprenditoriali più improbabili foriere di dubbi licenziamenti economici o che, addirittura, si giustifichi il licenziamento del lavoratore per eccessiva morbilità anche durante il periodo di conservazione del posto di lavoro[4].
In tale inquietante contesto, l’inopportuna presentazione dell’incontro della Scuola Superiore della Magistratura stimola una domanda più preoccupata che provocatoria: la nuova generazione di magistrati del lavoro giudicherà in nome del popolo italiano o dei mercati internazionali?
NOTE
[1] Da L. Gallino, Come (e perché) uscire dall’euro ma non dall’Unione Europea,Milano-Bari, Laterza, 2016.
[2] Incontro del 18 maggio 2016, organizzato presso il Palazzo di Giustizia di Milano dalla Scuola Superiore della Magistratura, struttura territoriale di formazione decentrata del distretto di Milano.
[3] L. Gallino, La lunga marcia dei neoliberali per governare il mondo, La Repubblica, 27 luglio 2015.
[4] Cassazione 4 settembre 2014, n. 18678.
fonte: MicroMega