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lunedì 23 maggio 2016

Falcone è morto, la MAFIA purtroppo " NO ".

di Francesco Carini

Quanto più lo Stato si disinteresserà della Sicilia e le istituzioni faranno marcia indietro, tanto più aumenterà il potere dell'organizzazione. (Giovanni Falcone, Cose di Cosa Nostra).
Oggi è la ricorrenza di una fra le più brutte pagine della storia italiana. Ventiquattro anni fa venivano barbaramente uccisi il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta nel tratto di autostrada che collega Capaci a Palermo.




Quasi a ricordare che nell’isola continua ad esistere la macrocriminalità, l’attentato al presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci ha fatto ricordare che, anche nella provincia “babba”, la malavita è viva e vegeta.

Ma la manifestazione di solidarietà di sabato 21 maggio organizzata a Sant’Agata Militello, che ha visto una massiccia partecipazione delle istituzioni e della società civile, ha fatto capire che la gente non ci sta… Non si vuole piegare all’omertà, elemento imprescindibile dell’instaurarsi della mafia all’interno di un territorio.

Ma un “tumore in metastasi” di questo calibro non si può spiegare solo alla luce di: fiction, parate, alcuni video caricati su Youtube o con il commovente elenco delle vittime. Lo si deve fare attraverso analisi antropologiche, storiche e sociologiche, che vadano a sviscerare i problemi dal profondo, spesso legati a tratti che contraddistinguono la psicologia di un popolo.

Una fra le opere più importanti sul tema è sicuramente “La mafia di un villaggio siciliano” di Anton Blok, dove lo studioso olandese ha analizzato accuratamente i cambiamenti intercorsi a “Genuardo” (Contessa Entellina) nel periodo compreso fra il 1860 ed il 1960. Nell’epilogo dell’opera, Blok indica come elemento di turning point lo smantellamento del latifondo, in virtù di cui venne a diminuire il ruolo mafioso di “campiere” e “gabelloto”, al cui controllo erano sottomessi drammaticamente contadini e gente comune che potettero cambiare professione (edilizia) o decisero di spostarsi verso il Nord industrializzato. Pertanto, la forza della mafia contadina è diminuita (o meglio si è modificata) non per effettivi meriti della società civile o per il duro lavoro delle forze dello stato, bensì per l’emigrazione. Migliaia di persone decisero di sfuggire alla miseria e al giro di favori legati all’intermediazione mafiosa, cercando fortuna al settentrione e togliendo così alla mafia agricola il ruolo di mediatrice nella ricerca del “lavoro”, definibile più precisamente come forma di schiavitù che altro. Oltre all’ondata migratoria legata alla sopravvivenza, se ne unì un altro tipo assimilabile ad un trasferimento “d’élite”, con giovani appartenenti a famiglie contadine più ricche senza abilità professionali, che partirono per il continente con un titolo di studio in tasca e la voglia di sfuggire ad un paese “morto” economicamente. In base a questo mutamento non pianificato, la mafia dovette evolversi seguendo il miglioramento economico-sociale dell’Italia, togliendosi la coppola ed agendo in modo più raffinato attraverso i colletti bianchi, proprio per la marginalizzazione dell’economia contadina.

Blok sostiene che il ruolo di intermediazione con la società si spostò in ambito politico-amministrativo, grazie al trasferimento e a una rete di contatti e clientele instauratisi soprattutto a Palermo (es. con il posizionamento di affiliati o uomini di fiducia di Corleone o Camporeale nella burocrazia di stato).

Quest’analisi è fondamentale per comprendere il carattere mafioso di una società, che ha un punto in comune con il patronage, cioè con un tipo di rapporto diadico, nonerga omnes, di sottomissione ad una persona che fa un favore (spesso legato alla ricerca di lavoro) e che crea una rete di clientele parecchio diffusa nel Meridione e pian piano estesa anche nel resto d’Italia.

L’antropologa Amalia Signorelli, nel volume Antropologia del Mediterraneo, fa una disamina del concetto di uomo d’onore, che è colui il quale “si fa i fatti propri”. Pertanto, il vero uomo di rispetto è colui il quale bada ai fatti propri, non permettendo ad altri di intromettervisi. Ma questo sarà solo un rapporto “inter pares”, dal momento che un confronto del genere non si può instaurare con un potente. Viene citato lo jus primae noctis come esempio lampante, di come una persona comune possa essere capace di umiliarsi davanti ad un “signore” ritenuto superiore perché da lui dipendono il suo lavoro e il suo sostentamento, nonostante la stessa azione verrebbe certamente punita in caso di rapporto con un cittadino dello stesso ceto sociale, per salvare la faccia davanti al villaggio.

Traslando la situazione, il clientelismo (patronage) si basa su un rapporto gerarchico di fedeltà e sul silenzio, che in questo caso coincide con l’omertà.

La tendenza dei siciliani alla discrezione, per non dire al mutismo, è proverbiale. Nell'ambito di Cosa Nostra raggiunge il parossismo. L'uomo d'onore deve parlare soltanto di quello che lo riguarda direttamente, solo quando gli viene rivolta una precisa domanda e solo se è in grado e ha diritto di rispondere. Su tale principio si basano i rapporti interni alla mafia e i rapporti tra mafia e società civile. (Giovanni Falcone, Cose di Cosa Nostra).

Proprio in un giorno in cui si commemora il ventiquattresimo anniversario di quel maledetto 23 maggio, in un periodo in cui la mafia sembra aver rialzato la testa, un siciliano può essere orgoglioso della risposta di un territorio come quello dei Nebrodi, spesso lasciato a sé stesso, ma la lotta alla mafia non si combatte solo con le prese di posizione di fronte ad una sparatoria, bensì con atti che vadano a disintegrare il velo di omertà e di illegalità dietro cui si nasconde una politica clientelare ormai diffusa in quasi tutta l'Italia, e di intermediazione che causa la fuga non più di giovani contadini, bensì di laureati formatisi in casa nostra, che vanno a fare le fortune di altri stati europei e che lasciano un baratro all’interno della società civile impoverita e di amministrazioni con assunzioni, appalti ed incarichi pilotati.

Uno dei miei colleghi romani, nel 1980, va a trovare Frank Coppola, appena arrestato, e lo provoca: «Signor Coppola, che cosa è la mafia?». Il vecchio, che non è nato ieri, ci pensa su e poi ribatte: «Signor giudice, tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell'appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia…». (Giovanni Falcone, Cose di Cosa Nostra).

Le forme di intermediazione della mafia sono cambiate nel tempo, ma la sostanza è rimasta immutata (lo scandalo “Mafia Capitale” insegna). Essa può attecchire dapperutto, dove ci sono: fondi da arraffare e al contempo scarsità di risorse, coperture e sicurezza d’impunità da parte dei potenti e mancata cognizione dei propri mezzi e dei propri diritti da parte dei deboli. Vivere in un paese civile e democratico significa non dipendere o “appartenere” a qualcuno come in un feudo, bensì permettere l’autodeterminazione e la non sottomissione dell’individuo, se non davanti ad una legge uguale per tutti che dovrebbe garantire diritti civili, sociali e meritocrazia, senza la mediazione di nessuno a cui dire grazie, ritornare favori o a cui fornire voti. I silenzi di fronte all’uccisione delle regole democratiche rappresentano uno sputo al ricordo di tutte le vittime di mafia e dei veri rappresentanti dello Stato che si sono immolati per fare in modo che la gente vivesse libera dal giogo mafioso, sia quello in coppola e lupara, che quello in giacca e cravatta, molto più elegante e potente.

Giovanni Falcone è morto proprio perché voleva sconfiggere questo cancro, e di certo si sarebbe compiaciuto della partecipazione di migliaia di persone alla manifestazione di Sant’Agata Militello in solidarietà di Antoci, ma probabilmente vorrebbe che lo stesso sdegno venisse mostrato con i fatti in tutto lo Stivale dalle forze migliori dello Stato, di fronte a scandali in cui politica, finanza, imprenditoria e malaffare si mescolano decidendo le sorti di un paese, attentando al futuro, alla dignità e alla coscienza di un’intera nazione, da Nord a Sud, passando per la capitale.

[…]Sono morti per noi abbiamo un debito verso di loro. Questo debito dobbiamo pagarlo gioiosamente continuando la loro opera… Rifiutando dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne, anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro, facendo il nostro dovere. La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto un’opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo egli mi disse: la gente fa il tifo per noi, e con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che un appoggio morale della popolazione dà al lavoro dei giudici. Significava qualcosa di più, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze. ( 
Paolo Borsellino )

fonte: LINKIESTA