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giovedì 16 giugno 2016

A.E. Pritchard Il progetto Unione Europea vive un declino irreversibile.Io voto per l’uscita.

Dalle colonne del Telegraph, la dichiarazione di voto di Ambrose Evans Pritchard per il Brexit. Nonostante egli non si nasconda i possibili traumi di un’uscita, la scelta è netta: il regime sovranazionale europeo devitalizza la legittimità democratica delle nazioni che lo compongono, senza peraltro costruirne una propria, e ora il popolo britannico ha l’occasione, forse unica, di far valere il suo verdetto su quattro decenni di gestione della UE distruttiva e pericolosa.

di Ambrose Evans Pritchard

Con tristezza e tormentato dai dubbi, da cittadino comune ho deciso di votare per l’uscita dall’Unione europea.




Tuttavia, non bisogna illudersi che il Brexit non sarà traumatico. Chiunque affermi che la Gran Bretagna può sganciarsi alla leggera dopo essere rimasta invischiata per 43 anni negli affari della UE è un ciarlatano, un sognatore, o ha poco contatto con la realtà della finanza globale e della geopolitica.


Ridotta all’essenza, alla fine si tratta di una scelta fondamentale: se ripristinare il pieno autogoverno di questa nazione, oppure continuare a vivere in un regime sovranazionale, governato da un Consiglio europeo che non abbiamo eletto in nessun modo significativo, e che i cittadini britannici non potranno mai rimuovere, anche quando insiste a commettere errori.

Per alcuni di noi – e non vogliamo farci guidare dalla campagna favorevole al Brexit – questo non ha niente a che vedere con i nostri contributi al bilancio della UE. Qualunque ne sia l’ammontare, è irrilevante dal punto di vista economico, e ci dà accesso illimitato a un mercato enorme.

Quello che dobbiamo decidere è se farci guidare da una Commissione con poteri quasi esecutivi che opera più come le istituzioni chiericali del Papato del 13esimo secolo, piuttosto che come un servizio civile moderno; e se vogliamo sottometterci a una Corte di Giustizia Europea che invoca una supremazia indiscriminata, senza possibilità di appello.
Dobbiamo chiederci se pensiamo che le nazioni europee siano le uniche autentiche sedi della democrazia, sia che si tratti di questo paese, che della Svezia, dell’Olanda o della Francia – dove Nicholas Sarkozy ha lanciato la sua campagna elettorale per la presidenza con un appello al Re Clodoveo e ai 1.500 anni di unità francese.

Io e il mio amico greco Yanis Varoufakis, eurofilo convinto, siamo d’accordo su un punto centrale, che oggi la UE è una via di mezzo deforme che nessuno ha mai voluto. Egli propone un enorme passo in avanti verso gli Stati Uniti di Europa con un vero parlamento che imponga a un presidente eletto di rispondere dei propri errori. Tuttavia, persino lui ha dubbi su questo suo sogno. “C’è della virtù nel fallimento eroico” ha affermato.

Io non credo che questo sogno sia neanche lontanamente possibile, e nemmeno che sia desiderabile, ma comunque non è un’offerta sul piatto. Dopo sei anni di crisi dell’Eurozona non c’è nemmeno l’ombra dell’unione fiscale: non ci sono eurobond, non c’è un fondo di riscatto dal debito di tipo Hamiltoniano, non c’è condivisione del debito, e nemmeno trasferimenti di bilancio. L’unione bancaria contraddice il suo nome. La Germania e gli stati creditori hanno puntato i piedi.

Siamo d’accordo sul fatto che la UE così com’è non solo è distruttiva, ma alla fine risulta pericolosa, e che questa è la fase in cui ora ci troviamo, in cui le autorità di governo si stanno sbriciolando in tutta Europa.

Il progetto toglie linfa vitale alle istituzioni nazionali, ma non le sostituisce con qualcosa di attraente o legittimato a livello europeo. Ne porta via tutto il carisma, e lo distrugge. È così che muoiono le democrazie.

“Vengono lentamente spogliate di ciò che le rende democratiche, attraverso un processo graduale di declino interno e indifferenza crescente, fino a quando non ci si rende improvvisamente conto che sono diventate qualcosa di diverso, come le costituzioni repubblicane di Atene o di Roma, o le città-stato italiane del Rinascimento”, ha detto Lord Sumption, membro della nostra Corte Suprema.

È passato un quarto di secolo da quando ho scritto per questo giornale sul summit di Maastricht. Avevamo avvisato che le élite europee si stavano imbarcando in un esperimento avventato, mettendo il Monte Pelio sopra il Monte Ossa con un vandalico disprezzo per la coesione dei loro antichi sistemi di governo.

Abbiamo sostenuto malvolentieri la strategia del compromesso di John Major, sperando che eventi futuri avrebbero “frenato gli estremisti e messo la Commissione Europea su un percorso sano e realistico”.

Questo non è successo, come Donald Tusk ha confessato due settimane fa, rimproverando le élite per aver perseguito “un’utopia senza stati nazionali” ed per essersi spinti troppo in là su qualsiasi fronte.

“Ossessionati dall’idea di un’integrazione immediata e totale, non ci siamo accorti che i cittadini europei non condividono il nostro Euro-entusiasmo” ha affermato.

Se ci fossero più Tusk al timone, si potrebbe ancora dare al progetto europeo il beneficio del dubbio. La dura realtà – e cinque anni di lavoro concreto a Bruxelles – mi dicono che altri si approprierebbero trionfalmente di una decisione britannica di rimanere, giudicandola una sottomissione per paura. Si metterebbero in tasca un voto in tal senso. Inoltre, sono accadute troppe cose che non si possono perdonare.

La UE ha oltrepassato una linea fatale quando ha fatto passare di contrabbando il Trattato di Lisbona, con una trama di governo, dopo che il testo era già stato respinto dagli elettori francesi e olandesi nella sua forma precedente. Una cosa è portare avanti il Progetto europeo senza fare rumore e con il “metodo Monnet”, un’altra è chiedere un plebiscito per poi ignorare il risultato.

Devo ricordare ai lettori che il nostro governo aveva dato una “garanzia assoluta” di indire un referendum, salvo poi ritirarla dicendo che il Trattato di Lisbona era solo un esercizio di sistemazione e messa in ordine. Non era così. Come avvisammo allora, esso ha creato una corte suprema europea che ha giurisdizione su tutte le aree della politica comunitaria, con una Carta dei Diritti Fondamentali giuridicamente vincolante che apre le porte a qualsiasi cosa.

Devo anche aggiungere che la clausola di opting-out dalla Carta del Protocollo 30, descritta come “chiarissima” da Tony Blair nella Camera dei Comuni, è stata spazzata via dalla Corte di Giustizia Europea?

È rinfrancante che i nostri giudici abbiano iniziato a resistere alla corte imperiale d’Europa, minacciando di opporsi a ogni decisione che vada in contrasto con la Magna Charta, il Bill of Rights e i testi fondamentali della nostra antica costituzione. Ma questo solleva altrettante domande di quelle a cui risponde.

Nessuno è mai stato chiamato a rispondere per i difetti e l’arroganza del progetto euro, o per la stretta monetaria e fiscale che ha trasformato una recessione in una depressione, portando a dei livelli di disoccupazione giovanile in ampie zone d’Europa che nessuno mai avrebbe considerato possibili o tollerabili in una società civile moderna. La responsabilità è stata data esclusivamente alle vittime.

Non c’è mai stata una commissione per la verità e la riconciliazione per il più grande crimine economico dell’era moderna. Non sappiamo esattamente chi siano i responsabili, perché il potere veniva esercitato attraverso una confusa influenza di élite a Berlino, Francoforte, Bruxelles, e Parigi, e le cose stanno ancora così. Tutto può essere negato. Tutto passa inosservato tra le crepe della vigilanza e del controllo.

Chi detiene il potere non ha nemmeno imparato la lezione del fallimento dell’unione economica e monetaria. Il peso degli aggiustamenti continua a dover essere sostenuto dai paesi del Sud, senza che sia bilanciato dall’espansione dei paesi del Nord. Questa formula conduce alla deflazione e alla isteresi. Percorrendo quella strada ci aspetta un altro decennio perduto.

Qualcuno ha davvero mai rivelato come i leader eletti di Grecia e Italia siano stati costretti a lasciare il governo per essere rimpiazzati da tecnocrati mandati dalla UE? Forse non è avvenuto attraverso colpi di Stato in senso stretto da un punto di vita legale, ma senz’altro usando metodi furfanteschi. Con quale autorità nel 2011 la BCE ha mandato lettere segrete ai leader di Spagna e Italia ordinando loro modifiche dettagliate alle leggi sociali e sul lavoro, alla politica fiscale, e puntando loro una pistola alla tempia tramite gli acquisti dei titoli di Stato?

Quello che colpisce di questi episodi non è tanto che al culmine della crisi i funzionari della UE abbiano preso decisioni tanto drastiche, ma che siano state lasciate passare con tanta facilità. Gli organi di stampa proni alla UE hanno preferito guardare da un’altra parte. Il Parlamento Europeo ha serrato i ranghi, riflesso condizionato di una nomenklatura.

Si potrà anche dire che noi non c’entriamo niente con l’euro, ma questo spiega com’è fatta davvero la UE: come esercita il potere e a quali misure estreme può arrivare.

In modo pragmatico si potrebbe anche dire che l’unione monetaria è talmente difettosa che barcollerà da una crisi all’altra fino a quando cadrà in pezzi, al prossimo declino globale o a quello successivo, e che questo obbligherà le élite europee ad abbandonare i loro piani grandiosi, quindi perché non stare ad attendere gli eventi? Ma questo significa contare su delle congetture.

Ugualmente si può dire che il livello più alto dell’integrazione europea è già passato: il progetto vive un declino irreversibile. Siamo molto lontani dal trionfalismo di inizio millennio,quando la UE stava replicando le strutture del governo federale degli USA, con un gruppo di intelligence e uno staff militare a Bruxelles guidato da nove generali, e dei piani per costituire un esercito europeo di 100.000 soldati, 400 aerei da guerra, e 100 navi in un progetto da potenza globale.

Si può anche dire che dal 2004 l’adesione di tredici nuovi paesi – molti dei quali provenienti dall’Europa dell’Est – ha cambiato la chimica della UE oltremodo, rendendo sempre meno plausibile pensare a una unione politica centralizzata e compatta. Tuttavia un arretramento non è assolutamente la posizione dichiarata dal Rapporto dei Cinque Presidenti, il principale piano di indirizzo del progetto europeo. Tutt’altro.

In ogni caso, anche se non andiamo avanti, non possiamo nemmeno tornare indietro. Per la sua stessa progettazione, è quasi impossibile abrogare le 170.000 pagine dell’acquis comunitario. Jean Monnet ha costruito la UE in modo tale che ogni centimetro guadagnato non possa più essere ceduto, come se si trattasse del campo di battaglia di Verdun.

Siamo intrappolati in un “cattivo equilibrio” che ci lascia in continuo attrito con Bruxelles. È un po’ come se camminassimo sempre con un sassolino nella scarpa.

Ma se decidiamo di uscire, non dobbiamo illuderci. Personalmente, penso che l’economia del Brexit sarà neutrale, e magari potrà darci un vantaggio in vent’anni se verrà condotta con saggezza. Ma questa è soltanto un’ipotesi antropologica, proprio come le ipotesi del Ministero del Tesoro basate sulle sue variabili scelte ad hoc.

Siamo costretti a fare la nostra scelta in una fase pericolosa, quando il nostro deficit di partite correnti ha raggiunto il 7% del PIL, il peggiore in tempi di pace da quando sono cominciate le registrazioni nel 1772, sotto re Giorgio III.

Abbiamo bisogno di continui flussi di capitali esteri per andare avanti, e siamo quindi vulnerabili alle crisi della sterlina, se gli investitori dovessero perdere fiducia.

Sono disposto a correre il rischio calcolato che le fluttuazioni della nostra valuta potrebbero assorbire gli shock, come è successo con la svalutazione nel 1931, nel 1992, e nel 2008, ma potrebbe essere un percorso turbolento. Come ha avvertito questa settimana Standard & Poor’s, i debiti degli agenti britannici in scadenza nei prossimi dodici mesi arrivano al 755% delle entrate dall’estero, al 131esimo posto nella classifica degli stati sovrani. Conta qualcosa? Potremmo scoprirlo.

La campagna per l’uscita dalla UE non ha offerto dei piani convincenti per i nostri rapporti commerciali futuri o la possibilità di sopravvivenza della City. Hanno escluso di ripiegare sullo Spazio Economico Europeo (SEE), quel modello “norvegese” che preserverebbe – se garantito – l’accesso all’Unione doganale europea e i diritti “di passaporto” della City.

Il SEE sarebbe un rifugio temporaneo nel mentre che sistemiamo i nostri legami commerciali, il primo passo di una uscita graduale. Chi sostiene l’uscita non ha sposato l’idea di questa uscita di sicurezza – o almeno meno pericolosa – perché significherebbe abbandonare tutto il resto in cui si sono impegnati in modo così promiscuo, soprattutto il controllo immediato dei flussi di migranti dalla UE.

Con questa furberia, hanno agitato le acque, confondendo questioni istituzionali con le politiche di immigrazione. Rischiamo una crisi parlamentare e accuse di tradimento se la Camera dei Comuni – riconoscendo la volontà popolare – imporrà l’opzione del SEE ad un governo post-Brexit, come potrebbe essere costretta a fare.

Abbiamo piantato in asso l’Irlanda, facendole correre il rischio di uno shock economico di cui non ha alcuna responsabilità. Quei sostenitori dell’uscita che chiacchierano allegramente di recesso dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (non UE), dovrebbero sapere che gli accordi di pace del Venerdì Santo si basano su quel documento, e se non capiscono quanto sia importante che il 12% dei cattolici dell’Ulster sostenga il Brexit, allora non stanno ascoltando il Sinn Fein.

Per quanto possa sembrare ingiusto, l’intero mondo occidentale condanna il Brexit come un atto di vandalismo strategico, in un periodo in cui la Pax Americana sta scricchiolando, e le democrazie liberali sono sotto minaccia di civiltà.

Senza stare a ripetere rischi ormai ben noti, abbiamo un calderone Jihadista in gran parte del Levante e del Nord Africa; il russo Vladimir Putin ha fatto a pezzi il regolamento post-bellico, e nel Baltico sta mettendo alla prova la NATO ogni giorno; la costruzione di aeroporti cinesi lungo le rotte commerciali internazionali al largo delle Filippine sta portando a una resa dei conti tra superpotenze con gli Stati Uniti.

La campagna per l’uscita dalla UE è stata presa alla sprovvista quando Barack Obama è venuto a Londra per chiarire in maniera brutale la visione degli Stati Uniti, seguito dal giapponese Shinzo Abe, e da una pletora di leader di tutto il mondo. Non si districa tanto facilmente una ragnatela di legami internazionali tutti intrecciati tra di loro.

Si spera che ora gli attivisti pro-Brexit capiscano quello che devono affrontare, e quindi quello che devono fare per mantenere la credibilità britannica se dovessero vincere. Dobbiamo diventare alleati ancora migliori. Ma analogamente, il popolo di questa nazione ha tutto il diritto di cogliere quest’unica possibilità di emettere il proprio verdetto su 4 decenni di gestione della UE.

A quegli amici americani che si chiedono perché stiamo a cavillare sui compromessi con l’Europa quando “condividiamo la sovranità” – termine inappropriato – con una serie di diverse entità, dalla NATO all’ONU, la risposta è che la UE non è lontanamente paragonabile, quanto a dimensioni, ideologia, e scopi, con nient’altro di esistente sulla faccia della terra.

Chi vuole restare nella UE invoca Edmund Burke e la dottrina della “retta ragione”, ma “retto” è proprio quel che la UE non è stata nella sua brama irresistibile per i trattati e l’accentramento di potere, e Burke è una lama a doppio taglio.

Egli infatti sosteneva la Rivoluzione Americana, non per creare qualcosa di pericolosamente ardito e nuovo, ma piuttosto per ripristinare le libertà perdute e l’autogoverno, la “retta ragione” di un’era precedente. Soprattutto gli americani dovrebbero capire perché una nazione voglia affermare la propria indipendenza.
Questa è la mia decisione. Può andare contro i miei stessi interessi, perché spero di vivere in Francia parte degli anni che restano – anche se innumerevoli britannici hanno vissuto lì con soddisfazione nel 19esimo secolo, prima che avessimo una cosa come l’Unione europea, e di certo continueranno a farlo anche in futuro, dopo che non ci sarà più.

Non spingo nessuno a seguire il mio esempio. Non si addice a nessuno sopra i 50 anni di invocare un esito con troppa veemenza. Che siano i giovani a decidere. Sono loro che dovranno vivere con le conseguenze.

Fonte: Voci dall’Estero

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