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martedì 7 aprile 2015

La trentennale guerra al lavoro: dal rampantismo craxiano al Jobs Act

di Maria Mantello


Mentre i dati Istat di marzo 2015 ci dicono che la disoccupazione è al 12,7%, e quella giovanile al 46,2%, Renzi promette tali e tante mirabilie occupazionali, da far impallidire sotto il cerone anche l’illusionista Berlusconi col suo milione di posti di lavoro. Ne restarono imbambolati tanti italiani. Renzi è andato oltre: in virtuosismo mediatico ha superato il maestro. Eclissata finanche la parvenza d’argomentazione, tutto è spot-twitter. Leggi comprese. Le spara tra slide e frasi ad effetto. Così il ribellismo è accontentato e tutti credono al nuovo miracolo. E poi carta bianca al governo con i decreti attuativi.


Fashion Jobs Act

Renzi promette diritti e contratti a tempo indeterminato, ovvero la fine della precarietà. Ecco il nuovo miracolo promesso col Jobs Act. L’inglese fa trendy. Così perfino il termine jobs dal significato vago può diventare fashion. Fashion Jobs Act, lo si potrebbe chiamare, visto l’effetto illusionista da fascinazione ipnoide a cui mira.

Basterebbe forse qualche pizzicotto di realismo per svegliarsi e capire come stanno le cose.

Già perché il trucco c’è e si vede se non ci si strappano gli occhi per non vedere.



E si chiama licenziabilità. A che vale infatti un contratto a tempo indeterminato, se anche in flagranza di illegittimo licenziamento il datore (donatore?) di lavoro senza dover render conto di giusta causa o giustificato motivo ti può licenziare come e quando vuole?

E non ci si faccia ingannare dalle sbandierate “tutele crescenti”, se il licenziamento può avvenire in ogni momento! Basta una manciata di euro (da 2 a 24 mensilità)... E fuori. E anche per i lavoratori di più antica assunzione c’è poco da star sereni!

Dopo il requiem celebrato allo Statuto dei lavoratori, di crescente c’è solo il potere di ricatto del padronato su lavoratori usa e getta, per i quali lo spauracchio della miseria è sempre dietro l’angolo. Vale per i licenziamenti singoli e per quelli collettivi! Avanti tutta verso il lavoro schiavo?

Viene meno il Patto sociale costituzionale

Non solo sono messe in crisi le più elementari regole del Diritto del lavoro, ma si sta intaccando lo stesso Contratto sociale, la nostra Costituzione, che individua proprio nella Repubblica fondata sul lavoro il patto di cittadinanza democratica, perché ognuno sia libero dallo sfruttamento. Lavoro per diritto e non per favore. Lavoro che è promozione individuale e sociale. Il contrario quindi dell’asservimento ad un capitalismo sempre più arrogante.

Un capitalismo che sembra ben muoversi tra reti di connivenze e corruzione e che sembra sognare la ricomparsa dei servi della gleba.

E chi dovrebbe denunciare come stanno le cose? Un partito che ad ogni cambio di nome ha reciso le sue radici di libertà giustizia uguaglianza pur di continuare a galleggiare in Transatlantico?

Oppure gli italiani isolati senza potere contrattuale e in leggi capestro che progressivamente sono state la rivincita dei poteri forti sulla emancipazione progressista dell’Italia degli anni Settanta?

Il mito del “rampante” nell’era Craxi

Negli anni Ottanta il craxismo dava la stura al riflusso politico-economico-sociale.

Tre parole d’ordine: “riflusso”, “disimpegno”, “rampantismo” per archiviare il processo di emancipazione individuale e sociale del decennio precedente, con tanto di benedizione ecclesiastica grazie alla stipula del nuovo Concordato (1984).

Le reti berlusconiane a cui Craxi assicurava la scalata, smerciavano la favola della ricchezza a portata di mano grazie alla flessibilità del lavoro: ne lasci uno, ne prendi un altro, padrone di scegliere! Bisognava “liberarsi da lacci e lacciuoli” del posto fisso e in parallelo da tasse e imposte.

In questo delirio collettivo di balle demenziali erano allevate le nuove generazioni che scambiavano soap-opera per realtà, mentre le reti di corruzioni e corruttele pullulavano.

Il pacchetto Treu

Nel 1995 Tiziano Treu, ministro del lavoro del governo Dini, presentava il suo “pacchetto” che diventava legge il 24 giugno 1997. Al governo c’è Prodi e Treu è sempre il ministro del lavoro.

La favola della flessibilità è spacciata ancora come incremento dell’occupazione (quando mai?). Ed è il trionfo dei contratti interinali che la legge 1369/1960 vietava per le attività continuative e stabili. Una pacchia per le imprese e per le agenzie che i lavoratori collocano (smerciano?).

La legge Biagi, un’autostrada per il precariato strutturale
Mentre di demonizzazione in demonizzazione mediatica finanche la parola sinistra diviene tabù, dopo tre anni di gestazione parlamentare (2001-2003) il vampirismo mercatista otteneva la sua grande rivincita con la cosìddetta “legge Biagi” dall’ideatore ed estensore effettivo, il prof. Marco Biagi. Stilata e varata in meravigliosa combutta di alleanze trasversali diviene la Legge 30 del 14 febbraio 2003, entrata in vigore col D.Lgs.vo, 276/2003.

Con i contratti a progetto (co.co.pro.) il tempo indeterminato è ormai un miraggio, ma la favola del lavoro flessibile (interinale) continua, e il sacrificio delle tutele dei lavoratori al mercato anche.

È cronaca recente la precarizzazione crescente e ininterrotta del lavoro, che già ben oleata negli ingranaggi, si implementa da Berlusconi a Monti (ben 49 tipologie di contratti “atipici”) favorendo solo le imprese che anche con i contratti di formazione e di stage lucrano su lavoratori e riduzione dei costi del lavoro.

Lo scalpo dello Statuto dei diritti dei lavoratori

Intanto la guerra trentennale del padronato vuole ormai la resa ed ecco servito dal governo Renzi lo scalpo dello Statuto dei lavoratori. Non ci era riuscito Berlusconi, ma poi con Monti ne inizia la decapitazione e il suo delitto è portato a termine con Renzi.

Ma adesso c’è il Jobs Act: lavoro sicuro in libero licenziamento. Il non senso avanza.

Ma come ha detto Landini dal palco di piazza del popolo il 27 marzo: “siamo stanchi delle balle”!

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