Dopo 8 anni di crisi feroce il Fondo Monetario Internazionale si rimangia le parole sulla mitologica liberalizzazione del mercato del lavoro. A leggere l'ultimo World Economic Outlook dell'istituzione con sede a Washington "il livello di regolamentazione del mercato del lavoro non ha evidenziato correlazioni statisticamente significative con la produttività complessiva". In poche parole non si può sostenere ad un livello scientifico che per aumentare la competitività dell'economia sia necessario tagliare i diritti dei lavoratori, rendendo più facili i licenziamenti alle imprese e più vantaggiose le assunzioni.
In un moto di onestà intellettuale il Fmi riconosce addirittura che le determinanti della crescita economica e della produttività stanno altrove:spesa per investimenti, ricerca e sviluppo, competenze dei lavoratori, concorrenza nel mercato dei beni.
Peccato che lo stesso Fmi, insieme alla Commissione europea e alla Bce, abbia vincolato in questi anni l'erogazione di prestiti finanziari a rigide misure di austerità, inclusa la stessa liberalizzazione del mercato del lavoro. Dopo che la Grecia ha perso circa il 25% del reddito nazionale e l'eurozona è diventata il buco nero della crescita mondiale, ci viene detto candidamente che l'unica via per uscire da una recessione di portata storica è mantenere elevata la qualità del lavoro, stimolando le competenze dei lavoratori e curando l'innovazione tecnologica attraverso la ricerca e gli investimenti.
Va da sé che più aumenta la flessibilità, più i salari medi tenderanno ad un livellamento verso il basso, perché aumenterà il potere contrattuale dell'imprenditore ai danni dell'aspirante lavoratore. È ovvio quindi che liberalizzare selvaggiamente il mercato del lavoro, proseguendo sulla via indicata dal Jobs Act, non può che favorire un calo degli incentivi a studiare, formarsi e specializzarsi, perché il basso livello dei salari renderà poco conveniente un percorso di studi completo. Senza dimenticare che un mercato del lavoro a costi ridotti spinge le imprese a privilegiare l'intensità di lavoro (molti lavoratori poco specializzati e sottopagati) rispetto alla produttività (lavoratori qualificati e investimenti in macchinari all'avanguardia). Se mai esistesse una correlazione tra flessibilità del lavoro e produttività, di certo sarebbe inversa: all'aumentare della prima diminuisce la seconda.
L'Italia, come altri Paesi incantati dal mantra del libero mercato senza regole, si avvia così a diventare un bacino di manodopera non qualificata e a basso costo, dove è possibile fare shopping di imprese a prezzo di saldo ed esportare poi i lauti profitti fuori dai nostri confini. Da quinta potenza economica del mondo alle porte degli anni Novanta (con lo Statuto dei lavoratori intatto) a Paese in via di sviluppo sotto la stella dell'ebetino, che del Fmi ascolta solo le voci a lui favorevoli.
È urgente un'inversione di rotta completa: il mondo del lavoro deve diventare il centro di una politica economica che garantisca una domanda interna solida, alti salari reali, profitti costanti e investimenti privati elevati, come da Costituzione. Perché la svolta diventi realtà è obbligatorio ripudiare i dogmi neoliberisti, riconoscere il ruolo propulsore degli investimenti pubblici, soprattutto durante una crisi economica, e cancellare con un colpo di spugna l'umiliante legislazione sul lavoro degli ultimi quindici anni, a partire dal "pacchetto Treu" del 1997 fino ad arrivare ai giorni bui del "contratto a tutele crescenti", presa in giro linguistica e tragedia sociale.
Il grafico sotto mostra la dinamica dell'indice di protezione del lavoro in Italia (Employment Protection Legislation Index, EPL). L'Italia, a partire dal 1997, ha abbattuto la protezione del lavoro più di tutti in Europa, molto più della Francia e più anche della Germania. I risultati per quanto riguarda occupazione, produttività e diseguaglianze sono sotto gli occhi di tutti.
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