di Roberto Pisano
Con grande sorpresa, mentre svolgevamo il nostro turno al presidio VIBAC durante la notte del 25, si è avvicinato a noi un ragazzo portando del caffè per tutti. Non lo conoscevamo, da subito lo abbiamo visto ascoltare le nostre discussioni e partecipare, andando avanti così fino al mattino. Oggi, navigando su internet abbiamo scoperto questo suo scritto che oltre a riempirci di gioia ci ha dato ancor più forza per andare avanti ( Vincenzo Cirigliano )
Presidio di uomini, ragazzi, padri di famiglia che stanno lottando per difendere non solo il proprio lavoro ma anche e soprattutto il sacrosanto diritto di assicurare a se stessi e ai propri cari un futuro degno di essere chiamato tale.
Con loro ho avuto l’onore e il piacere di trascorrere una notte, quella del 25 dicembre. Solo sei ore. Sei densissime ore, di quelle che lasciano il segno.
Ho chiuso la telefonata con la mia compagna, un po’ preoccupata per la mia cefalea a grappolo e un po’ dispiaciuta per non poter trascorrere con me la notte di Natale. Le dico che mi fermerò poco, ma sa già che non sarà così. In punta di piedi, con 10 caffè caldi e l’umile volontà di essere solidale, mi sono avvicinato con emozione a quel cerchio di sedie e persone che vedevo dai vetri appannati della mia auto. Illuminati dalla luce del fuoco, volti di uomini e ragazzi che conoscevo, tramutolesi come me ma che non ho immediatamente identificato, bardati com'erano dai copricapi e dai giubbotti tirati fino al collo nel tentativo di vincere il freddo. E poi volti nuovi, di persone mai viste, ma che immediatamente ho “sentito”. Ho stretto le loro mani, è comunque Natale. Con loro ho parlato, ho soprattutto ascoltato, osservato, appreso. Ho riso di gusto ascoltando aneddoti e ricordi che si alternavano in quella tacita lotta al freddo, al sonno e forse anche alla paura. Parlavano dei figli, magari all'università o ancora piccoli all'asilo. Ricordavano fatti impolverati risalenti al periodo del servizio di leva. O quelli più recenti vissuti sulle linee di quella fabbrica che dopo aver contribuito a rendere “grande” ora ha voltato loro le spalle, trincerandosi dietro parole come “antieconomico” o “delocalizzazione”. Con loro ho diviso un buonissimo piatto di spaghetti, sorseggiato un bicchiere di vino. Ma ho anche e soprattutto masticato amaro, sofferto di fronte allo scenario che veniva disegnato quando si parlava delle trattative e dei suoi possibili sviluppi, ho provato rabbia di fronte all'invito che i “padroni” hanno rivolto agli operai per rispondere alla situazione che si va delineando.
Sei dense ore, vissute insieme a degli eroi. Eroi che con coraggio e dignità hanno deciso di non aspettare al caldo delle loro case. Eroi che hanno deciso di opporsi a chi vigliaccamente ha approfittato del periodo natalizio per mettere in atto il proprio misero piano di fuga e/o accattonaggio. Eroi che hanno deciso di lottare, di resistere. Organizzandosi. Sostenendosi. Autofinanziandosi. Proponendo delle soluzioni. Eroi. Eroi lucani.
Trascorrere con loro queste sei ore della notte è stato un onore. Un onore che vorrei provassero in molti.
Un onore pesante quanto le domande che hanno poi trovato forma nella luce di quel fuoco caldo e fiero intorno al quale il tempo correva. Perché di fronte a tutto questo non puoi non porti delle domande. Perché di fronte a tutto questo, porsi delle domande è forse l’unico modo che hai a disposizione per mettere il freno a quella rabbia che reclama prepotentemente spazio.
Il presidio permanente della Vibac non è solo la testimonianza di una terra che lotta in un silenzio spesso colpevole; non è solo un inno alla dignità e al coraggio; non è solo la riprova della violenza di un “sistema” che nel tentativo di salvarsi si dimena come un animale morente; il presidio permanente della Vibac è anche l’ennesimo paradosso di una terra bella, ricca e sempre più brutalizzata (per non dire stuprata) dalla prepotenza e dalla inettitudine di amministratori fantocci, dalla sfrontatezza di colonizzatori che senza vergogna alcuna calpestano e mortificano un territorio meraviglioso come il nostro; il presidio permanente della Vibac è forse l’ultima speranza che questa Valle ha per iniziare a disegnare e definire il proprio destino, da protagonista e non da spettatrice e/o comparsa.
Chiusura del punto nascite e apertura di un reparto di medicina ambientale (!!!!). Disoccupazione a livelli disarmanti e assunzione di manodopera da fuori regione. Aumento delle morti per cause tumorali e assenza di un monitoraggio ambientale serio e puntuale. Paesi sempre più deserti. Attività commerciali che arrancano. Assenza di un piano di sviluppo indipendente dal petrolio. Questa è la Val d’Agri oggi. Un treno impazzito che corre verso il baratro, i cui passeggeri guardano scorrere dal finestrino le stazioni in cui non possono scendere. Passeggeri, schiavi, prigionieri di quella storia tipicamente lucana fatta di favori e asservimenti.
E mi domando quale potente anestetico è stato sperimentato su questa Valle e i suoi abitanti? Quanti oltraggi dovrà ancora subire questa terra prima di svegliarsi e rendersi conto che è tardi. Quanti ancora? Quanta merda dovremo ancora ingoiare prima di capire che non è Nutella? Quanta ancora? Quante schiene dovranno ancora piegarsi o spezzarsi? Quante irriverenti pedate nel culo dovremo ancora ricevere? Quante offese?
E penso che forse è arrivato il momento di scegliere. Scegliere chi essere, cosa essere e come essere ricordati.
Chi siamo? Siamo l’impeccabile foto di questo tempo buio? Il tempo delle incertezze che diventano norma, il tempo dei selfie e degli annunci a 160 caratteri. Il tempo delle apparenze. Il tempo delle piazze virtuali e delle rivoluzioni da salotto. Il tempo dei “mi piace”. Dei tanti Capezzone, capaci di parlare di calcio e macroeconomia con la stessa vuota passione.
Se non siamo questo, se non siamo solo questo, allora siamo la POSSIBILITÀ. Se scegliamo di non essere solo questo, diventiamo l’alternativa, ovvero il manifesto di una terra che si riscatta, che riprende in mano la propria sorte. Diventiamo archetipi di un nuovo flusso. Scegliamo di caricarci la responsabilità del tempo che ci è capitato di vivere, determinandone il corso.
Basta incontri, seminari, convegni. Basta presentazioni di libri autoreferenziali. Basta professori intenti a sciorinare il proprio sapere. Basta deus ex machina. Basta rivoluzionari da salotto. Basta pagine Facebook. Basta post condivisi solo per pulire la coscienza e apparire impegnati. Basta lamentele sterili. Basta anche a manifestazioni di presenza. Basta.
Se scontro deve essere, che scontro sia. In nome di obiettivi chiari, irremovibili, granitici, condivisi, realistici. Obiettivi che siano i punti di una retta, di una direzione: quella che si vuole dare a questa terra.
Se scontro deve essere, che scontro sia. Che coinvolga tutti, tutte le istanze. Che convergano in una piattaforma comune dalla quale non retrocedere di un passo, ad ogni costo. Salute, lavoro, ambiente non sono e non devono essere piccoli rivoli d’acqua nei quali far sguazzare il proprio ego di élite impegnata. Così non arriveranno mai al mare, si prosciugheranno prima; troppa la gente che cerca di dissetarsi da questi rivoli; troppi i “politicuncoli” bruciati che cercano ristoro e nuova vita in queste acque, cavalcando questioni verso cui non hanno mai manifestato interesse. Per arrivare al mare, questi rivoli devono unirsi, completarsi e diventare un unico fiume, capace di travolgere e annullare innanzitutto le nostre specificità in nome di quei bisogni che forse oggi non sono nostri, ma che domani potrebbero esserlo.
Per questo, solidarietà incondizionata al presidio permanente della Vibac, spazio di lotta che può rappresentare il punto di partenza di un nuovo e più articolato processo di riscatto per un intero territorio
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