di Giorgio Cremaschi
Questo avviene non solo per la devastazione che colpisce ed indebolisce tutto il mondo del lavoro, ma anche per la mutazione avvenuta negli interlocutori e controparti tradizionali dei sindacati. Il PD oggi è diventato il partito di sistema, un sistema che vede grandi imprese e banche oramai completamente collocate nella gerarchia del capitalismo finanziario multinazionale, mentre il potere costituente della Troika definisce i vincoli delle decisioni politiche e economiche.
Quando afferma di voler cambiare politiche che durano da trenta anni, Renzi dice una verità all’interno di una più grande menzogna. È vero che le politiche economiche e sociali dagli anni 80 ad oggi son sempre state ispirate e guidate dai principi e dai poteri del capitalismo liberista. È falso che Renzi rappresenti un cambiamento di indirizzo rispetto ad esse. Anzi il presidente del consiglio sostiene una radicalizzazione di quelle politiche, di cui il Jobs Act è il simbolo. Renzi riprende ed accentua verso destra tutto il programma del craxismo di trenta anni fa. È una radicalizzazione di quel programma così come Mafia Capitale è l’estensione e degenerazione di Tangentopoli.
La vera differenza rispetto al passato sta in un solo decisivo elemento. Che dietro Renzi, e dietro Giorgio Napolitano che di questa politica liberista è il tutore, stanno la Troika e il sistema di potere europeo a guida tedesca. La politica liberista inaugurata negli anni 80 si coniuga così con l’esigenza di obbedire agli obblighi imposti dalle politiche di austerità. E la differenza tra Grecia e Italia è che qui, come aveva chiesto un anno fa la Banca Morgan, si è deciso di far precedere le riforme economiche da quelle politiche, cioè dalla cancellazione dei principali vincoli economico sociali previsti dalla nostra Costituzione. Renzi è tecnicamente un eversore della nostra democrazia costituzionale fondata sui diritti sociali, e lo è nel nome dell’adeguamento del paese ai vincoli dell’austerità e della globalizzazione. Vincoli che diventano sempre più stringenti man mano che la crisi si aggrava, per cui è anche facile prevedere che i decreti attuativi del Job Act saranno preventivamente sottoposti all’imprimatur di Juncker.
Di fronte a tutto questo lo sciopero della Cgil appare tanto giusto quanto inadeguato e in ritardo.
E questo non solo per le difficoltà a scontrarsi col Pd che emergono in ogni momento: da ultimi i balbetti di Susanna Camusso ed il silenzio di Maurizio Landini di fronte allo scandaloso sì al Jobs Act di tutti gli ex dirigenti, tuttora nelle liste degli iscritti, della Cgil. Non solo per la debolezza di un modello sindacale che ignora il benservito della Confindustria alla concertazione. Non solo per il ritardo rispetto ai tempi di approvazione della legge attuale o per la recente passività verso la riforma Fornero delle pensioni, o verso la prima lesione all’articolo 18 operata da Monti.
Il ritardo vero dello sciopero sta nella incapacità del gruppo dirigente della Cgil di rompere con tutte le politiche di questi decenni. Sta nella incapacità o non volontà di comunicare al mondo del lavoro sfruttato, precario, disoccupato che si cambia strada non solo nei grandi appuntamenti, ma nelle pratiche quotidiane e che ci si mette davvero in discussione. Il ritardo sta nel fatto di non volere o poter capire che Matteo Renzi non è un compagno che sbaglia, ma il primo avversario di oggi.
È questo muoversi con il freno permanente della paura di scegliere e percorrere vie nuove che non va. Sono trenta anni che in Italia il lavoro perde diritti e salario, anche grazie a grandi accordi sindacali. O si capisce che è giunto per il sindacato, per la Cgil, il momento di cambiare strada, oppure lo sciopero generale sarà una parentesi di lotta e speranza tra due rese.
Giorgio Cremaschi
Nessun commento:
Posta un commento