Protagonista assoluto del dibattito pubblico degli ultimi mesi, il disegno di legge delega contenente, tra le tante disposizioni, anche la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è da pochi giorni uscito dalla Camera in una nuova e – sembrerebbe – ultima versione, in attesa della definitiva approvazione da parte del Senato e della successiva emanazione dei decreti delegati da parte del Governo.
Vediamo più da vicino il testo della disposizione che ci interessa, ovverosia l’art. 1 comma 7 lettera c) inserito nel DDL 2660-A: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”.
Una prima osservazione è d’obbligo: rispetto al testo precedentemente approvato dal Senato, la disposizione in esame è molto più specifica; risultato, questo, delle numerose critiche mosse da tutti i commentatori, che avevano evidenziato il pericolo di eccezioni di illegittimità costituzionale per eccesso di delega, che certamente non sarebbero state scongiurate dalla semplice previsione di “tutele crescenti” per i nuovi contratti a tempo indeterminato.
Ecco dunque chiarita la direzione in cui il Governo potrà andare nel suo processo di progressivo smantellamento dell’art. 18:
- eliminazione totale della reintegra nei casi di licenziamento per motivi economici (cd giustificato motivo oggettivo);
- eliminazione della reintegra anche nei casi di licenziamento disciplinare, ad eccezione di specifiche, concrete e ben delimitate fattispecie, tali da eliminare la discrezionalità del Giudice;
- mantenimento della reintegra nei soli casi di licenziamenti nulli (es. licenziamento verbale, licenziamento in stato di malattia, licenziamento in maternità), discriminatori e, come detto, in specifiche e delimitate fattispecie relative a motivi disciplinari;
- previsione di termini certi per l’impugnazione del licenziamento;
Sarà il caso di iniziare dall’ultimo punto, inserito ex novo proprio in questo passaggio parlamentare: cosa si intende per previsione di “termini certi per l’impugnazione del licenziamento” ? L’interrogativo è d’obbligo, visto che la legge prevede già dei termini certi per l’impugnazione del licenziamento: l’art. 6 della legge 604/1966, infatti, stabilisce un preciso e puntuale “doppio termine” di impugnazione, rappresentato dall’impugnativa stragiudiziale entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento (comma 1) nonché dal deposito del ricorso presso il tribunale o dalla promozione del tentativo di conciliazione presso la DTL entro 180 giorni (originariamente 270 giorni) dalla data dell’invio dell’impugnativa stragiudiziale.
Dunque, è più che legittimo il sospetto che la norma in questione voglia ridefinire i doppi termini di impugnazione del licenziamento, probabilmente riducendoli ulteriormente: se così fosse, si tratterebbe dell’ennesima disposizione a danno dei lavoratori, ormai tutelati da poche norme di garanzia sottoposte a brevi e stringenti termini. Se si volesse, invece, dare effettivo significato alla norma in questione, si dovrebbe agire laddove la pratica ha mostrato un’evidente lacuna della tutela di legge: la modalità di consegna del licenziamento scritto, che dovrebbe essere prevista sempre a mezzo di raccomandata a/r o di posta elettronica certificata e mai consegnata a mani, salvo espresso consenso scritto del lavoratore. Tale innovazione consentirebbe di dare certezza al decorso del termine previsto per l’impugnativa del licenziamento (nonché al decorso del correlativo termine per la richiesta dell’indennità di disoccupazione), evitando in questo modo lunghi e incerti contenziosi relativi alla prova dell’effettiva consegna del licenziamento scritto, frequenti nella pratica dei Tribunali.
Veniamo, invece, al contenuto più caldo della norma, vale a dire l’abolizione della reintegra per la maggior parte delle fattispecie previste.
Una premessa è d’obbligo: ciò che rimane dell’art. 18, oggi, sono solo le vestigia. Già la riforma Fornero (legge 92/2012), aveva notevolmente inciso sul cd “diritto alla reintegra”, eliminandola quasi totalmente nei licenziamenti cd economici (limitandola quale rimedio “facoltativo” solo ai piu’ gravi casi di “manifesta insussistenza”), riducendola nei licenziamenti disciplinari ai soli casi di “insussistenza del fatto” e sostituendola con un sistema risarcitorio compreso tra le 12 e le 24 mensilità (tra le 6 e le 12 mensilità per i casi di meri vizi formali). Un ulteriore colpo, inoltre, è stato inferto dal cd “decreto Poletti” (d.l. 34/2014 conv. L. 78/2014) che, nell’introdurre nell’ordinamento italiano la totale libertà di assunzione a termine, ha reso di fatto il contratto a tempo determinato la forma di organizzazione del lavoro più appetibile per l’imprenditore: il lavoratore, infatti, potrà essere estromesso dall’azienda alla semplice scadenza del termine, senza la necessità di intraprendere l’articolato iter del licenziamento.
Davvero sterile, pertanto, appare la discussione sull’art. 18 in corso ormai da mesi.
Di fatto, dunque, le nuove modifiche andranno ad incidere su un nucleo già scarno di tutele, eliminando la reintegra “facoltativa” nei licenziamenti economici e riducendo ulteriormente il novero delle fattispecie disciplinari meritevoli di reintegra: anche in questo caso, il sospetto è che si voglia intervenire, probabilmente su richiesta delle lobbies imprenditoriali, soprattutto sull’entità del risarcimento economico previsto dalla Legge Fornero (ritenuto da molte parti elevato), riducendo la “forbice” originariamente prevista tra le 12 e le 24 mensilità di indennizzo.
Il punto decisivo è tuttavia un altro.
Il principio qualificante del nuovo progetto di riforma, contenuto nell’incipit dell’articolo in questione, sarebbe l’introduzione del cosiddetto “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. Un principio riformatore ripetuto tali e tante volte da diventare un vero e proprio mito governativo: il mito delle “tutele crescenti”.
Secondo tale tesi, le tutele dei lavoratori dovrebbero essere ancorate all’anzianità del rapporto lavorativo: quanto più risalente è il rapporto di lavoro, tanto più incisive dovrebbero essere le tutele a favore del prestatore di lavoro.
Tuttavia, questo principio – per essere davvero efficace – presuppone un sistema economico-produttivo ancorato su modelli ormai relegati nella cassapanca della storia: il posto fisso nella fabbrica di fordiana memoria, in cui l’anzianità lavorativa coincideva con l’anzianità anagrafica del lavoratore, che varcava i cancelli dell’azienda da ragazzo e ne usciva ormai pensionato, alla fine della “carriera”, al termine di un percorso unitario ed uniforme. In un quadro di tale tipo, in cui il posto lavorativo è stabile e, dunque, può raggiungere anzianità lavorative ragguardevoli, il principio della tutela crescente ha un suo concreto significato.
Non è più il caso dei nostri tempi.
In un sistema economico “reticolare”, in cui dalla carriera si passa al Job, da un percorso unitario e costante si passa ad una serie di innumerevoli segmenti di lavoro, in cui il processo produttivo è spezzettato in una pluralità di fasi esternalizzate a terzi soggetti che cambiano continuamente in forza della spietata concorrenza sui prezzi di produzione, in questo scenario contemporaneo, dunque, l’anzianità dei rapporti lavorativi crolla in modo impressionante.
L’esperienza insegna infatti che, soprattutto nel settore dei servizi, ogni lavoratore ha una ridotta anzianità di servizio, a causa della continua successione di appaltatori nell’esecuzione delle attività appaltate: si tratta, infatti, di servizi caratterizzati frequentemente dal fenomeno del cosiddetto “cambio appalto”, in cui una stessa persona, nell’arco di pochissimi anni, può cambiare più di due o tre datori di lavoro, continuando tuttavia a svolgere le stesse mansioni lavorative nello stesso luogo di lavoro (che è solitamente la sede del committente che ha esternalizzato il servizio).
Il concreto pericolo delle “tutele crescenti” applicate ad un siffatto mercato del lavoro, dunque, è la creazione di lavoratori risucchiati in una successione di brevi contratti di lavoro a tempo indeterminato – nel caso fortunato in cui non vi sia stata un’assunzione “a termine” – con un nucleo di tutele minimali: lavoratori “a resistenza zero”, per riprendere l’icastica immagine coniata da Zygmunt Bauman.
In un panorama del genere, dunque, ha ancora senso parlare di “tutele crescenti” legate all’anzianità di servizio, o si vuole con questa espressione celare una storica dismissione di massa delle tutele dei lavoratori?
Domenico Tambasco
Vediamo più da vicino il testo della disposizione che ci interessa, ovverosia l’art. 1 comma 7 lettera c) inserito nel DDL 2660-A: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”.
Una prima osservazione è d’obbligo: rispetto al testo precedentemente approvato dal Senato, la disposizione in esame è molto più specifica; risultato, questo, delle numerose critiche mosse da tutti i commentatori, che avevano evidenziato il pericolo di eccezioni di illegittimità costituzionale per eccesso di delega, che certamente non sarebbero state scongiurate dalla semplice previsione di “tutele crescenti” per i nuovi contratti a tempo indeterminato.
Ecco dunque chiarita la direzione in cui il Governo potrà andare nel suo processo di progressivo smantellamento dell’art. 18:
- eliminazione totale della reintegra nei casi di licenziamento per motivi economici (cd giustificato motivo oggettivo);
- eliminazione della reintegra anche nei casi di licenziamento disciplinare, ad eccezione di specifiche, concrete e ben delimitate fattispecie, tali da eliminare la discrezionalità del Giudice;
- mantenimento della reintegra nei soli casi di licenziamenti nulli (es. licenziamento verbale, licenziamento in stato di malattia, licenziamento in maternità), discriminatori e, come detto, in specifiche e delimitate fattispecie relative a motivi disciplinari;
- previsione di termini certi per l’impugnazione del licenziamento;
Sarà il caso di iniziare dall’ultimo punto, inserito ex novo proprio in questo passaggio parlamentare: cosa si intende per previsione di “termini certi per l’impugnazione del licenziamento” ? L’interrogativo è d’obbligo, visto che la legge prevede già dei termini certi per l’impugnazione del licenziamento: l’art. 6 della legge 604/1966, infatti, stabilisce un preciso e puntuale “doppio termine” di impugnazione, rappresentato dall’impugnativa stragiudiziale entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento (comma 1) nonché dal deposito del ricorso presso il tribunale o dalla promozione del tentativo di conciliazione presso la DTL entro 180 giorni (originariamente 270 giorni) dalla data dell’invio dell’impugnativa stragiudiziale.
Dunque, è più che legittimo il sospetto che la norma in questione voglia ridefinire i doppi termini di impugnazione del licenziamento, probabilmente riducendoli ulteriormente: se così fosse, si tratterebbe dell’ennesima disposizione a danno dei lavoratori, ormai tutelati da poche norme di garanzia sottoposte a brevi e stringenti termini. Se si volesse, invece, dare effettivo significato alla norma in questione, si dovrebbe agire laddove la pratica ha mostrato un’evidente lacuna della tutela di legge: la modalità di consegna del licenziamento scritto, che dovrebbe essere prevista sempre a mezzo di raccomandata a/r o di posta elettronica certificata e mai consegnata a mani, salvo espresso consenso scritto del lavoratore. Tale innovazione consentirebbe di dare certezza al decorso del termine previsto per l’impugnativa del licenziamento (nonché al decorso del correlativo termine per la richiesta dell’indennità di disoccupazione), evitando in questo modo lunghi e incerti contenziosi relativi alla prova dell’effettiva consegna del licenziamento scritto, frequenti nella pratica dei Tribunali.
Veniamo, invece, al contenuto più caldo della norma, vale a dire l’abolizione della reintegra per la maggior parte delle fattispecie previste.
Una premessa è d’obbligo: ciò che rimane dell’art. 18, oggi, sono solo le vestigia. Già la riforma Fornero (legge 92/2012), aveva notevolmente inciso sul cd “diritto alla reintegra”, eliminandola quasi totalmente nei licenziamenti cd economici (limitandola quale rimedio “facoltativo” solo ai piu’ gravi casi di “manifesta insussistenza”), riducendola nei licenziamenti disciplinari ai soli casi di “insussistenza del fatto” e sostituendola con un sistema risarcitorio compreso tra le 12 e le 24 mensilità (tra le 6 e le 12 mensilità per i casi di meri vizi formali). Un ulteriore colpo, inoltre, è stato inferto dal cd “decreto Poletti” (d.l. 34/2014 conv. L. 78/2014) che, nell’introdurre nell’ordinamento italiano la totale libertà di assunzione a termine, ha reso di fatto il contratto a tempo determinato la forma di organizzazione del lavoro più appetibile per l’imprenditore: il lavoratore, infatti, potrà essere estromesso dall’azienda alla semplice scadenza del termine, senza la necessità di intraprendere l’articolato iter del licenziamento.
Davvero sterile, pertanto, appare la discussione sull’art. 18 in corso ormai da mesi.
Di fatto, dunque, le nuove modifiche andranno ad incidere su un nucleo già scarno di tutele, eliminando la reintegra “facoltativa” nei licenziamenti economici e riducendo ulteriormente il novero delle fattispecie disciplinari meritevoli di reintegra: anche in questo caso, il sospetto è che si voglia intervenire, probabilmente su richiesta delle lobbies imprenditoriali, soprattutto sull’entità del risarcimento economico previsto dalla Legge Fornero (ritenuto da molte parti elevato), riducendo la “forbice” originariamente prevista tra le 12 e le 24 mensilità di indennizzo.
Il punto decisivo è tuttavia un altro.
Il principio qualificante del nuovo progetto di riforma, contenuto nell’incipit dell’articolo in questione, sarebbe l’introduzione del cosiddetto “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. Un principio riformatore ripetuto tali e tante volte da diventare un vero e proprio mito governativo: il mito delle “tutele crescenti”.
Secondo tale tesi, le tutele dei lavoratori dovrebbero essere ancorate all’anzianità del rapporto lavorativo: quanto più risalente è il rapporto di lavoro, tanto più incisive dovrebbero essere le tutele a favore del prestatore di lavoro.
Tuttavia, questo principio – per essere davvero efficace – presuppone un sistema economico-produttivo ancorato su modelli ormai relegati nella cassapanca della storia: il posto fisso nella fabbrica di fordiana memoria, in cui l’anzianità lavorativa coincideva con l’anzianità anagrafica del lavoratore, che varcava i cancelli dell’azienda da ragazzo e ne usciva ormai pensionato, alla fine della “carriera”, al termine di un percorso unitario ed uniforme. In un quadro di tale tipo, in cui il posto lavorativo è stabile e, dunque, può raggiungere anzianità lavorative ragguardevoli, il principio della tutela crescente ha un suo concreto significato.
Non è più il caso dei nostri tempi.
In un sistema economico “reticolare”, in cui dalla carriera si passa al Job, da un percorso unitario e costante si passa ad una serie di innumerevoli segmenti di lavoro, in cui il processo produttivo è spezzettato in una pluralità di fasi esternalizzate a terzi soggetti che cambiano continuamente in forza della spietata concorrenza sui prezzi di produzione, in questo scenario contemporaneo, dunque, l’anzianità dei rapporti lavorativi crolla in modo impressionante.
L’esperienza insegna infatti che, soprattutto nel settore dei servizi, ogni lavoratore ha una ridotta anzianità di servizio, a causa della continua successione di appaltatori nell’esecuzione delle attività appaltate: si tratta, infatti, di servizi caratterizzati frequentemente dal fenomeno del cosiddetto “cambio appalto”, in cui una stessa persona, nell’arco di pochissimi anni, può cambiare più di due o tre datori di lavoro, continuando tuttavia a svolgere le stesse mansioni lavorative nello stesso luogo di lavoro (che è solitamente la sede del committente che ha esternalizzato il servizio).
Il concreto pericolo delle “tutele crescenti” applicate ad un siffatto mercato del lavoro, dunque, è la creazione di lavoratori risucchiati in una successione di brevi contratti di lavoro a tempo indeterminato – nel caso fortunato in cui non vi sia stata un’assunzione “a termine” – con un nucleo di tutele minimali: lavoratori “a resistenza zero”, per riprendere l’icastica immagine coniata da Zygmunt Bauman.
In un panorama del genere, dunque, ha ancora senso parlare di “tutele crescenti” legate all’anzianità di servizio, o si vuole con questa espressione celare una storica dismissione di massa delle tutele dei lavoratori?
Domenico Tambasco
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