Da decenni negli altri paesi europei la disoccupazione è affrontata con misure di sostegno al reddito, alla casa e all’integrazione sociale. Più che di altre riforme, è di questi strumenti di welfare che il nostro paese, sempre più colpito dalla crisi, avrebbe urgente bisogno. Pubblichiamo la recensione di Chiara Saraceno al saggio "Contro la miseria. Viaggio nell'Europa del nuovo welfare" di Giovanni Perazzoli (Laterza) e a seguire un estratto dal libro.
di Chiara Saraceno
In quasi tutti i paesi dell'Unione Europea, ma anche in altri paesi sviluppati come il Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda, ed in diversi paesi dell'America Latina – Messico, Brasile, Uruguay, Bolivia – esiste una misura di garanzia del reddito. E' proprio ciò che viene richiesto da tempo anche in Italia, almeno dalla prima Commissione povertà presieduta da Gorrieri nel 1986, poi da quella presieduta da Carniti nel 1996, riproposta dalla Commissione Onofri nel 1997, ripresa più recentemente da diversi gruppi e associazioni ed anche oggetto di differenti proposte di legge da parte di alcuni partiti ed anche di una proposta elaborata da una Commissione presieduta dall'allora sottosegretaria Guerra presso il Ministero del Lavoro durante il breve governo Letta. Nonostante questa lunga storia, ogni proposta di reddito minimo non limitato a particolari categorie di “meritevoli” si è scontrata con una forte ostilità multipartisan, motivata in base a ragioni non solo finanziarie, ma anche, direi, di tipo morale: garantire un reddito minimo o adeguato a chi non ce l'ha costituirebbe una forma di incentivo ai pigri, agli irresponsabili.
Chi sostiene questo tipo di agomentazione spesso si fa forte delle riforme introdotte nei paesi che questa misura hanno da tempo, volte a rafforzare gli incentivi alla partecipazione al mercato del lavoro da parte dei beneficiari (making work pay) e viceversa a scoraggiarne la lunga permanenza in assistenza – riforme spesso duramente contestate non solo nei paesi in cui sono avvenute, ma anche da molti opinionisti di sinistra italiani, come ricorda Giovanni Perazzoli nel suo polemico pamphlet Contro la miseria, uscito di recente da Laterza. Come giustamente osserva Perazzoli nella sua ampia rassegna di quanto è successo e succede in Europa in questo campo, i critici italiani, sia da destra che da sinstra, sembrano, tuttavia, ignorare che in nessun paese le riforme delle misure di garanzia del reddito si sono spinte fino ad eliminarle o trasformarle in misure categoriali riservate a pochi meritevoli, anche se i criteri di accesso e soprattutto permanenza, in particolare il requisito della disponibilità ad accettare una occupazione, sono stati talvolta irrigiditi. L'unico paese che ha operato una radicale trasformazione sono gli USA, dove il governo Clinton introdusse un limite di tempo massimo di fruizione nell'arco della vita, a prescindere dal bisogno, per il sostegno al reddito finanziato con i fondi federali.
Nel caso inglese e tedesco ad essere irrigidite e avvicinate a quelle assistenziali sono state soprattutto le condizioni per ricevere l'indennità di disoccupazione. Le riforme non hanno neppure portato alla eliminazione delle forme di sostegno integrative del reddito di garanzia, dal sostegno per l'affitto e le utenze domestiche alle offerte formative – come Perazzoli documenta con casi concreti. In alcuni casi, proprio con l'obiettivo di far sì che lavorare convenga più che rimanere in assistenza, parte del sostegno economico e/o dei benefici integrativi vengono mantenuti e ridotti gradualmente fino al raggiungimento di una determinata soglia di reddito, più alta di quella che dà diritto a ricevere appunto, il reddito di garanzia. Un meccanismo simile vale anche per quelle forme di sostegno al reddito destinate specificamente ai lavoratori poveri che si configurano come imposte negative. Anche se può capitare, come segnalano alcuni casi citati da Perazzoli, che oltre quella soglia la perdita dei benefici integrativi diventa costosa e pone in dubbio l’assunto che lavorare e guadagnare di più convenga sempre, non tanto perché i benefici sono troppo generosi, ma perché il mercato è troppo oneroso. Infine, l’accentuazione degli obblighi lavorativi dei beneficiari di assistenza economica ha portato ad un rafforzamento, riqualificazione e in alcune situazioni anche integrazione dei servizi di assistenza sociale e di quelli per l’impiego. La responsabilità dell’”attivazione” non è solo dei beneficiari, ma anche dei servizi che li devono accompagnare.
Perché allora tanti politici ed anche opinion makers nostrani di orientamento diverso si ostinano a presentare il reddito di garanzia così diffuso altrove, vuoi come un fallimento, vuoi come una utopia impossibile? La risposta di Perazzoli è che questa narrazione deresponsabilizza dal trasformare il welfare italiano per renderlo più efficiente e più giusto, legittimando gli uni a proseguire nella strada dei tagli e gli altri a fare della difesa dell’esistente (inclusi i diritti acquisiti) una battaglia nobile. L’ultimo esempio, aggiungo io, si è avuto con l’ennesima, bipartisan (e con il sostegno dei sindacati) bocciatura della proposta di introduzione di un reddito minimo per chi si trova in povertà – il Sostegno di Inclusione Attiva – nella legge finanziaria approvata dal Governo Letta. Dopo di che, il tema è di nuovo sparito dalla agenda.
Il testo di Perazzoli, pur con qualche valutazione eccessivamente generosa di ciò che succede negli altri paesi, porta una ventata fresca in un dibattito italiano che sembra sempre perdersi e affogare tra proposte velleitaristiche di un reddito di cittadinanza universale, a prescindere dal reddito (alle cui ragioni teoriche viene per altro dedicato l'ultimo capitolo) e viceversa rifiuti a priori di prendere in considerazione l'introduzione di una garanzia di reddito universale per chi si trova al di sotto di una soglia di reddito adeguata, tra critiche feroci al rigore altrui e la sovrana indifferenza per la mancanza, di equità e universalismo delle politiche nostrane. Auspicando un cambio di paradigma, Perazzoli ricorda come i paesi che hanno una piú antica e più generosa tradizione in questo campo, quelli scandinavi, la Germania e l'Olanda, siano anche quelli più competitivi a livello internazionale e con tassi di disoccupazione più bassi (anche se negli ultimi anni hanno visto aumentare le disuguaglianze), a disconferma dell’assunto che un welfare troppo generoso e universalistico è in contrasto con lo sviluppo e la competitività.
Proprio perché è un libro chiaro e utile, dispiacciono alcune confusioni di tipo non solo terminologico, che rischiano di ingarbugliare a loro volta il discorso sul reddito di garanzia. Il reddito di garanzia non è solo diverso dalla indennità di disoccupazione. È diverso anche dall'assegno di disoccupazione assistenziale, che per altro esisteva solo in Germania prima della riforma Harz (e si trova sia in alcune proposte di legge depositate in parlamento, sia nella bozza di riforma del lavoro dell'attuale governo). Anche se chi lo prende è spesso disoccupato, o gravemente sotto-occupato, il requisito d'accesso è il basso reddito famigliare, ovvero la povertà, a prescindere dallo status lavorativo.
A differenza di quanto sostiene Perazzoli, infatti, si tratta sempre di una garanzia di reddito per i poveri, non per i disoccupati in quanto tali. Il riferimento è al reddito e ai bisogni famigliari, commisurati all’ampiezza e composizione della famiglia (che può essere composta da una persona sola, ma anche da più). Ciascun paese pone la soglia della povertà più o meno in alto e quindi individua una platea piú o meno ampia (e perciò tendenzialmente meno o più stigmatizzabile). Proprio perché riguarda la condizione famigliare complessiva, quando ci sono minori in alcuni paesi gli obblighi degli adulti beneficiari non riguardano solo la disponibilità a lavorare o ad entrare in formazione, ma anche l'esercizio della genitorialità e il rispetto dei bisogni dei bambini. Simmetricamente, gli obblighi della collettività rispetto ai minori non riguardano solo la garanzia del mantenimento, ma anche delle pari opportunità rispetto a bambini più fortunati. Da questo punto di vista, è stato molto istruttivo il dibattito sollevato dalla Corte Costituzionale tedesca in merito ai criteri da adottare per definire l’ammontare della quota per i minori nel calcolo di quanto spetta ad una famiglia. Secondo la Corte il riferimento deve essere ad un paniere di consumi adeguati ad una crescita armoniosa, che quindi devono includere anche attività extracurriculari, sport, gite e così via.
Su un punto Perazzoli ha completamente ragione. Nell’Italia delle disoccupazione galoppante e della povertà famigliare, e in particolare minorile, in aumento, mentre si discute sulla base di fantasie ideologiche non verificate, continua a mancare sia una idennità di disoccupazione davvero universale per tutti coloro che perdono il lavoro, sia una garanzia di reddito, di nuovo universale e non riservata solo a determinati gruppi, o attuata solo in qualche comune, per coloro che hanno perso il diritto all’idennità, o non lo hanno mai acquisito, e sono poveri sia come individui che come membri di una famiglia. Di conseguenza, nel paese delle mille categorie frammentate c’è sempre qualcuno che rimane sprotetto, mentre qualcun altro può vantare diritti acquisiti. E c’è sempre qualche politico che pensa che non solo ai poveri sia meglio non dare nulla, ma anche l’indennità di disoccupazione debba essere trasformata in una qualche misura assistenziale, da “ripagare” con lavoro gratuito per la comunità, come sostiene, ad esempio, il Ministro Poletti. Si aggiunga che in Italia manca sia una politica della casa che sostenga il diritto ad avere un alloggio adeguato anche di chi non ha i mezzi per stare sul mercato dell’abitazione, né un sostegno al costo dei figli – se non universalistico, come è nella maggior parte dei paesi europei, almeno destinato a tutti coloro che appartengono a famiglie con risorse economiche modeste, a prescindere dalla loro collocazione sul mercato del lavoro. Anche per questo ci sono così tanti lavoratori, e le loro famiglie, poveri: perché un reddito da lavoro modesto, che potrebbe bastare per una persona sola, non sempre è sufficiente a far fronte ai bisogni di una famiglia.
L’Unione Europea ha di recente richiamato l’Italia per la sua inadempienza nell’istituire una garanzia di reddito per chi si trova in povertà. Questa, più che la riforma del senato, o della legge elettorale, è una delle riforme che la UE si aspetta da noi, ma di cui non si parla e tantomeno la si mette in agenda.
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Le due Europe
Per gentile concessione dell'editore proponiamo un estratto da "Contro la miseria. Viaggio nell'Europa del nuovo welfare" di Giovanni Perazzoli (Laterza).
di Giovanni Perazzoli
1. Utopia e alibi
Già nel 2000, dunque ben prima della crisi economica di questi anni, il 56% dei giovani adulti italiani viveva con i propri genitori, mentre in Francia erano solo il 20% e nei paesi del Nord Europa il 10% [1]. Esiste dunque un’antropologia specificamente italica di «bamboccioni»? Forse no; la realtà è che i giovani nordeuropei hanno certamente più opportunità di lavoro, ma sono anche tutelati, oltre che dalla famiglia, anche dal welfare, ovvero dal reddito minimo garantito. Più lavoro e vero welfare sono correlati. Il welfare ha una grossa parte nell’accrescere le opportunità di lavoro nonostante il margine di disoccupazione volontaria che produce.
Il quotidiano britannico «The Guardian» (19 settembre 2012) scopre con sorpresa che, come suona il titolo dell’articolo, Un terzo degli italiani adulti vive con i genitori. L’articolo riporta il «bamboccioni» imprudentemente riferito dal ministro Tommaso Padoa-Schioppa ai giovani adulti italiani. Dallo stupore del giornale britannico emerge però, involontariamente, l’altro paradigma. Dal punto di vista britannico c’è infatti solo una spiegazione al fenomeno dei «bamboccioni», e il sottotitolo lo dice chiaramente: i tagli al welfare (benefit cuts). Gli adulti, ovvero i giovani, tornerebbero a casa dai genitori perché, improvvisa «The Guardian», «non hanno altra scelta, data l’alta disoccupazione e i tagli al welfare per i disoccupati» [2].
Tagli al welfare per i disoccupati? Attenzione, cari amici inglesi, rileggete il filosofo David Hume. Che fine ha fatto la vostra tradizione empirista? Bertrand Russell non aveva spiegato che se su 100 abitanti di un villaggio 99 si chiamano Smith non è detto che tutti si chiamino Smith? È proprio questo il caso: il fatto che in molti paesi europei esista il welfare per i disoccupati non implica che esista in tutti. «The Guardian» evidentemente non può neanche immaginare che in Italia i giovani non possano lasciare la casa dei genitori grazie al welfare, e che non ci sono mai stati tagli al welfare per i disoccupati, per la semplice ragione che non c’è mai stato un welfare per i disoccupati, e quello che non c’è non può essere tagliato. Anzi, è vero addirittura il contrario: recentemente è stata estesa a più lavoratori una rudimentale indennità di disoccupazione. Ma i benefit a cui si riferisce «The Guardian» non sono l’indennità di disoccupazione, bensì le misure di reddito minimo garantito che in tutta Europa sono una cosa molto seria.
Più empiristi, a sorpresa, i tedeschi. Il giornale liberale e conservatore «Frankfurter Allgemeine Zeitung» è più in sintonia con la realtà del Belpaese; e con l’aria di voler sorprendere i lettori scrive (3 marzo 2010): Keine Sozialhilfe in Italien [3]. Potremmo tradurre così: «In Italia non c’è un welfare per i disoccupati». Secondo l’autore dell’articolo, «dal punto di vista italiano» la Germania è «il paese della cuccagna» (das Schlaraffenland): infatti «in Italia non c’è mai stata alcuna forma di welfare per i disoccupati (Sozialhilfe)». Ci sono dei sussidi per i disoccupati (Arbeitslosengeld), ma, scrive l’editorialista, «solo in una forma rudimentale». E dunque? «Poiché manca il welfare, deve supplire la famiglia». In Italia, scrive il giornale tedesco, si preferiva andare in pensione a 50 anni. Inoltre, i «sussidi di disoccupazione per tutti» (Arbeitslosengeld für alle) sono «indesiderati dal punto di vista politico».
Si giudica per paragoni e confronti. Ma l’Italia si confronta con difficoltà con gli altri paesi europei. In generale, i paesi europei si confrontano poco tra loro: manca un’opinione pubblica europea. D’altra parte, la letteratura scientifica parla agli specialisti, il suo compito non è quello di permettere a tutti di farsi un’idea concreta delle forme di reddito minimo garantito europee, della loro diffusione e quotidianità. Inoltre, espressioni come «esclusione sociale», «reddito di sussistenza», «lotta alla povertà» fanno pensare, senza un adeguato contesto, a sussidi marginali per i casi di «povertà assoluta». Pensiamo a strumenti per l’eccezione, non per la normalità. Non pensiamo, in altre parole, che un diciottenne di famiglia medioborghese possa andare a vivere da solo grazie al welfare. Ma è questo che invece accade nell’altra Europa. Osservare questi strumenti di welfare non solo nei libri, ma anche direttamente all’opera nei paesi che li adottano, è davvero un’esperienza impressionante. Vista la potenza e l’estensione del welfare, di quello vero, ci si chiede subito perché non se ne sappia niente da noi. Per dirla senza perifrasi: in Italia non ci si rende conto della colossale importanza che ha il vero welfare.
Prima di procedere vediamo che cosa si deve intendere con l’espressione «reddito minimo garantito». Dal 1992 l’«Europa ci chiede», come riportato testualmente dalla raccomandazione 92/441 Cee pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale», «l’introduzione [...] di un reddito minimo garantito», universale e illimitato [4]. Per questo, o anche per questo, useremo l’espressione «reddito minimo garantito», e non, ad esempio, «reddito di cittadinanza», o «reddito di inserimento», «minimo vitale», «reddito di ultima istanza». Un’espressione vale l’altra purché si definisca di che cosa si parla.
L’espressione «reddito minimo garantito», oltre ad essere più utilizzata, ha il vantaggio di essere ideologicamente neutra e quindi più utile a un confronto con le misure di tutela del reddito adottate in Europa. Indica semplicemente una serie di misure che garantiscono a chi cerca un lavoro di non cadere al di sotto di un minimo vitale. Trattandosi di misure che non esistono in Italia (vedremo perché non si possono confondere con la cassa integrazione o con gli altri sussidi che sono estremamente limitati nella durata, riservati a una platea ristrettissima, discrezionali e corporativi) evidentemente non c’è neanche un nome che le possa rappresentare. Ad esempio, «sussidio di disoccupazione» ferma alcuni aspetti, ma è equivoco e parziale. D’altro canto, «reddito di cittadinanza» indica un reddito per tutti e incondizionato. In Italia di solito, quando non si confonde il reddito minimo garantito con i sussidi di disoccupazione (limitati e corporativi), lo si confonde con il reddito di cittadinanza: o si sbaglia per difetto oppure per eccesso.
Gli aspetti essenziali del reddito minimo garantito sono: a) il carattere illimitatonella durata del sussidio (dura tanto quanto dura la ricerca di un lavoro, anche diversi anni); b) la sua universalità condizionata solo dalla disponibilità a cercare un lavoro e dall’accertamento dei mezzi (non bisogna essere ricchi per averne diritto, ma neanche essere «poveri» e non è necessario fare riferimento a intermediari politici o sindacali).
Per queste misure di tutela del reddito ogni paese ha la sua denominazione:Jobseeker’s Allowance nel Regno Unito, Revenue solidarité active in Francia,Arbeitlosengeld II in Germania, ecc. Le denominazioni colloquiali sono: the dolenel Regno Unito, Hartz IV in Germania, chômage in Francia. Molto diffuso nella stampa di lingua inglese è riferirsi a queste misure di tutela del reddito con la parola «benefits», al plurale, benefici. Qui useremo «reddito minimo garantito» soprattutto nel senso generale di benefit, intendendo quindi anche gli assegni per l’alloggio, per i figli, ecc. Non bisogna pensare dunque al reddito minimo garantito semplicemente come a un assegno mensile. Sarebbe fuorviante limitarsi a dire, ad esempio, che in Germania il «reddito minimo garantito» è di 380 euro al mese, senza aggiungere che con questi soldi il disoccupato non ci deve pagare l’affitto per l’alloggio (perché per l’affitto c’è un altro sussidio), oppure senza spiegare che la cifra si riferisce al disoccupato single, e non ad una famiglia (più è grande, più aumenta il sussidio). Bisogna notare, inoltre, che mentre in Italia con «welfare» s’intende soprattutto riferirsi alle pensioni e alla sanità, nei paesi nordeuropei ci si riferisce più spesso proprio ai benefit contro la disoccupazione. Per questo si può sentir dire, ad esempio, che quella tale persona «vive solo di welfare» (come scrive «The Guardian», i giovani adulti tornerebbero a casa in conseguenza dei «tagli al welfare»). In Italia «welfare» significa in determinati contesti «piena occupazione»; ma la piena occupazione nasce con il complemento dei benefit: il fatto che in Italia questo aspetto manchi è molto indicativo.
Quando dunque parliamo di «disoccupazione europea» dobbiamo capire che stiamo mettendo in un’unica pentola realtà diversissime. Sotto lo stesso titolo vengono catalogate, da una parte, la disoccupazione che lascia qualche soldo sicuro in tasca ogni mese, la sicurezza dell’alloggio e degli assegni per i figli, e, dall’altra, la disoccupazione di chi finisce sotto al ponte, o, nella migliore delle ipotesi, di nuovo a casa con mamma e papà. Ma alla luce di quello che vedremo (e che sorprenderà), i dati sulla disoccupazione dei diversi paesi europei dovrebbero essere letti in modo diverso, e, per l’Italia, in modo più drammatico. Se si confrontano le economie di due paesi a partire dai dati della disoccupazione, ma non si mette nel conto che in uno c’è il reddito minimo garantito, o, come dicono gli inglesi, i benefit, e nell’altro no, il confronto risulterà evidentemente falsato. In Italia il problema della disoccupazione è quello brutale dell’Inghilterra, ma di quella ottocentesca, la disoccupazione che non porta il pane in tavola.
Come non può non «interrogarci» il fatto che in Italia si consideri un’utopia quello che in Gran Bretagna, Francia, Germania, Olanda, Belgio e in altri paesi è realtà da decenni? Il reddito minimo garantito è una realtà così ovvia in Europa che, come abbiamo visto, nella stampa britannica si attribuisce, come si dice oggi, «di default». L’utopia, al contrario, è una forma politica e sociale irrealizzabile, che, come dice l’etimologia, non esiste in nessun luogo. Ma il reddito minimo garantito esiste dietro l’angolo di casa, nel nostro stesso contesto politico europeo. Un tempo c’era l’«utopia socialista», che riguardava il mondo comunista, il quale non solo era diverso dal modello economico e politico occidentale, ma era anche nemico di questo. Nel caso del reddito minimo garantito l’«utopia» appartiene, invece, al cuore dell’Occidente, alla vecchia Europa. È l’Italia l’eccezione, non il contrario. Non si può utilizzare l’alibi (secondo l’etimologia: alius ibi, l’«altro da qui», l’«essere altrove») che è qualcosa che non ci riguarda nella misura in cui «non accade da noi ma da un’altra parte»: infatti, rispetto al reddito minimo garantito non ci troviamo in un «altrove» ma, al contrario, più che mai dentro il modello sociale occidentale europeo. Ad essere «altrove» in questo caso è l’Italia.
Anche l’obiezione più immediata al reddito minimo garantito, quella che riguarda i costi, dovrebbe tener conto di questo dato di realtà. Non si tratta di un’utopia, evidentemente, perché quello che è reale è anche possibile. Ma interessante è notare che la quasi totalità dei paesi che adottano forme di reddito minimo garantito – la Francia, la Germania, il Regno Unito, il Belgio, l’Olanda, la Danimarca, l’Austria, il Lussemburgo, la Svezia, la Finlandia, la Norvegia... – non solo non sono schiacciati da un debito pubblico enorme e insostenibile, ma è vero proprio il contrario: ad essere in crisi è il nostro debito pubblico. Se poi, sempre seguendo la linea dei confronti, considerassimo che l’altro paese in Europa che non ha il reddito minimo garantito è la Grecia, e se ricordassimo che anch’essa ha un enorme debito pubblico, saremmo persino tentati di stabilire una connessione – forse un po’ unilaterale, ma non priva di ragioni – tra l’alto debito pubblico e l’inesistenza di un reddito minimo garantito. Il Portogallo e la Spagna, che restano sotto il tacco della crisi di questi anni, hanno una forma di reddito minimo garantito molto modesta; in Spagna è frammentata, differente da regione a regione. L’Irlanda, che invece sta uscendo dalla crisi, ha un reddito minimo garantito sconcertantemente generoso, anche se con una tassazione molto bassa. L’Irlanda spende meno, ma meglio.
In Italia c’è più assistenzialismo che redistribuzione. Il welfare moderno, quello vero, è universalistico: è redistributivo più che assistenzialista; non individua infatti categorie, ceti, gruppi, territori, amici, famiglie, zie e nipoti, ma determina un diritto. Non prevede intermediari che accrescono il loro potere distribuendo favori. Non è pensato come una rendita, proprio perché non è clientelare o corporativo.
Un sistema universale di welfare crea più autonomia, maggiore disponibilità al rischio d’impresa [5]. Inoltre, fatto questo essenziale, poiché limita il clientelismo, aiuta la trasparenza democratica. La democrazia implica un welfare universale. Che, peraltro, fa anche risparmiare. Se, infatti, l’universalità del welfare regolata per legge è una grandezza finita, lo stesso non può dirsi per il bisogno di consenso ottenuto attraverso il clientelismo.
Il confronto con gli altri paesi lascia emergere allora una realtà del tutto capovolta rispetto all’utopia. Ciò non toglie però che dobbiamo fare i conti con un contesto politico e culturale che associa all’impossibile, all’assurdo, all’astrazione di filosofi utopisti, quello che invece qualsiasi tassista di Parigi, qualsiasi operaio di Bochum, qualsiasi giovane di Londra conosce come realtà di tutti i giorni.
L’opinione pubblica italiana vede, se non altro attraverso le inchieste giornalistiche, le conseguenze ovvie dell’assenza di un reddito minimo garantito: povertà drammatiche, con famiglie che dovranno lasciare la casa dove hanno abitato e non ne hanno un’altra in cui andare, padri che scoppiano in lacrime perché non sanno come far quadrare i conti mentre i loro figli, nei quali avevano rimesso le loro speranze, non possono continuare gli studi. Si prova un senso di impotenza. Eppure qualcosa manca al quadro, qualcosa che un’indagine giornalistica, invece, dovrebbe richiamare nel modo dovuto. C’è una domanda banale che non è stata mai davvero posta: come affrontano la disoccupazione gli altri paesi europei? Ci sono storie, conflitti, parole, idee che da noi non sono mai state raccontate. La storia della giovane Cait Reilly, ad esempio, che racconteremo più avanti, la quale, con un ricorso all’Alta Corte di Giustizia britannica, ha mandato (momentaneamente) al tappeto il programma Work for your benefits del primo ministro inglese David Cameron. Oppure la storia della scrittrice tedesca Undine Zimmer.
Negli altri paesi europei la disoccupazione è affrontata con potenti strumenti di welfare: garanzia del reddito, dell’alloggio, assegni per i giovani e per i bambini, sussidi per pagare la bolletta del telefono, per i quaderni e i libri, per la lavanderia, per i corsi di formazione, trasferimenti per chi inizia una professione, per ristrutturare la casa.
«Adeguarci all’Europa» vien inteso di solito, in Italia, nel senso dell’esigenza di ridurre il welfare. Secondo il noto adagio dovremmo svestire l’atteggiamento delle cicale per diventare formiche – come in Europa. Ma la realtà è molto diversa. I tagli ci sono nell’altra Europa: ma il contesto è diverso e il punto di partenza è molto più alto. La potatura del welfare avviene nell’altra Europa a partire da un albero enorme, al cui confronto in Italia abbiamo una misera pianticella (e sproporzionatamente costosa). Ma non si tratta solo di una differenza quantitativa. Le ragioni stesse dei tagli sono, come vedremo, impensabili in Italia. Il «taglio del welfare», senza ulteriori specificazioni, fa pensare alla comparabilità dei sistemi di welfare. Mentre sono incomparabili. Viene allora da pensare che il problema non è solo sociale, ma anche in qualche modo «cognitivo», o, se si preferisce, ideologico. Viene in mente l’interpretazione delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn: guardiamo all’altra Europa da un paradigma interpretativo nel quale troppe cose sono sottosopra e confuse.
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