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mercoledì 23 luglio 2014
Il diritto e lo Stato nel Paese delle Meraviglie
di Giuseppe Panissidi
Non è un mondo per bambini. "Che roba! Roba dell'altro mondo! Tutto il mondo, oggi, è roba dell'altro mondo! E pensare che fino a ieri le cose avevano un capo e una coda!”, esclama Alice. Ma non è neppure un mondo per adulti, qualora salti ogni criterio di rilevanza, declinata nel doveroso rispetto delle più elementari regole logico-linguistiche. Che, nel Paese di Alice, vengono “istituzionalmente” violate.
In Italia e fuori, ora riecheggia una domanda: è uno scherzo? E’ uno scherzo l’assoluzione in Appello di un ex premier, malgrado la “confessione” della sua difesa, che una Corte di Giustizia, mentre assolve, sembra non condividere. Uno scenario davvero intrigante.
Nella grottesca “notte degli imbrogli e dei sotterfugi” di manzoniana memoria, un primo ministro chiama un ufficio dello Stato per sollecitare il rilascio di una minore, conosciuta come tale, evidentemente. Ché, se maggiorenne, il problema non si sarebbe neanche posto. Per un matrimonio che… s’ha da fare, per quel “lieto fine” di cui ironicamente parla Leonardo Sciascia, in riferimento all’Italia-“sistema di don Abbondio”, illuminante saggio di Angelandrea Zottoli, or è quasi un secolo. Un sistema che significativamente vede don Abbondio, ancorché immutato, “unico vincente”, mentre Renzo e Lucia ripartono e la Provvidenza incassa qualche consolatoria e simbolica crisi di coscienza.
Nel rapido corso del giudizio d’impugnazione, la difesa attribuisce la frenetica reazione di quell’ufficio al “timore reverenziale” suscitato, appunto, da quell’altissima carica dello Stato. Più che giusto, non si sarebbe potuto dire meglio. La Corte condivide? Se non ché, “timore”, lungi dal concretare una categoria linguistica e psicologica neutra e insignificante, denota uno specifico “stato d’ansia e di turbamento”, che, non v’è dubbio, può derivare anche dal naturale “sentimento di soggezione” rispetto a un alto e potente interlocutore, se telefonico o meno non importa. Da qui, tutta l’agitazione psicomotoria di quella notte.
In modo cristallino, la difesa ha enucleato il presupposto essenziale del delitto in parola, ammettendone l’occorrenza. Ovvero: “minaccia”, secondo convergenti linee di dottrina e giurisprudenza, pacifiche e costanti, non è di necessità un atto violento, non richiede necessariamente espressioni verbali esplicite e brutali. E’ possibile minacciare qualcuno anche “educatamente”, in modo implicito, mediante la semplice interlocuzione allusiva, e persino sorridendo. Non è affatto casuale che la norma incriminatrice distingua tra violenza e minaccia. Com’è noto anche nella scuola materna, l’effetto-minaccia può ben identificarsi nella “qualità” medesima del soggetto attivo del reato. Nel caso che occupa, nella specifica modalità di esercizio (abusivo) del potere istituzionale e costituzionale in testa al “reverendo”, in quel determinato momento. Pacificamente. Un potere dal quale, nella percezione turbata del ricevente – elemento decisivo ai fini della fattispecie – anche soltanto in ipotesi, potrebbe derivare un indeterminato male futuro. A nulla rilevando, dunque, sotto il profilo logico-giuridico, che esso non risulti prospettato in modo esplicito. Epperò, in modo più che esplicito viene almeno adombrato il rischio di un incidente diplomatico con l’Egitto. Questa prospettiva non è sufficiente a incutere una qual certa inquietudine in un solerte funzionario dello Stato?
Tanto vero che, in mancanza di alternative allo stato di necessità, provocato dalle chiamate, e anche a prescindere dallo status immaginario della ragazza quale nipote di Mubarak, quell’ufficio, imbonito da un potere dello Stato gerarchicamente sovraordinato, non esita a trasgredire le disposizioni del pm presso il competente tribunale dei minori. Come volevasi dimostrare: ubi maior. A proposito e a margine: qual è la percentuale dei corrotti e concussi che denunciano corruttori e concussori più o meno potenti e pericolosi?
La difesa, inoltre, sottolinea il fatto che, allorché la ragazza fu fermata una seconda volta, dopo un congruo numero di giorni, non si verificò alcun intervento da parte dell’imputato. L’argomento, è patente, si rivela specioso e capzioso, valido, cioè, soltanto per chi si sforza di non capire, anziché di capire. Perché tra la prima e la seconda volta passano, appunto, alcuni giorni, un intervallo temporale più che sufficiente per imbastire forme varie di “istruzione” ad personam. La ragazza doveva essere “liberata” la prima volta, quando fu fermata “inaspettatamente”, non la seconda (o la decima), quando, a fatto già accaduto, anche in caso di repliche, la “prevedibilità”, ormai acquisita, non rendeva necessarie ulteriori chiamate. Se le logiche dell’ordinario intelletto umano non sono opinioni.
D’altronde, non si trattava di una minore qualsiasi, bensì di un magnifico esemplare, lautamente remunerato – esisterà un barlume di gratitudine a questo mondo! – di quel raffinato modello culturale che l’”utilizzatore finale” ha definito di “assoluta eleganza”. De gustibus. Di certo, nulla a che fare con la rozzezza, anzi il “cancro” rappresentato, a parer suo, da “certi settori della magistratura”. Quelli, vedi caso e per la chiarezza, territorialmente e funzionalmente competenti a conoscere ed agire in ordine alle notizie di reato che, di volta in volta, lo riguardano.
Rebus sic stantibis, ogni elucubrazione cervellotica, più che al rigore del diritto, della ragione e del linguaggio, è inesorabilmente destinata a somigliare a un’atletica arrampicata sugli specchi. Stranezze. Che, tuttavia, suggeriscono una riflessione. E una domanda, anzitutto: perché? Ma una domanda palesemente retorica. Proviamo, infatti, a immaginare un “padre della patria”, un rifondatore di Stati, gravato da una micidiale condanna confermata in Appello, dopo la prima (non a caso) risalente a un tempo e a un contesto totalmente differenti. Proviamo, senza troppi infingimenti.
L’esecutivo di Matteo Renzi, forte di un sostanzioso 20% di legittimazione popolare democratica, lealmente assicurata la “serenità” al suo predecessore, per amor di patria, s’intende, deve quotidianamente fronteggiare attacchi energici e motivati sul punto. Se il libero convincimento del giudice dell’impugnazione non avesse provvidenzialmente rottamato la pronuncia di primo grado, il cammino del rottamatore di Stato sarebbe stato inevitabilmente molto (molto) impervio, dentro casa e nel contesto europeo, al quale (in qualche modo) apparteniamo. Anche perché, intercalando alla Razzi, contrariamente a quanto si blatera in queste ore, la condanna era stata comminata “dopo e alla stregua” della riforma, in capo al legislatore penale, della struttura del delitto di concussione. Circa sei mesi “dopo”, per la precisione. Sicché, tutto il “giustificazionismo” attuale, anche da parte di osservatori indipendenti, in merito all’assoluzione, in quanto asseritamente imposta dalla riforma Severino, non sta né in cielo, né in terra.
Del pari, appare incongrua – o inconferente, nel lessico giuridico – la distinzione tra concussione “coercitiva” e “induttiva”, visto che si versa, si è sempre versato, nel tema della prima, che non richiede, come suo elemento costitutivo, il “vantaggio” del concusso. Salva la sua “serenità”, naturalmente, secondo la singolare terminologia invalsa di recente.
Al riguardo, un’interessante lezione è possibile ricavare dal nuovo pontefice, considerato sub specie di altissima e riconosciuta autorità morale. Dopo avere esordito, assicurando che “Dio perdona tutto e tutti”, Francesco, ad occhi spalancati aperti, in costanza di certi chiari di luna nazionali, è successivamente approdato a un ripensamento (a dir poco) radicale, mediante forme e tonalità espressive aspre e forti di segno opposto. “Guai” alla corruzione di ogni genere e specie, robaccia “infernale”, infestante il terreno di sistema sul quale la stessa magia del perdono incrocia criticità (quasi) proibitive. I cattolicissimi responsabili della polis, usi a genuflettersi, grati e commossi, davanti a quell’alto magistero morale, ne sono a conoscenza? O preferiscono limitarsi a sfoderare la medesima ipocrisia farisaica di quella ministra della Repubblica, che invoca i “tanti voti” del consenso elettorale di chicchessia per giustificare il libero accesso al Nazareno in vista del nuovo Stato? Non dimentica, gentile signorina, che quei “tanti voti” – historia magistra? – non sono verità rivelate, né, in particolare, sono stati sufficienti ad evitare un’espulsione dal Parlamento, a causa di una conclamata (dal mondo giuridico-politico) “indegnità etico-politica” consacrata in una legge dello Stato? Non crederà di potere scindere, per fini tattici e in modo e con effetti schizoidi, l’umana sostanza di un individuo – unità in-divisibile – contravvenendo al divieto delle psico-scienze cliniche? Sempre che la premurosa signorina riformatrice, rispolverando i sudati libri, non reputi necessario un provvedimento legislativo ad hoc per regolamentare (sic) il traffico al Nazareno?!
Corruptissima re publica plurimae leges, Tacito docet. Ma e soprattutto, in determinate congiunture, ci permettiamo rammentare, per gli uomini vigono “leggi non scritte”: nuclei di norme, principi e valori risplendenti nel cielo dell’equazione umana. Da Antigone in poi. Vero è che, invece, uno scenario siffatto ripugnerebbe anche a messer Niccolò Machiavelli, “savio et prudente”, il più (strumentalmente) frainteso dei grandi della nazione. Il Principe, infatti, messa in campo la “necessaria” (non di più) spregiudicatezza, non può, non deve mai, per nessuna ragione, contraddire e disperdere i presupposti del suo agire politico, quando e se costruttivo di ordini (realmente) nuovi. I quali ultimi rimangono indelebilmente “segnati” dalle modalità proprie dei soggetti e dei percorsi fondativi, dal loro, per così dire, DNA costitutivo. In costanza di volgari machiavelli senza Machiavelli, ne va dello Stato, effettuale o in pectore che sia.
D’altronde, sarebbe vagamente indecente l’immagine di un Paese nel quale vigesse un nuovo diritto, propedeutico e funzionale a una nuova architettura costituzionale: il diritto di usare chi si trovi in condizioni di bisogno estremo. Cui specularmente corrispondesse l’interesse del bisognoso a essere usato, senza peraltro farne mistero in (quasi) oneste ammissioni pubbliche, in riferimento al suo stato di necessità e alla peculiare indole e finalità della sua volontà collaborativa. Fino a puntare, siamo alle immancabili breaking news, a una nuova verginità morale e politica, come, ad esempio, una revisione della norma, da lui stesso approvata (in altri, “spensierati” frangenti), che gli inibisce il Parlamento. Perché mai non dovrebbe? Data la “ragionevolezza” dell’istanza, chiaramente ispirata all’odierna fase di storia e di cultura – per usare parole grosse – inaugurata dal premier in carica, in ottima e abbondante compagnia. Ora, deflagra la tanto agognata “pacificazione”, proprio all’esito di una decisione giurisdizionale certo casuale, ma non del tutto imprevedibile. Finalmente. Come per incanto, essa funge da potente fattore di coesione nazionale, assai più che il (becero) antifascismo d’antan e la primazia dei valori costituzionali dello Stato di diritto in corso di “aggiornamento”.
Lo stesso tema della “grazia”, oggettivamente impercorribile e scabroso, sembra impallidire e perdere d’importanza, come se la concessione del supremo beneficio fosse divenuta marginale o, comunque, non indispensabile. Vi sono altri… talismani. Di fatto, un confortevole affidamento in prova a cinque stelle l’ha già proficuamente sostituita, attraverso un provvedimento munifico, elargito da magistrati magnanimi, benché pubblicamente accusati di “mafiosità”: “sono nelle mani di questa mafia”. E non a freddo, bensì in corso di procedura e poco prima della sua conclusione, con una condotta ben diversa dal diritto, costituzionalmente protetto e riconosciuto dall’ordinamento, di proclamare la propria innocenza anche dopo la condanna. Tutto si tiene, sapeva già Platone.
Di colpo, ci troviamo letteralmente travolti da onde anomale di gioia, da taluni apertamente manifestata, da altri condivisa in (religioso?) silenzio. Anche nella sfera del diritto? Ebbene, nella sua autonomia e indipendenza, la giurisdizione penale esige giudici – diversa la posizione dei magistrati del pubblico ministero – costituzionalmente “soggetti soltanto alla legge”. E, per ciò stesso, intrinsecamente soggetti al logos, all’esercizio ossia della ragione, fonte indefettibile del “libero convincimento”. Che è altro dal “libero arbitrio”. “Libero”, per l’appunto, alla luce della dottrina e della giurisprudenza, oltre che del buon senso, equivale a logico, coerente, ragionevole, se non razionale, e conforme alla legge e ai fatti. Una libertà, insomma, intrisa della linfa vitale della ratio e dello ius, che, in contesti di common law, forse in modo più pertinente e cogente, definisce e postula standard di “certezza oltre ogni ragionevole dubbio”.
Quando saranno rese note le motivazioni assolutorie della Corte di Giustizia di Milano, l’auspicio è che la specifica complessità di alcuni interrogativi qui proposti trovi puntuali, plausibili risposte, tali (quanto meno) da eguagliare e controbilanciare il rigore logico-argomentativo, in diritto e in fatto, della sentenza appena riformata “in nome del popolo italiano”. Solo per comprendere, stante il giudizio pronunciato nel nostro nome. Noi, il popolo, usa dire e pensare in USA. Scrive John Locke, nel suo Secondo Trattato sul Governo: “Laddove è possibile un appello alla legge e ai giudici costituiti, ma il rimedio è negato da un manifesto pervertimento della giustizia e da una sfacciata distorsione della legge intese a proteggere o incoraggiare la violenza o le offese di alcuni uomini o partiti, qui è difficile immaginare altra cosa da uno stato di guerra. Poiché ogniqualvolta si usi violenza o si arrechi offesa, anche se viene dalle mani di chi è designato ad amministrare la giustizia, è sempre violenza o offesa, per quanto dissimulata sotto il nome, le vesti o le forme della legge il cui fine è proteggere e rendere giustizia all’innocente mediante un’imparziale applicazione a tutti coloro che a quella legge sono soggetti”. Perché, “se vuoi sapere che cosa è uno Stato e il suo diritto, la sua giustizia e la sua libertà, devi solo domandarti quanti innocenti tiene in prigione e quanti criminali lascia in libertà” (Ivo Andric). E tuttavia, ci ricorda Shakespeare, “vi sono più cose in cielo e in terra”, di quante non possiamo neppure immaginare.
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