La scelta di Juncker come prossimo presidente della Commissione Europea è in totale continuità con le dannose politiche del rigore imposte in questi anni dalla Troika. Il premier italiano da un lato sembra battere i pugni contro i diktat di Berlino, dall’altro crede – sbagliando – che più flessibilità nel Patto di Stabilità basti per migliorare la situazione. Ma ci sarà un cambio di marcia solo se Renzi acquisirà coraggio e consapevolezza dell’impossibilità di procedere con le regole attuali.
di Vladimiro Giacché
Salvo improbabili colpi di scena parlamentari, il democristiano lussemburghese Jean-Claude Juncker sarà il prossimo presidente della Commissione Europea. La designazione è avvenuta il 28 giugno al termine del Consiglio Europeo, con il voto contrario dell’Ungheria e quello, molto più pesante, della Gran Bretagna.
Non si tratta di una buona notizia. E non certo per il motivo malignamente avanzato dal giornale scandalistico britannico Sun, e prontamente rilanciato dall’equivalente tedesco Bild, ossia la presunta propensione all’alcol del presidente designato.[1]
I motivi di preoccupazione sono altri e più seri. In primo luogo, Juncker proviene da uno staterello noto ai più come paradiso fiscale, di fatto una città di 127.000 abitanti, che non ha mai espresso grandi statisti. Il precedente del lussemburghese Jacques Santer non è incoraggiante: la Commissione a sua guida fu travolta dagli scandali e dovette dimettersi con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale.
In secondo luogo, ed è questo il motivo fondamentale di preoccupazione, si tratta di una scelta che esprime una perfetta continuità con le disastrose politiche europee di gestione della crisi di questi ultimi anni. Sino al 2012 Juncker fu infatti presidente dell’Eurogruppo, ossia il gruppo di coordinamento dei ministri dell’economia e delle finanze dell’eurozona. In questa sua qualità condivise tutte le politiche adottate e tra l’altro si fece promotore della proposta di conferire il patrimonio statale greco a un istituto fiduciario non controllato dallo Stato ellenico, ma dai creditori stranieri, per privatizzare il tutto. Il modello cui ispirarsi fu indicato dallo stesso Juncker nella Treuhandanstalt, la società fiduciaria che nei primi anni Novanta aveva privatizzato l’intera economia della RDT (con risultati catastrofici e lasciando un buco di 250 miliardi di marchi dell’epoca).[2]
Anche quando si dimise dall’Eurogruppo, nell’aprile 2012, a suo dire per protesta contro le ingerenze franco-tedesche nella gestione della crisi (evidentemente se n’era accorto con qualche ritardo), Juncker non mancò di confermare la sua lealtà alla Germania proponendo quale successore il ministro delle finanze tedesco Schäuble.
Infine, questa nomina è frutto di uno scambio politico, per cui il socialdemocratico Martin Schulz sarà confermato alla guida dell’europarlamento anche coi voti dei popolari europei: le due nomine configurano insomma una vera e propria “grosse Koalition” a livello europeo tra popolari e socialdemocratici. Il rischio concreto è quello di una maggioranza formidabile in Parlamento per la prosecuzione delle politiche di austerity che hanno impoverito l’Italia e gran parte del continente.
Che su questa linea continui a collocarsi la parte più oltranzista dell’establishmenttedesco è fuori di dubbio. Lo dimostrano le critiche rivolte a Matteo Renzi a Strasburgo da parte del capogruppo popolare al PE Manfred Weber (esponente della CSU bavarese, uscita malissimo dalle urne), che ha ribadito il rifiuto di ogni interpretazione “flessibile” delle regole europee. A Weber, Renzi ha fatto bene a ricordare che proprio alla Germania era stato consentito nel 2003 lo sforamento della regola del 3% del deficit per sostenere le riforme.
Avrebbe potuto aggiungere che l’Italia dal 2008 al 2012 è stata l’unico paese dell’eurozona che ha attuato unicamente politiche di bilancio restrittive (con un impatto negativo sul prodotto interno lordo pari a 5 punti percentuali), mentre la Germania nello stesso periodo ha attuato politiche espansive, con un impatto positivo sul pil pari al 6 per cento, grazie ai 69 miliardi di incentivi alle imprese e ai ben 259 miliardi di soldi pubblici spesi per salvare dal fallimento le banche tedesche (e se si includessero anche le garanzie si arriverebbe alla cifra strabiliante di 646 miliardi).[3]
Anche il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, parlando al consiglio economico della CDU (non proprio un punto a favore dell’autonomia della banca centrale tedesca…), si è permesso di ironizzare sul discorso di Renzi. E si è preso la risposta che si meritava: “noi rispettiamo lo statuto e il mandato della Bundesbank, ma deve rimanere fuori dal dibattito politico italiano”, ha detto Renzi; per poi aggiungere: “noi non andiamo ad indagare l’attività di vigilanza sulle Landesbanken e le Sparkassen”. Si tratta di un accenno, neppure troppo criptico, ai buchi nell’attività di vigilanza bancaria della Bundesbank, dimostrati oltre ogni ragionevole dubbio dai soldi che i contribuenti tedeschi hanno dovuto pagare per salvare le proprie banche, e in particolare le Landesbanken.
Del resto, la tutela esercitata dalle istituzioni tedesche nei confronti delle “loro” banche si è vista anche in occasione dei negoziati per la cosiddetta unione bancaria europea, in cui Schäuble ha ottenuto che la soglia oltre la quale scatta la vigilanza europea fosse altissima (30 miliardi euro di attivi), proprio per salvare le Sparkassen (una sola delle quali – su 417! – sarà vigilata dalla BCE). E, dulcis in fundo, alcune delle non molte banche tedesche che saranno controllate dalla BCE – 24 su 1.941 – non dovranno esibire agli ispettori europei i loro portafogli di mutui immobiliari: guarda caso, si tratta di Commerzbank e HSH Nordbank, banche tutt’altro che in buona salute.[4]
È senz’altro confortante che un Presidente del Consiglio italiano, per la prima volta da molto tempo, dismetta l’abito dello scolaretto e risponda per le rime agli arroganti di turno. Ma possiamo essere contenti di questi botta e risposta? Dipende.
Se il loro significato negoziale si esaurirà nella richiesta di un po’ di “flessibilità” in più nell’applicazione delle regole del “fiscal compact” – magari in cambio di qualche privatizzazione o della libertà di licenziare -, il risultato sarà inevitabilmente la prosecuzione delle politiche sbagliate degli ultimi governi e la rapida scomparsa dalla scena politica anche dell’attuale presidente del Consiglio, al pari dei tre precedenti.
Si tratta infatti di regole sbagliate, i cui vincoli hanno portato il nostro paese sull’orlo del baratro economico e completeranno l’opera non appena si tratterà non soltanto di mantenere strutturalmente il pareggio di bilancio,[5] ma addirittura di ridurre la parte del debito che eccede il 60% del pil addirittura del 5% annuo: una vera e propria mission impossible (sul Financial Times Wolfgang Münchau l’ha definita “folle”) che avrà quale unico plausibile risultato una prolungata depressione economica, mentre la situazione debitoria del nostro paese peggiorerà a causa della deflazione e del crollo del prodotto interno lordo.
Diversamente andranno le cose se il presidente del Consiglio italiano acquisirà consapevolezza dell’impossibilità (economica prima ancora che politica) di procedere con le regole attuali. Innanzitutto perché esse mirano a due obiettivi che non possono essere conseguiti. Il primo è la generalizzazione del modello mercantilistico tedesco (mentre il mercantilismo per funzionare ha bisogno di non essere generalizzato).[6]
Il secondo è il ridimensionamento per decreto dei debiti pubblici in una misura che non ha alcun precedente storico, e per di più in un ambiente deflazionistico (mentre tutte le riduzioni del debito sono avvenute tramite un insieme di misure che include l’inflazione). Nessuno di questi due obiettivi può essere raggiunto. E se si persevererà sulla strada intrapresa, il risultato sarà l’ulteriore impoverimento e desertificazione industriale e produttiva dei paesi della periferia dell’Europa, e l’implosione incontrollata e distruttiva dell’area monetaria dell’euro.
Bisogna cambiare strada. Molto dipenderà dalla volontà e capacità del nostro governo di modificare gli equilibri europei, eccessivamente alterati negli ultimi anni a favore della Germania. Una cosa è certa: ben difficilmente una Commissione Europea guidata da Juncker potrà essere un alleato.
NOTE
[1] Briten unterstellen Juncker massives Alkohol-Problem, “Bild”, 5 giugno 2014http://www.bild.de/politik/ausland/jean-claude-juncker/sun-geruechte-alkohol-problem-36272124.bild.html .
[2] Sulla proposta di Juncker cfr. V. Giacché, Anschluss. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2013, pp. 272-4. Sulla Treuhand ivi pp. 75-119. Tra i molti testi sull’argomento si può vedere il documentatissimo libro inchiesta di D. Laabs, Der deutsche Goldrausch: Die wahre Geschichte der Treuhand, München, Pantheon, 2012.
[3] Le cifre sull’impatto delle manovre sul pil si trovano in: Istat, Rapporto Annuale 2014, Roma, maggio 2014, p. 210. Per i soldi spesi in Germania e in Europa a favore delle banche vedi M. Frühauf, “Milliardengrab Bankenrettung“, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 16 agosto 2013.
[4] In argomento vedi: A. Ross, “German banks win lighter ECB scrutiny”,Financial Times, 10 marzo 2014; D. Becker et alii, “German banks: the laggards in the banking sector”, Kepler Cheuvreux - S&T: Banks, Paris, Kepler Cheuvreux, 11 aprile 2014, p. 57.
[5] Va ricordato che, “grazie” al fiscal compact, il tetto del 3% quale deficit massimo non esiste più: ormai la regola è lo 0%, da cui ci si può discostare soltanto in caso di ciclo negativo. E in effetti le recenti critiche della Commissione Europea all’Italia si appuntano sul fatto che il deficit, pur non avendo sforato il tetto del 3%, è ancora troppo alto. Sui criteri opinabili alla base di queste critiche si veda “Pacta servata sunt”, Rapporto CER. Aggiornamenti, Roma, Centro Europa Ricerche, 25 marzo 2014.
http://www.centroeuroparicerche.it/userfiles/RapportoCER-Aggiornamenti_PactaServataSunt_25-03-14.pdf .
[6] È interessante osservare come precisamente la preferenza fatta propria dalla Commissione Europea per il modello mercantilistico di sviluppo, che sacrifica i salari (e quindi la domanda interna) alla conquista di nuovi mercati all’estero, abbia impedito finora – contro le stesse regole europee – l’apertura di una procedura d’infrazione contro la Germania per squilibrio macroeconomico eccessivo, nonostante questo paese si avvii a sforare per il quinto (!) anno consecutivo il tetto massimo consentito del 6% di avanzo commerciale. In merito v. F. Fubini, “Berlino sfora il tetto del surplus commercial ma la UE non si muove”,la Repubblica, 5 luglio 2014.
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