“Nonostante quattro processi ed indagini durate quasi un quarto di secolo, troppi aspetti della strage di via D’Amelio restano a tutt’oggi avvolti nel mistero. Una ferita aperta che rischia di divenire l’ennesima sconfitta di un paese incapace di fare i conti con i lati oscuri del proprio passato”. Pubblichiamo l’intervento del Procuratore Generale di Palermo in occasione della commemorazione di Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta uccisi il 19 luglio 1992.
di Roberto Scarpinato, 18 luglio 2014
E’ trascorso quasi un quarto di secolo dalla strage di via D’Amelio ed ogni anno a causa dell’inesorabile fluire del tempo, si assottiglia per ragioni anagrafiche e sopravvenuti pensionamenti, il numero di coloro che all’interno del palazzo di giustizia di Palermo furono testimoni di quel tempo.
Di coloro che ebbero modo di conoscere personalmente Paolo Borsellino, di condividere con lui i patemi dei suoi ultimi mesi di vita, di attraversare quella tragica stagione di sangue quando tutto sembrava perduto, come ebbe a dire Antonino Caponnetto in un momento di sconforto e di verità, ed un intero popolo che si sentiva improvvisamente orfano, si riversava nelle piazze gridando il proprio sdegno nei confronti degli esponenti di una classe politica che appariva imbelle e di uno stato che si era rivelato incapace di proteggere da una morte annunciata i suoi figli migliori.
Ho ancora negli occhi l’immagine di un Presidente della Repubblica che venuto a Palermo dopo la strage di via D’Amelio, rimase prigioniero nella morsa di una folla immane; una folla che travolse nel suo incontenibile impeto i cordoni di protezione della polizia e dalle cui fila si alzava veemente il grido “assassini” rivolto all’indirizzo dei massimi esponenti delle istituzioni.
Ogni anno che trascorre mi chiedo quanto di questo vissuto sia rimasto e resterà nella memoria collettiva dei nuovi abitanti di questo palazzo, delle giovani generazioni di magistrati, di avvocati, di funzionari destinati a sostituirci.
Mi chiedo quale verità storica, prima ancora che verità processuale, noi lasciamo loro in eredità; quali chiavi di lettura del passato consegniamo loro perché nella staffetta delle generazioni, essi sappiano leggere nel presente i segni del passato e le possibili premonizioni del futuro.
Nel pormi questa domanda a proposito della strage di via D’Amelio, a volte resto perplesso, perché tanti, troppi aspetti di quella strage restano a tutt’oggi avvolti in un mistero impermeabile alle indagini; lo stesso mistero che avvolge, non a caso, quasi tutte le stragi che hanno insanguinato la storia del nostro paese.
A questo proposito consentitemi, rivolgendomi soprattutto ai più giovani, di tracciare un telegrafico sommario di alcuni aspetti che sembrano accomunare lo stragismo degli anni 1992-1993 a quello dei decenni precedenti, lasciando intravedere una inquietante linea di continuità storica.
Più volte mi è accaduto di ripetere che non vi è alcun paese europeo la cui storia nazionale sia stata contrassegnata da una sequenza così lunga e quasi ininterrotta di stragi come quella che ha caratterizzato la storia italiana del secondo dopoguerra.
L’atto di nascita della Repubblica italiana è tenuto a battesimo da una strage: la strage di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947, che vede interagire alta mafia e settori deviati delle istituzioni segnando l’inizio della strategia della tensione.
Una strategia che da allora scandirà tutta la successiva storia repubblicana interferendo pesantemente sulla dialettica politica, sugli equilibri di potere nazionale, e che si snoderà, oltre che in progetti di colpi di stato, nella sequenza delle stragi di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969, di Peteano del 31 maggio 1972, dell’Italicus del 4 agosto 1974, di piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974, di Bologna del 2 agosto 1980, del rapido 904 del 23 ottobre 1984 e di molte altre ancora che tralascio per ragioni di sintesi.
Una strategia della tensione che, come hanno dimostrato vari processi e condanne definitive ha coinvolto in varie occasioni i vertici della mafia, così come era già avvenuto in occasione della strage di Portella delle Ginestre.
Si pensi, solo per citare alcuni esempi, al coinvolgimento nel progetto di golpe Borghese del 1970, al coinvolgimento nella preparazione di attentati dinamitardi nel 1974, alla preparazione del progetto di colpo di stato nel 1979, alla strage del rapido 904 per la quale è stato condannato all’ergastolo Giuseppe Calò, testa di ponte a Roma della mafia per i rapporti con la massoneria deviata e la destra eversiva.
Alla luce di questa telegrafica retrospettiva storica, non è dunque forse un caso che lo stragismo così come aveva segnato l’incipit della prima repubblica tentando di interferire sul processo politico poco prima delle elezioni politiche nazionali del 1948, il cui esito appariva imprevedibile dopo la lunga parentesi del ventennio fascista, ne contrassegni negli anni 1992-1993 anche l’agonia finale in una fase storica nella quale il disfacimento del vecchio quadro politico apriva una stagione di transizione verso nuovi equilibri di potere, il cui futuro assetto appariva allora di incerto esito e che, a secondo dei suoi sviluppi nell’una o nell’altra direzione, rischiava di pregiudicare, se non direzionato con atti di forza, rilevantissimi interessi e garanzie di impunità che si erano fondati sugli equilibri di potere della prima repubblica.
La vera storia dello stragismo italiano è rimasta in larga misura nell’ombra a causa dell’impotenza della giurisdizione a fare luce sulle occulte causali politiche delle stragi, sui mandanti eccellenti, e, talora, persino sugli esecutori materiali.
Sono a tutt’oggi senza colpevoli, ad esempio, la strage di Piazza Fontana, la strage dei Brescia, la strage dell’Italicus.
Sappiamo anche quale sia stata una delle cause di questa singolare debacle della giurisdizione nell’ accertamento della verità.
Come è stato accertato in tanti dei processi concernenti le stragi, le indagini della magistratura sono state quasi sistematicamente depistate, così come era già accaduto per la strage di Portella della Ginestra, da esponenti di settori deviati delle istituzioni.
L’elenco dei casi accertati è troppo noto e lungo per farne menzione. Vorrei solo ricordare che sono stati condannati con sentenza definitiva per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, tre vertici del Sismi e Licio Gelli, capo della loggia massonica P2.
Si tratta di una realtà storica talmente evidente che in questi giorni la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, dalla quale sono stato ascoltato il 25 giugno u.s., sta esaminando una proposta di legge (proposta C. 559 Bolognesi) che prevede l’introduzione nel nostro codice penale dell’art. 372 bis concernente il reato di depistaggio.
Ho voluto anteporre questa telegrafica premessa storica, perché la strage di via D’Amelio rischia di entrare nel triste novero delle stragi in buona misura avvolte dal mistero per motivi che, per certi versi, richiamano alla mente gli stessi motivi che hanno determinano l’impotenza della giurisdizione ad accertare la verità nelle altre stragi italiane che ho prima menzionato.
La strage del 19 luglio 1992 è infatti a tutt’oggi, nonostante la celebrazione di ben quattro processi ed indagini durate quasi un quarto di secolo, un mosaico nel quale mancano ancora troppe tessere determinanti perché sia possibile ricostruire una immagine finale nitida ed univocamente leggibile.
A tutt’oggi non sappiamo quale fu il motivo che determinò l’improvvisa brusca accelerazione dell’esecuzione della strage che colse di sorpresa persino molti capi di Cosa Nostra tenuti all’oscuro.
Una accelerazione autolesionistica per gli interessi di Cosa Nostra, perché l’esecuzione pochi giorni prima della scadenza del termine dell’ 8 agosto 1992 entro cui doveva essere convertito in legge il decreto Falcone dell’8 giugno 1992 che aveva introdotto il regime detentivo speciale del 41 bis ed altre incisive norme antimafia, determinò – come era chiaramente prevedibile – il subitaneo sblocco ed il superamento di tutte le resistenze dell’ampio e trasversale fronte parlamentare garantista sino ad allora contrario alla conversione in legge di norme ritenute lesive di diritti fondamentali.
Quali interessi superiori rispetto a quelli di Cosa Nostra imposero l’anticipazione autolesionistica della strage?
Quale era l’urgenza suprema non rinviabile per cui non si poteva attendere per l’esecuzione della strage neppure il decorso di quei 20 giorni che mancavano alla fatidica data dell’8 agosto, giorno di scadenza della conversione del decreto legge?
Cosa si temeva che Paolo potesse fare di tanto grave, di tanto irreparabile, in quei 20 giorni?
Forse mettere finalmente a verbale dinanzi alla Procura di Caltanissetta, dove da mesi insisteva per essere sentito, o formalizzare in interrogatori della Procura di Palermo, quel che aveva appreso sul “gioco grande” sotteso alla strage di Capaci e a quelle in fieri, all’interno di un complesso progetto politico stragista che – così come era avvenuto in passato per altre stragi – vedeva ancora una volta interagire la mafia con altre entità esterne?
Brandelli di verità che aveva appreso in quegli ultimi mesi della sua vita, spesi nella frenetica ricerca di chiavi di lettura per comprendere quanto era accaduto e quanto si preparava ad accadere, anche grazie alle rivelazioni di varie fonti tra le quali anche taluni collaboratori di giustizia. Fonti quali, ad esempio, il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, il quale sentito nel processo per la strage di via D’Amelio ha ammesso di avere anticipato a Paolo Borsellino – ma solo riservatamente, per timore della propria vita – quanto egli sapeva sul progetto macro politico stragista elaborato da intelligenze esterne e discusso dai massimi vertici regionali di Cosa Nostra riuniti in conclave segreto nella provincia di Enna, progetto rimasto poi celato alla manovalanza mafiosa e persino a molti vertici della Commissione provinciale di Palermo.
Quali che fossero le notizie apprese, doveva comunque trattarsi di rivelazioni che lo avevano lasciato sgomento, quasi avesse assunto consapevolezza di doversi misurare con un potere così grande da travalicare quello mafioso e dinanzi al quale non aveva difese.
Tanto sgomento da indurlo a confidare alla moglie che sarebbe stata la mafia ad ucciderlo ma solo quando altri lo avrebbero voluto.
Chi erano questi altri? Forse le tracce per individuarli erano annotate in quella agenda rossa dalla quale Paolo mai si separava e che custodiva gelosamente.
Ma questo è solo uno dei tanti tasselli mancanti del mosaico.
A tutt’oggi non sappiamo chi fu l’artificiere della strage, il soggetto cioè dotato delle sofisticate competenze tecniche necessarie per mettere a punto il congegno esplosivo e garantire la riuscita dell’operazione.
Ed ancora non sappiamo chi era il soggetto esterno a Cosa Nostra che, come ha dichiarato il collaboratore Gaspare Spatuzza, sovraintendeva alle operazioni di caricamento dell’esplosivo nell’ autovettura poi collocata in via D’Amelio.
Ed ancora non sappiamo a chi si riferisse Francesca Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Mario Santo Di Matteo, quando disperata per il rapimento del loro figlio Giuseppe avvenuto il 23 novembre 1993, scongiurò il marito di non parlare ai magistrati degli infiltrati della Polizia implicati nella strage di via D’Amelio, come risulta da una intercettazione ambientale del colloquio tra i due coniugi del 14 dicembre 1993 agli atti del processo per la strage di via D’Amelio.
Potrei continuare con un lungo elenco di altre tessere ancora mancanti.
Sono dunque tanti i fatti rilevanti che non conosciamo e che sembrano chiamare in causa livelli di coinvolgimento nella esecuzione della strage che travalicano quello mafioso.
Livelli superiori che vengono evocati anche da altri fatti che invece conosciamo, pure ancora avvolti nell’ombra, e che dimostrano come le indagini sulla strage abbiano subito gravi interferenze esterne volte ad impedire il pieno accertamento della verità, replicando così quanto era già avvenuto in passato in quasi tutte le indagini relative alle stragi italiane, come ho prima ho ricordato.
Mi riferisco alla sottrazione dell’agenda rossa di Paolo e all’introduzione nel processo per la strage di via D’Amelio di falsi collaboratori di giustizia (Vincenzo Scarantino ed altri), che tutto ignoravano della strage, e che furono indottrinati per dire il falso ingannando i magistrati.
Se le considerazioni sin qui svolte hanno almeno in parte un fondamento, possiamo dunque concludere che a distanza di 22 anni dalla strage di via D’ Amelio, non sappiamo ancora che storia raccontare a noi stessi e ai nostri figli. Siamo privi della verità o di parti essenziali di essa. La privazione della verità non è solo un vulnus alla giustizia, perché non consente di accertare le responsabilità penali ed irrogare le giuste pene. Vi è un danno ancora più grande, se possibile. La privazione della verità non consente di elaborare il lutto per la perdita subita, non consente di acquietarsi consegnando questa ed altre vicende ad un passato tragico ma ormai concluso. La privazione della verità non consente alle ferite di chiudersi. La strage di via D’Amelio resta ancora una ferita aperta per l’intera nazione e rischia di divenire l’ennesima sconfitta di un paese che dinanzi all’ininterrotto stragismo che ha insanguinato la sua storia, si è sino ad oggi rivelato incapace di fare i conti con i lati oscuri del proprio passato.
Un passato che, quindi, sembra destinato ad essere rimosso nell’oblio, oppure ad essere coperto sotto il sudario di una retorica commemorativa secondo cui gli unici responsabili del male di mafia sono sempre e solo stati i macellai di Cosa Nostra.
A differenza di tante altre lapidi commemorative delle vittime delle mafia che recano frasi celebrative, la lapide posta in via D’Amelio reca solo i nomi di battesimo di Paolo, Agostino, Claudio, Emanuela, Vincenzo, Walter. Null’altro. Come se quella lapide ricordasse a tutti noi che ancora attendiamo di sapere quali siano le parole giuste da scrivere e quale fu la storia che quel terribile 19 luglio 1992 trascinò nel suo gorgo malefico le loro vite.
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